Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 07

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niente, e dalla Chiesa non aveva i danari, come la sua follia avea
stimato: i soldati conoscendo loro tempo, essendo a pagare di parecchi
mesi di loro propi soldi, senza le promesse del conte, dissono, che di
quel luogo non si partirebbono, se prima non fossono pagati de’ loro
soldi serviti, e delle paghe doppie e mesi compiuti che promessi avea
loro. Il quale soldo, colle promesse fatte, montava centocinquanta
migliaia di fiorini d’oro. Il conte vedendo che la Chiesa non gli
mandava danari, se non a stento, e a pochi insieme, temette che i
soldati, ch’erano tutti di concordia, a uno volere non lo pigliassono,
trattò con loro d’avere termine da fare venire loro danari, e diede
loro in pegno messer Giovanni de’ Peppoli, e certi Bolognesi che avea
prigioni a Imola, e Castel san Pietro, e quello di Luco, e quello di
Doccia, ch’egli avea acquistati in sul Bolognese: e fu con loro in
accordo, come avessono la possessione di tutto, allora cavalcherebbono,
e porrebbonsi a campo stretto alla città di Bologna. Il conte fece
dare loro i prigioni e la guardia delle castella, e avutole, volea
che cavalcassono. I soldati colla corrotta fede, usati de’ baratti,
dissono che ’l pegno non era buono, e non voleano cavalcare nè partirsi
da Castel san Pietro. Messer Giovanni de’ Peppoli sentendo questo,
di presente ebbe de’ conestabili, e trattò con loro di dare contanti
fiorini ventimila d’oro, e per stadichi i suoi figliuoli e quelli
di messer Iacopo suo fratello, e certi cittadini di Bologna per lo
rimanente, ed elli li liberassono di prigione. L’accordo fu fatto
con assentimento del conte, se infra certo tempo la Chiesa non avesse
mandati i danari. Venuto il termine, e non i danari, i soldati presono
fiorini ventimila contanti, e gli stadichi promessi, e lasciarono
messer Giovanni, il quale tornò in Bologna, e il fratello e la parte
loro furono più forti, e signori di potere fare della città a loro
senno, senza la volontà e consiglio de’ loro cittadini, perocchè messer
Giovanni era molto temuto, e sapeva bene essere co’ soldati ne’ fatti
della guerra.

CAP. LXVII.
_Come messer Giovanni tenne suoi trattati della città di Bologna._
Tornando messer Giovanni in Bologna, e lasciati a’ soldati della
Chiesa gli stadichi promessi, trovò la città in molto male stato per
le cagioni già dette, e non vide modo come difendere si potesse, e
conobbe che perdere gli convenia la signoria di Bologna in breve tempo.
I cittadini di Firenze, che desideravano l’accordo di quella città
colla Chiesa, sentendo tornato in Bologna messer Giovanni, vi mandarono
de’ loro cittadini più solenne ambasciata, i quali da’ tiranni furono
ricevuti a onore, e di loro volontà trattarono accordo col conte, e
condussono il trattato a questo punto. Che i tiranni lasciassono al
tutto la signoria della città e contado, e renderla alla Chiesa di
Roma per lo modo usato: ch’ella tornasse al governamento del popolo,
e avere continuo i rettori della Chiesa, e pagare il censo consueto;
e al presente voleano ricevere nella città il conte con cinquecento
cavalieri, e riformare doveano loro stato al popolo, per quelli
cittadini che ’l comune di Firenze vi mandasse a ciò fare. Il conte
che avea provati i rimprocci de’ soldati, e il pericolo che correa
con loro, dichinava le corna della sua superbia, e acconciavasi alla
detta concordia. Ma come pomposo e vano, si strinse al consiglio di
questo partito che potea pigliare con messer Guglielmo da Fogliano,
e con messer Frignano, figliuolo bastardo di messer Mastino, e altri
conestabili che v’erano per messer Mastino, i quali non v’erano tanto
per onore di santa Chiesa, quanto per loro vantaggio, per cui faceva
la guerra, e speravano con loro malizia conducere la città di Bologna
piuttosto in mano del loro signore, che del conte e della Chiesa di
Roma, i quali dissono al conte: tu vedi che i signori di Bologna non
possono più, e la città è condotta a tanta stremità dentro, che delle
mani tue non puote uscire: e però non pensare a questi patti, che noi
te ne faremo libero signore colla spada in mano. Il conte pomposo,
pieno di vanagloria, con lieve testa, non pensò i casi che occorrono
nelle guerre, e per le vane promesse de’ fallaci adulatori ruppe il
trattato menato per gli ambasciadori del comune di Firenze fedelmente,
a onore e a beneficio di santa Chiesa, e a ricoveramento di riposo al
fortunoso stato di quella città. Vedendo i tiranni la sconcia volontà
del conte, si pensarono con tradimento de’ loro cittadini e della loro
patria venire a un altro loro intendimento, già mosso per la malizia
e per lo sdegno di messer Giovanni; e però, acciocchè più copertamente
a’ loro cittadini potessono fare l’inganno, dissono che al tutto erano
diliberati mettere Bologna nella guardia del comune di Firenze. E a
questo i Bolognesi e grandi e piccoli di buona voglia s’accordarono,
e sotto questa concordia elessono tre de’ maggiori cittadini di cui
il popolo faceva maggiore capo, e quasti tre con altri compagni, e con
pieno mandato, mandarono a Firenze con diversi intendimenti. Il popolo
credendosi racquistare libertà e pace sotto la protezione del comune di
Firenze, e i tiranni avendone tratti i caporali del popolo, pensarono
senza contasto, come fatto venne loro, di venire a loro intendimento,
di potere vendere la città e i suoi cittadini all’arcivescovo di
Milano. Gli ambasciadori in fede e con grandissima affezione vennono
a Firenze, e spuosono la loro ambasciata, solennemente dinanzi a’
signori, e a’ loro collegi, e a molti altri grandi e buoni cittadini
di Firenze, richiesti e adunati per la detta cagione. E il dicitore
fu messer Ricciardo da Saliceto, famoso dottore di legge, e la sua
proposta fu: _Ad Dominum cum tribularer clamavi, ec._ E con nobile
ed eccellente orazione, e con efficaci ragioni e induttivi argomenti,
conchiuse la sua dimanda, a inducere il comune di Firenze a prendere
la guardia della città e de’ cittadini di Bologna. I governatori del
comune di Firenze già aveano alcuna spirazione del trattato ch’e’
tiranni di Bologna aveano col signore di Milano, e comprendevano che
questi ambasciadori fossono mandati a inganno: nondimeno per non aversi
a riprendere, in quello consiglio deliberarono di mandare solenni
ambasciadori di presente a corte per trovare accordo col papa, e in
questo mezzo di mandare cavalieri, e de’ suoi cittadini alla guardia di
Bologna, per contentare il popolo. Ma l’altro dì vegnente fu manifesto
a’ signori di Firenze e agli ambasciadori di Bologna, che i tiranni
l’aveano per danari venduta all’arcivescovo di Milano; e fu per lettera
de’ tiranni detti comandato agli ambasciadori, che non si dovessono
partire di Firenze senza loro comandamento; allora fu al tutto la cosa
palese, e seguitò il fatto come appresso racconteremo.

CAP. LXVIII.
_Secondo trattato di Bologna._
Messer Giovanni de’ Peppoli avvelenato di sdegno della sua presura,
vedendo che però perdea la tirannia di Bologna, avendo con non
piccola fatica recato Messer Iacopo al suo volere, e vota la terra de’
caporali di cui temea, e fortificata la guardia nella città, avendo
segretamente tenuto trattato coll’arcivescovo di Milano, coll’impeto
del suo dispettoso cuore, ebbe podere di vendere la città e’ suoi
cittadini della sua propria patria, e da cui avea ricevuto esaltamento
della sua signoria e onore, e niente per loro difetto del suo caso,
cosa molto detestabile a udire. Costui vedendo che ’l suo trattato era
scoperto, cavalcò di presente a Milano, e fermò la maledetta vendita
per dugentomila fiorini, de’ quali si dovea dare certa parte a’
soldati della Chiesa per riavere gli stadichi che avea loro lasciati
per liberare la sua persona, e a lui e al fratello dovea rimanere in
loro libertà il castello di san Giovanni in Percesena, e Nonandola e
Crevalcuore. E tornato lui, manifestata la vendita, i Bolognesi grandi
e piccoli si tennono soggiogati di giogo d’incomportabile servaggio, e
molto si doleano palesemente e in occulto l’uno coll’altro; e innanzi
che la terra si pigliasse per lo signore di Milano grande gelosia
ebbono i traditori della patria, e molto vegghiarono e di dì e di notte
alla guardia della città. Ma i vili e codardi cittadini non ardirono
di levarsi contra a’ tiranni, nè a muovere romore nella terra: che se
fatto l’avessono, leggiermente coll’aiuto del comune di Firenze, a cui
dispiaceva la vicinanza di sì potente tiranno, sarebbe venuto fatto
di tornare in libertà. Alcuna trista vista ne feciono mollemente, e
in fine si lasciarono vendere e sottoporre al duro giogo, del mese
d’ottobre gli anni di Cristo 1350.

CAP. LXIX.
_Come l’arcivescovo di Milano mandò a prendere la possessione di
Bologna._
Come l’arcivescovo di Milano ebbe fermo il patto della compera di
Bologna con messer Giovanni, non guardò con alcuna reverenzia o debito
di ragione che la città fosse di santa Chiesa, ma cresciuto nella
tirannesca superbia subitamente fece apparecchiare messer Bernabò
suo nipote, figliuolo di messer Stefano, valente uomo e di grande
ardire, e con millecinquecento barbute di soldati eletti il mise a
cammino, e mandollo a pigliare la tenuta di Bologna. Sentendo questa
venuta il doge Guernieri, ch’era in bando dell’arcivescovo di Milano,
con tutta sua masnada si partì di Bologna; e standosi fuori della
città, accogliea gente senza soldo per fare una compagna. Messer
Bernabò giunto alla città entrò dentro senza alcuno contasto co’ suoi
cavalieri, e con trecento che prima avea alla guardia di Bologna vi
si trovò con millecinquecento barbute: e prese la tenuta e la guardia
della città e delle castella di fuori, e appresso convocò i cittadini
a parlamento, e per forza fece loro ratificare la vendita fatta per
i tiranni, e dinuovo aggiudicarsi fedeli dell’arcivescovo e de’ suoi
successori. E l’obbligazioni e le carte e il saramento fece fare il
meglio seppe divisare; e questo fu fatto all’uscita del mese d’ottobre
1350. E così ebbe fine la tirannia della casa di Romeo de’ Peppoli,
grandi ed antichi cittadini di Bologna, i quali erano stati onorati
e fatti signori da’ loro cittadini, dalla cacciata del cardinale del
Poggetto legato del papa, i quali aveano loro signoria mantenuta assai
dolcemente co’ cittadini. Essendo di natura guelfi, per la tirannia
erano quasi alienati dalla parte, e i Fiorentini, amicissimi di quello
comune, trattavano in molte cose con dissimulata e corrotta fede; e
perocchè a’ traditori della patria tosto pare che Iddio apparecchi la
vendetta, in breve tempo seguitò a messer Iacopo e a messer Giovanni,
per addietro tiranni di Bologna, pena del peccato commesso, come
seguendo nostra materia racconteremo.

CAP. LXX.
_Come capitò il conte di Romagna e l’oste della Chiesa._
Il conte di Romagna ventoso di superbia, e incostante per poco senno,
il quale cotante volte potè avere con grande sua gloria e onore di
santa Chiesa la città di Bologna, e non volutola se non colla spada
in mano, secondo il consiglio de’ malvagi compagni, vedendola nelle
mani del potente tiranno, vorrebbe avere creduto al consiglio de’
Fiorentini. Non però dimeno, perocchè per tutto questo la città non era
allargata di vittuaglia, ma piuttosto aggravata, e’ soldati erano per
gli stadichi che aveano, per li ventimila fiorini ricevuti, allargati
di speranza, e messer Mastino che dell’impresa dell’arcivescovo era
dolente a cuore, offerendo al conte tutto suo sforzo di gente e di
prestare danari alla Chiesa, confortò il conte a seguitare l’impresa.
Il conte per questo si recò a conducere il doge Guernieri con
milledugento barbute, uscito di Bologna, e raccolta gente come detto
è. Messer Mastino anche vi mandò di nuovo de’ suoi cavalieri, e danari
per comportare i soldati. E il conte fatte grandi impromesse a’ soldati
mosse il campo da Castel san Pietro e venne con l’oste a Budri, in
mezzo tra Bologna e Ferrara, e di là valicarono ad Argellata e a san
Giovanni in Percesena, e ivi stettono dieci dì aspettando danari, con
intenzione di porsi presso a Bologna dalla parte di Modena, per levare
ogni soccorso a messer Bernabò: il quale era dentro in grande soffratta
di vittuaglia e di strame, e male veduto da’ cittadini, e però stava
in paura e non s’ardiva a muovere. Onde la città era a partito da
non poter durare: e per forza convenia che tornasse alle mani della
Chiesa, se il pagamento o in tutto o in parte fosse venuto a’ soldati.
Ma chi si fida ne’ fatti della guerra alla vista delle prime imprese
de’ prelati, e non considera come la Chiesa è usata a non mantenere le
imprese, spesso se ne truova ingannato. E’ non valse al conte scrivere
al papa, nè mandare ambasciadori, nè tanto mostrare come Bologna si
racquistava con grande onore di santa Chiesa, assai potè dolere la
vergogna, che l’arcivescovo di Milano facea d’avere tolta Bologna, che
danari debiti a’ soldati, per vincere così onorevole punga, venissero
da corte. Per tanto i soldati non si vollono strignere a Bologna, anzi
di loro arbitrio mossero il campo e tornarono a Budri, e ivi ch’era
luogo ubertuoso, e che ’l marchese dava copioso, si misono ad attendere
se i danari de’ loro soldi e dell’altre promesse venissero: e ivi
dimorarono infino a dì 28 di gennaio del detto anno, e però i danari
non vennono. Per la qual cosa al conte parea male stare, e per paura
di se consentì a’ soldati che trattassero d’avere le paghe sostenute e
le paghe doppie promesse per lui da messer Bernabò, condotto in parte
per la sua mala provvedenza, che altro non poteva fare; rimanendogli
alcuna vana speranza, che se messer Bernabò non si accordasse con loro,
che gli farebbono più aspra guerra, ma il tiranno s’accordò di presente
ad accordarli e pagarli, e riavere le castella e li stadichi; e questo
fornì de’ danari della compra che avea fatta di Bologna. In questo
medesimo trattato, condusse settanta bandiere di Tedeschi e Borgognoni
soldati della Chiesa al suo soldo. Ed essendo assediato, in cotanto
pericolo ricolse gli stadichi, riebbe le castella, ruppe l’oste de’
nimici, liberò la città dell’assedio, e in uno dì mise in Bologna in
suo aiuto de’ cavalieri della Chiesa millecinquecento barbute; e tutto
gli avvenne per l’avarizia de’ prelati di santa Chiesa, e per la forza
e larghezza della sua pecunia. Il doge Guernieri colla sua compagna
si ridusse in Doccia, e la gente di messer Mastino e del marchese di
Ferrara si tornarono a’ loro signori: e il conte povero e vituperato
del fine della sua impresa si tornò co’ suoi Provenzali in Imola,
e Bologna si rimase sotto il giogo del potente tiranno, mettendo in
paura tutta Italia, e spezialmente la parte guelfa. Abbiamo stesamente
narrato il processo di questa guerra per esempio del pericolo che corre
de’ folli e ambiziosi capitani: e come per troppa superbia spesse volte
volendo tutto si perde ogni cosa: e a dimostrare come è folle chi ha
fidanza de’ danari della Chiesa far le imprese della guerra. Ancora
questa rivoltura di Bologna fu cagione d’apparecchiare a tutta Italia,
per lunghi tempi, grandi e gravi novità di guerre, come seguendo nostro
trattato si potrà vedere.

CAP. LXXI.
_Come i Guazzalotri di Prato cominciarono a scoprire loro tirannia._
Tornando a’ fatti della nostra città di Firenze, il nobile castello
di Prato ci dà cagione di cominciare da lui, nel quale la famiglia
de’ Guazzalotri erano i migliori e più potenti, e la loro grandezza
procedeva perocchè erano amati sopra gli altri di quella terra dal
comune di Firenze: ed essendo guelfi, portavano fede e ubbidienza
grande al nostro comune. Vero è che quello comune vedendosi in
libertà e in vicinanza de’ Fiorentini, per tema che alcuna volta
non si sommettessono al comune di Firenze aveano provveduto, come si
racconta nella cronica del nostro antecessore, di darsi a messer Carlo
duca di Calavra, figliuolo del re Ruberto, e a’ suoi discendenti in
perpetuo, con misto e mero imperio, ed egli così gli prese. Nondimeno
si manteneano in fede e amore del comune di Firenze. Avvenne che
morti gli antichi e savi cavalieri della casa de’ Guazzalotri, i
quali conoscevano la loro grandezza procedere dal comune di Firenze,
rimasonvi giovani donzelli: i quali trovandosi nella signoria di quella
terra, mancando allora il governamento della casa reale per le fortune
del Regno, cominciarono i giovani a trapassare l’ordine e il modo de’
loro antecessori nel governamento di quel castello, conducendolo a
modo tirannesco. Della quale tirannia spesso veniva richiamo a’ priori
di Firenze, e il comune per lo antico amore che portava a quelli di
quella casa mandava pe’ caporali, tra’ quali il maggiore e il più
ardito e riverito da tutti a quelle stagioni era Iacopo di Zarino, e
riprendevanli e ammonivano parentevolemente per riducerli alla regola
de’ loro maggiori. Ma i giovani caldi nella signoria e poco savi, e
inzigati da mal consiglio, non seguendo il consiglio de’ Fiorentini,
l’un dì appresso all’altro più dimostravano atto tirannesco per tenere
in paura più che in amore i loro terrazzani. E per dimostrare in
fatto quello che aveano nella mente, feciono di subito pigliare due
Pratesi, l’uno era uno buono uomo ricco, vecchio e gottoso, l’altro
era un giovane notaio ricco, onesto e di leggiadra conversazione a
cui i Guazzalotri a altro tempo aveano fatto uccidere il padre, e a
questi due appuosono, che voleano tradire Prato, e darlo a’ Cancellieri
di Pistoia. Sentendo questo il comune di Firenze mandò per Iacopo di
Zarino, e per gli altri caporali de’ Guazzalotri, e pregarongli che non
seguissono questa novità, e che i presi dovessono lasciare: perocchè
manifestamente sapieno ch’elli erano innocenti: tornarono a Prato, e
contro alla preghiera del comune di Firenze strussono gl’innocenti al
giudicio: e sentendosi in Firenze, il comune vi mandò ambasciadori e
lettere; ed essendovi gli ambasciadori del comune, e avute le lettere
che gli richiedeano che non giudicassono a torto g’innocenti, i
tirannelli per male consiglio s’affrettarono, e feciongli morire in
vergogna del comune di Firenze, nella presenza de’ suoi ambasciadori. E
fatto a catuno tagliare la testa, occuparono i loro beni indebitamente.

CAP. LXXII.
_Come i Fiorentini andarono a oste a Prato, ed ebbonne la signoria._
I Fiorentini vedendo la novità delle guerre d’Italia che da ogni
parte s’apparecchiavano con tiranneschi aguati, e come avieno la
nuova vicinanza del potente tiranno di Milano che teneva Bologna, e
così messer Mastino, e vedeano che i Guazzalotri, congiunti per sito
alle porti della città di Firenze, cominciavano a usare tirannia,
pensarono che se possanza di grande tiranno s’appressasse loro, come
s’apparecchiava, che della terra di Prato poco si poteano fidare. E
però con buono consiglio, subitamente e improvviso a’ Pratesi, del mese
di settembre gli anni _Domini_ 1350, feciono cavalcare le masnade de’
cavalieri soldati del comune, con alquanti cittadini e pedoni delle
leghe del contado, e d’ogni parte si puosono a campo intorno a Prato, e
senza fare preda o guasto, domandarono di volere la guardia di quella
terra. I Pratesi smarriti del subito avvenimento, e non provveduti
alla difesa, e avendo nella terra molti a cui la novella tirannia de’
Guazzalotri dispiaceva, senza troppo contasto furono contenti di fare
la volontà del comune di Firenze. E sicurati da’ cittadini che danno
non si farebbe, dierono al comune di Firenze liberamente la guardia di
Prato, rimanendo a’ terrazzani la loro usata giurisdizione. E il comune
prese il castello dello imperadore e misevi castellano, e fece la terra
guardare solennemente.

CAP. LXXIII.
_Come i Fiorentini comperarono Prato, e recaronlo al loro contado._
Avendo il nostro comune la guardia di Prato presa contro la comune
volontà de’ terrazzani, pensò che se mai tornasse in libertà, che
i giovani in cui mano era rimasa la signoria con provvedenza la
guarderebbono e la recherebbono a tirannia lievemente: e però sentendo
il re Luigi e la reina Giovanna ereda del duca di Calavra, tornati
di nuovo nel Regno, e che erano in fortuna e in grande bisogno,
e governavansi per consiglio di messer Niccola Acciaiuoli nostro
cittadino, feciono segretamente trattare di comperare la giurisdizione
ch’aveano in Prato. E trovando la materia disposta per lo bisogno
del re e della reina, e bene favoreggiata da messer Niccola detto,
il mercato fu fatto, e pagati per lo comune fiorini diciassettemila
e cinquecento alla reina, come fu la convegna, per solenni privilegi
e stipulazioni pubbliche dierono al comune di Firenze ogni ragione e
misto e mero imperio ch’aveano nella terra di Prato e nel suo contado.
E come il comune ebbe la ragione di questa compera, improvviso a’
Pratesi mandò alcuna forza a Prato e prese la tenuta di nuovo, e fece
manifestare a’ Pratesi come la terra e il contado e gli uomini di quel
comune erano liberi del nostro comune per la detta compera, e mostrar
loro i privilegi e le carte; e questo fu del mese di... nel detto
anno. E presa la tenuta, incontanente levò le signorie, gli ordini
e gli statuti de’ Pratesi, e recò la terra e il contado a contado di
Firenze, e diede l’estimo e le gabelle a quello comune come a’ suoi
contadini, e diede loro quelli beneficii della cittadinanza e degli
altri privilegi ch’hanno i contadini di Firenze: e ordinovvi rettori
cittadini con certa limitata giurisdizione, recando il sangue e l’altre
cose più gravi alla corte del podestà del comune di Firenze. Della qual
cosa i Pratesi vedendosi avere perduta la loro franchigia, generalmente
si tennono mal contenti, ma poterono conoscere per non sapere usare
libertà divenire suggetti: e per la provvisione fatta di non venire
alla signoria de’ Fiorentini, con quella in perpetuo furono legati alla
sua giurisdizione.

CAP. LXXIV.
_Come i guelfi furono cacciati dalla Città di Castello._
In questo anno, essendo ne’ collegi del reggimento di Perugia insaccati
per segreti squittini gran parte de’ ghibellini, de’ quali a quel tempo
n’erano i più all’ufficio, per operazione di Vanni da Susinana e degli
altri Ubaldini della Carda, ch’erano cittadini della Città di Castello,
fu messo in sospetto de’ Perugini la casa de’ Guelfucci, antichi
cittadini e guelfi, ed altri guelfi, apponendo loro che trattavano di
dare la Città di Castello a’ Fiorentini, e aggiungendovi alcuna altra
cagione, mossono il reggimento di Perugia, senza cercare la verità del
fatto, a fare cavalcare a Castello tutti i loro soldati, e per forza
cacciarono i Guelfucci di Castello e certi altri, i quali di queste
cose non erano colpevoli, e non si guardavano. Come gli Ubaldini ebbono
fornita la loro intenzione, tutti si vestirono di bianche robe, e
andarono a Perugia colle carte bianche in mano, offerendo al comune
di fare tutta la sua volontà: scrivessono, ed elli affermerebbono. Ma
poco stante, entrato a reggimento il nuovo uficio del loro priorato,
uomini i più guelfi, s’avvidono dello inganno che il loro comune avea
ricevuto, di cacciare i caporali di parte guelfa di Castello per malo
ingegno degli Ubaldini, e in furia arsono e ruppono i sacchi de’ loro
ufici, e di nuovo riformarono la città, mettendo ne’ sacchi per loro
squittini cittadini guelfi, e ischiusonne i ghibellini; e di presente
rimisono i Guelfucci nella Città di Castello, e confinaronne gli
Ubaldini.

CAP. LXXV.
_Come morì il re Filippo di Francia._
Stando la tregua, rinnovellata più volte tra il re di Francia e il
re d’Inghilterra, poche notabili cose degne di memoria furono in
que’ paesi. Ma il detto re Filippo di Francia, avendo per troppa
vaghezza tolta per moglie la nobile e sopra bella dama figliuola del
re di Navarra, e levatala al figliuolo come abbiamo narrato, tanto
disordinatamente usò il diletto della sua bellezza, che cadendo
malato, la natura infiebolita non potè sostenere, e in pochi dì
diede fine colla sua morte alla sollecitudine della guerra, e a’
pensieri del regno e ai diletti della carne. E morto in Sanlisi,
fu recato il corpo in Parigi, e fatto il reale esequio solennemente
nella presenzia de’ figliuoli e de’ baroni del reame, e sepolto co’
suoi antecessori alla mastra chiesa di san Dionigi, a dì... gli anni
_Domini_ 1350. Immantinente appresso nella città di Rems fu coronato
del reame di Francia messer Giovanni suo figliuolo primogenito, e
la moglie in reina, e ricevette il saramento e l’omaggio da tutti
i baroni e da tutti gli altri feudatari del suo reame e dell’altro
acquisto. Questo Filippo re di Francia fu figliuolo di messer Carlo
Sanzaterra, e fu uomo di bella statura, composto e savio delle cose
del mondo, e molto astuto a trovar modo d’accogliere moneta, e in
ciò non seppe conservare nè fede nè legge. E sentendosi molto in
grazia e temuto da papa Giovanni ventiduesimo, per l’openione che
sparta avea disputando della visione dell’anime beate in Dio, la cui
openione per li teologi del reame di Francia era riprovata, e perchè
il collegio de’ cardinali erano tutti quasi fuori de’ Catalani, di
suo reame, e per questa baldanza ebbe animo d’ingannar santa Chiesa,
sotto la promessa di mostrare di volere fare passaggio oltre mare per
racquistare la Terra santa: e per questo domandò per cinque anni le
decime del suo reame a ricogliere in breve tempo, non avendo l’animo
al passaggio, come appresso l’opere dimostrarono. E nel suo reame
mutò spesso e improvviso monete d’oro, peggiorandole molto e di peso
e d’oro: per le quali mutazioni disertò e fece tornare i mercatanti di
suo reame di ricchezza in povertà: e’ suoi baroni e borgesi assottigliò
d’avere per modo, che poco era amato da loro per questa cagione. Onde
apparve quasi come sentenzia di Dio, che avendo egli cotanta baronia e
moltitudine di buoni cavalieri, i quali solieno essere pregiati sopra
gli altri del mondo in fatti d’arme, non s’abboccavano in alcuna parte
con gl’Inghilesi, che non facessono disonore al loro signore: ove per
antico gli aveano in fatti d’arme sopra modo a vile. E molte singulari
gravezze sopra la mercatanzia e sopra uomini singulari mise, onde
molti mercatanti forestieri n’abbandonarono il reame; e non ostante che
spesso fosse percosso dal bastone degl’Inghilesi, al continovo il re
accrescea il suo reame per le infortune degli altri circustanti baroni,
e per l’aiuto de’ suoi danari. Lasciò due figliuoli il re: messer
Giovanni e messer Luigi duca d’Orliens: e quattro nipoti figliuoli
del re Giovanni: il maggiore nominato messer Carlo Dalfino di Vienna
e duca di Normandia, l’altro nominato Luigi duca d’Angiò, il terzo
messer Giovanni conte di Pittieri, e il quarto messer Filippo piccolo
fanciullo: e tre femmine: la prima moglie del re di Navarra, la seconda
monaca del grande monistero di Puscì, e la terza nominata Caterina,
picciola fanciulla, la quale fu poi moglie di messer Giovan Galeazzo
de’ Visconti di Milano, come a suo tempo diviseremo.

CAP. LXXVI.
_Come la Chiesa rinnovò processo contra l’arcivescovo di Milano._
In questo anno, avendo saputo il papa e’ cardinali come l’arcivescovo
di Milano per loro mandato non s’era voluto rimuovere dell’impresa
di Bologna, ma contro a loro volontà, e in vitupero della Chiesa,
avea presa la città e rotta l’oste della Chiesa e del conte, furono
molto turbati. E ricordandosi come l’arcivescovo era stato infedele,
e rinvoltosi nella resia dell’antipapa e fattosi suo cardinale, e poi
tornato all’ubbidienza di santa Chiesa era ricevuto a misericordia
da papa Giovanni ventesimosecondo, e riconciliato, il fece vescovo
di Novara, e poi per Clemente sesto promosso e fatto arcivescovo di
Milano, e ora ingrato era tornato nella prima eresia, di non volere
avere riverenzia nè ubbidire a santa Chiesa: rinnovellarono contro
a lui e contro a’ suoi nipoti i processi altre volte fatti per papa
Giovanni predetto, e feciono richiedere l’arcivescovo, e messer
Galeazzo, e messer Bernabò, e messer Maffiuolo di messer Stefano
Visconti, e assegnarono loro i termini debiti che s’andassono a
scusare, e gli ultimi termini perentori furono a dì 8 d’aprile 1351.
Infra il termine del detto processo vedendo il papa e’ cardinali per
la loro avarizia, in vituperio, delle loro persone e in contento di
santa Chiesa, tolta tutta la Romagna e la città di Bologna, volendo
con ingegno unire in lega e compagnia gli altri tiranni lombardi, col
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