Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 01

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CRONICA
DI
MATTEO
VILLANI

A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA
COLL’AIUTO
DE’ TESTI A PENNA
TOMO I.

FIRENZE
PER IL MAGHERI
1825


_AI LETTORI_
L’EDITORE IGNAZIO MOUTIER.

_Matteo Villani continuatore della Cronica di Giovanni è reputato
inferiore all’ultimo e per la lingua e per lo stile: ma quanto sia
ingiusto un giudizio sì decisivo emesso in vari tempi da accreditati
scrittori, e sempre ciecamente ripetuto, lo dimostra la medesima opera
sua, a coloro che si dilettassero di farne uno studio più diligente.
L’accusa datagli di diffuso scrittore è tanto essenzialmente falsa,
che sembra pronunziata da uomo mal prevenuto, o che non abbia mai
conosciuta l’opera che li piacque di condannare. Ma la cagione primaria
per cui pochi fino ad ora si dedicarono a studiare la Cronica di
Matteo, è stata certamente la pessima forma con la quale fu sempre
pubblicata nelle poche edizioni che ne furon fatte fino a questo
giorno. La buona volontà d’un lettore paziente si stanca facilmente
alla lettura d’un’opera condotta senz’ombra d’ortografia, e che trovi
ad ogni passo periodi intralciati, voci fuor di luogo, omissioni
d’ogni genere, e dei versi ancora ripetuti, e in tale stato sono le
tre edizioni eseguite dai Giunti in epoche differenti, e che tutte si
trovan citate nel Vocabolario degli Accademici della Crusca. È cosa
veramente da deplorarsi con quanta negligenza siano state impresse
nel secolo decimosesto molte opere classiche di nostra lingua.
L’esperienza di fatto mi fece conoscere, che molti editori di opere
di classici antichi scrittori, cominciando poco avanti la metà del
secolo decimosesto fino verso la fine di esso, avevano adottato un
certo loro particolar sistema di variare a capriccio la lezione dei
codici antichi, in quei luoghi che discordavano dalla loro maniera di
vedere e d’intendere, sostituendo e togliendo a vicenda voci e talvolta
interi periodi, senza altra ragione che il loro singolarissimo sistema.
Questo intollerabile abuso di torta critica guastò talmente gli scritti
di molte opere classiche, che i giudizi che ne furon fatti di esse da
chi s’affidò ciecamente alle stampe del cinquecento senza ricorrere ai
manoscritti son da tenersi per inesatti e non veri. Quanta verità possa
avere l’accusa che io do agli editori del cinquecento lo mostrerebbero
abbastanza l’edizioni di Giovanni e di Matteo Villani eseguite in quel
secolo, ma più luminosamente potrò dimostrarlo fra qualche tempo, se
la fortuna mi concede il mezzo di dare al pubblico l’opere tutte d’un
sommo scrittore, che già da qualche anno m’occupo con paziente studio
alla loro emendazione._
_Lorenzo Torrentino fu il primo a pubblicare in un volumetto,
in Firenze nel 1554, i soli primi quattro libri della Cronica di
Matteo Villani, corretti quanto poteva ottenersi in quel tempo da
una prima edizione di un’opera che si traeva da antico manoscritto.
Filippo e Iacopo Giunti stampatori in Firenze, commessero nel 1562 a
Domenico Guerra e Giovan Battista suo fratello stampatori in Venezia
l’impressione della Cronica di Matteo, la quale non giunse oltre il
cap. 85 del libro nono. Nella dedica che fanno i Giunti al principe
don Francesco de’ Medici in data del medesimo anno, vi si leggono
lusinghiere promesse di dare l’opera in quel modo appunto ch’ella
fu scritta dall’autore, avendone affidata la revisione ad _uomini
eccellentissimi, che ogni particella e ogni parola accomodarono
al luogo suo, ch’ella non uscì forse di mano a Matteo altramente
disposta_: ma ad onta di sì belle parole, quest’impressione fu reputata
scorretta dai medesimi Giunti, i quali nel 1581 la riprodussero più
emendata col soccorso d’un codice che allora esisteva presso Giuliano
de’ Ricci, premettendovi la medesima prefazione al principe don
Francesco senza mutar data. Quest’edizione benchè conti un capitolo di
più della prima in fine del libro nono contiene precisamente la stessa
materia, non variando che la materiale numerazione dei capitoli. Col
soccorso pure del codice di Giuliano de’ Ricci pubblicarono i Giunti
nel 1577 in Firenze i tre ultimi libri della Cronica di Matteo, così
da loro intitolati, ma che essenzialmente non sono che ventisette
capitoli che compiscono il nono libro, e il libro decimo e undecimo; di
questi ultimi libri ne fecero un’esatta ristampa nel 1596. La giunta
di Filippo comprende gli ultimi quarantadue capitoli dell’undecimo
ed ultimo libro. L’ultima edizione, e certamente la migliore della
Cronica di Matteo, fu pubblicata nel 1729 in Milano nel decimoquarto
volume della celebre collezione degli scrittori delle cose d’Italia di
Lodovico Antonio Muratori, procurata ed illustrata da Filippo Argelati.
In quest’edizione fu seguitata la stampa dei Giunti del 1581, e il
seguito impresso nel 1577; vi furono per altro aggiunte a piè della
pagina le varianti lezioni che furono tratte dal cavalier Marmi dal
codice Ricci, e da un altro manoscritto esistente allora presso il
prior Francesco Covoni; ma queste varie lezioni si trovano per la
maggior parte sì inutilmente abbondanti in principio dell’opera, come
scarseggianti dopo l’ottavo libro, da muovere ragionevolmente sospetto
che il cavalier Marmi si stancasse alla metà del suo faticoso lavoro.
In questa edizione fu con tanto scrupolo seguitata la lezione giuntina
che vi fu lasciata stare la medesima viziosa ortografia, a danno dei
poveri lettori, a’ quali è troppo grave nello studio degli antichi
classici questo barbaro sistema, che non è ancora spento del tutto._
_Da questo esatto ragguaglio dell’edizioni della Cronica di Matteo
e Filippo Villani fino ad ora pubblicate, è facile persuadersi del
bisogno di farne una nuova più accurata edizione, ma tal pensiero
venuto più volte in mente a uomini di molta dottrina, e amantissimi
della lingua italiana, svanì e venne meno allorchè cominciarono a
sentire il peso di questa spinosa fatica. Colui che sia nuovo affatto
di simili studi non può con approssimazione calcolare il lungo tedio
che richiedono i confronti d’opere stampate con i manoscritti, che
quasi sempre si trovano tra loro discordi nella lezione, o mancanti,
o inintelligibili, e quel che è peggio variati sovente dall’arbitrio
d’ignoranti copisti. Abituato com’io sono da molti anni a simili
studi, da me intrapresi con vero desiderio di recare con l’opera mia
qualche vantaggio agli amatori dei classici nostri, che sì deturpati
per la maggior parte erano stati impressi in antico, pubblicai già
è un anno la Cronica di Giovanni Villani (alla cui emendazione ebbi
l’assistenza un mio carissimo amico) e fin da quell’epoca contrassi
verso il pubblico l’obbligazione di dare alla luce ricorretta ed
emendata l’opera di Matteo e Filippo Villani, servendomi della lezione
del famoso codice Ricci. Questo codice cartaceo in foglio, di non
elegante ma buona forma di lettere, è scritto tutto d’una medesima
mano; ha in principio una breve nota che ci fa conoscere l’anno in
cui fu trascritto, così concepita: _Questo libro fu scritto l’anno
1378 da Ardingo di Corso de’ Ricci, e continuamente si conserva in
questa casa: e oggi, che siamo alli 6 di maggio 1608, è posseduto da
Ruberto di Giuliano de’ Ricci._ Su qual documento asserisca questo
Ruberto de’ Ricci che il codice sia stato scritto nel 1378 non è da
conoscersi tanto facilmente, ma di certo la scrittura è del secolo
in cui si vuole che sia stato copiato. Comincia il manoscritto con
la tavola delle rubriche o capitoli con le prime voci e i numeri dei
capitoli scritti in rosso, che occupano le prime diciotto carte; ne
segue poi la Cronica, che comprende carte trecentosettanta, con i
titoli de’ capitoli e la serie della loro numerazione in rosso. Questo
codice di buona conservazione, non va per altro esente dalla sorte che
hanno incontrato la maggior parte dei manoscritti, che per incuria o
ignoranza di chi gli ha avuti a mano si trovano oggi mutilati e mal
conci, poichè si hanno in esso mancanti le carte 299, e 384; mancava
pure la carta 108, che fu sostituita fino dall’anno 1573 da ignota
mano. La buonissima lezione che ha questo manoscritto fa chiara
testimonianza della diligenza del suo copista, che non deve essere
stato di que’ prezzolati emanuensi che in quel secolo flagellarono ogni
maniera di scritture, ma uomo al certo di qualche dottrina. E qui mi
sia lecito dar tributo d’obbligazione e di riconoscenza all’egregio
signor Commendatore Lapo de’ Ricci, che con tanta amorevolezza si
compiacque accordarmi l’uso per la presente edizione di questo prezioso
codice di Matteo Villani, scritto come parla l’antica tradizione da
Ardingo di Corso de’ Ricci, già di sopra menzionato, e che tuttavia si
conserva nella biblioteca di quest’illustre famiglia._
_Di questo codice adunque mi sono quasi interamente giovato nella
presente ristampa di Matteo Villani, come il più corretto e copioso
di quanti n’abbia veduti, ed ho solamente avuto ricorso alle varianti
del codice Covoni che esistono nell’accennata edizione dell’opera
di Matteo eseguita in Milano nel 1729, in quei pochissimi luoghi che
manifestamente erano errati. Due codici della libreria Riccardiana e
uno della Magliabechiana mi hanno fornito di qualche variante nel corso
dell’opera, la poca importanza delle quali mi disobbliga dal far di
essi un circostanziato ragguaglio._
_La presente edizione della Cronica di Matteo Villani potrebbe
ragionevolmente chiamarsi un’esatta copia del codice Ricci, se i
pochi luoghi che in esso si trovano errati non avessero domandato il
soccorso d’altri codici antichi per rettificarne gli errori. Così
avess’io potuto supplire con altri manoscritti alle lagune vistose
del codice Ricci, specialmente a quelle che s’incontrano ne’ tre
ultimi libri, ma il fatto mi ha dimostrato non esser questo un errore
da attribuirsi al copista, ma bensì all’autore medesimo, l’immatura
morte del quale gli tolse il modo di dar l’ultima mano all’opera sua,
giacchè tutti i manoscritti da me riscontrati, e non in piccol numero,
hanno sventuratamente lo stesso difetto, da toglier la speranza a ogni
accurato investigatore di rinvenire un giorno ciò che ora invano si
desidera. Quei passi per altro, che nell’edizioni eseguite dai Giunti
furono tolti per cagione de’ tempi, si troveranno in quest’edizione
restituiti al loro luogo, cioè al Cap. 93 del libro nono, e al Prologo
del libro undecimo._
_Il sistema che ho creduto dover seguitare in quest’edizione è stato il
medesimo che servì di norma alla pubblicazione del primo Villani, meno
che più libertà mi son preso intorno a’ nomi propri, avendone del tutto
banditi gl’idiotismi del tempo, che nulla han che fare con la lingua,
e che ad altro non servono che ad essere inciampo e noia al maggior
numero dei lettori. L’ortografia ho avuto cura che si presti totalmente
all’intelligenza del testo senz’altra regola speciale, semplicizzando
più che ho saputo l’andamento del periodo. Finalmente all’ultimo
volume vi ho posto l’indice generale, indispensabile ad un’opera di tal
natura, e un elenco di voci mancanti nel Vocabolario degli Accademici
della Crusca. In un volume di supplemento riprodurrò le vite degli
uomini illustri Fiorentini scritte da Filippo Villani, giovandomi
dell’edizione procurata dall’erudito Giammaria Mazzuchelli nel 1747 in
Venezia; e così mi compiacerò d’essere stato il primo a riunire in un
sol corpo tutte l’opere toscane de’ tre Villani, impresa molte volte
progettata e mai condotta a buon termine, per gl’infiniti ostacoli
ch’era d’uopo sormontare con lungo e pazientissimo studio._
_Il dovere mi obbligherebbe a premettere all’opera alcune notizie
intorno alla vita pubblica e privata di Matteo Villani, ma tanto scarsi
sono i documenti che lo riguardano, quanto inutili e infruttuose
sono state fino ad ora le ricerche di diligenti biografi. Il suo
figliuolo Filippo continuatore dell’opera del padre ci ha tramandata
l’epoca della di lui morte, la quale avvenne a dì 12 di luglio del
1363, anch’egli come il fratello Giovanni colpito dalla peste che da
molti anni lacerava quasi tutta Europa, ma specialmente la misera
Italia, senza che gli uomini riparassero a tanto loro esterminio.
Il Manni (Sig. Ant. T. 4. p. 75) ci addita due mogli ch’egli ebbe,
Lisa de’ Buondelmonti e Monna de’ Pazzi, e alcune altre notizie ci
riferisce illustrando l’albero di casa Villani, la più importante
è quella che Matteo come ghibellino fu da’ capitani di parte guelfa
ammonito. Di Filippo assai ne ragiona il diligentissimo Mazzuchelli
nella sua prefazione alle Vite degli Uomini illustri Fiorentini, la
quale pubblicherò nel settimo volume di quest’opera, premettendola
alle medesime Vite scritte da Filippo, procurando pure d’emendarle con
l’aiuto de’ manoscritti, benchè fino ad ora quelli che m’è avvenuto
riscontrare non meritano nessuna fiducia per essere troppo moderni, e
notoriamente variati dal capriccio de’ loro copiatori._
_Se questa mia non lieve fatica d’aver cercato di ridurre a miglior
lezione la Cronica di Matteo Villani non incontrerà in particolare
l’approvazione dei dotti, riscuoterà certamente il suffragio da tutti
quelli che s’esercitano nello studio dei nostri classici antichi,
che da un fonte più puro potranno trarre, con minor noia e fatica di
quel che far si potesse in addietro, preziosi documenti per l’istoria
e per l’incremento della lingua italiana. Così piaccia alla fortuna
d’accordare tal’ozio tranquillo ai dotti accademici della Crusca,
a’ quali è commesso l’incarico di nostra lingua, che applicar si
possano con vero studio all’emendazione di tanti classici, che ripieni
d’infiniti errori e mancanze, attendono ancora dalla critica di questo
secolo d’essere riprodotti nella loro vera e primitiva forma. Ad
alcuni onorevoli Accademici è debitrice la repubblica delle lettere
di alcune opere riprodotte nella loro originalità, e di altri se
ne desiderano tuttavia le studiose fatiche, ma troppe opere ancora
rimangono da emendarsi, e dell’inedite da pubblicarsi, che il loro
numero e la loro importanza può giustificare qualunque lamento che
se ne faccia. Sia loro di massimo incitamento l’esempio dell’ottimo
nostro Sovrano, che da qualche anno si compiacque di farsi membro
di quell’illustre Accademia, il quale con munificenza degna di tanto
Principe ha pubblicato in quest’anno le opere di Lorenzo il Magnifico,
con grandissimo studio da Lui emendate e illustrate._


CRONICA
DI MATTEO VILLANI


LIBRO PRIMO

_Qui comincia la Cronica di Matteo Villani, e prima il prologo, e primo
libro._
Esaminando nell’animo la vostra esortazione, carissimi amici, di
mettere opera a scrivere le storie e le novità che a’ nostri tempi
avverranno, pensai la mia piccola facultà essere debole a cotanta e
tale opera seguire. Ma perocchè la vostra richesta mi rende per debito
pronto a ubbidire, e il vostro consiglio aggiugne vigore alla stanca
mente; e pensando che per la macchia del peccato la generazione umana
tutta è sottoposta alle temporali calamità, e a molta miseria, e a
innumerabili mali, i quali avvengono nel mondo per varie maniere, e
per diversi e strani movimenti, e tempi; come sono inquietazioni di
guerre, movimenti di battaglie, furore di popoli, mutamenti di reami,
occupazioni di tiranni, pestilenzie, mortalità e fame, diluvi, incendi,
naufragi e altre gravi cose, delle quali gli uomini, ne’ cui tempi
avvengono, quasi da ignoranza soppresi, più forte si maravigliano, e
meno comprendono il divino giudicio, e poco conoscono il consiglio e
’l rimedio dell’avversità, se per memoria di simiglianti casi avvenuti
ne’ tempi passati non hanno alcuno ammaestramento: e in quelle che
la chiara faccia della prosperità rapporta non sanno usare il debito
temperamento; rischiudendo sotto lo scuro velo della ignoranza
l’uscimento cadevole, e il fine dubbioso delle mortali cose. Onde
pensando che l’opera puote essere fruttuosa, e debba piacere per li
naturali desideri degli uomini, mi mossi a cominciare, per esempio
di me uomo di leggieri scienza, ad apparecchiar materia a’ savi di
concedere del loro tempo alcuna parte, per lasciare agli altri memoria
delle cose appariranno di ciò degne a’ loro temporali, e a’ meno sperti
speranza con fatica e studio da poter venire a operazioni virtudiose,
e a coloro che avranno più alto ingegno, materia di ristrignere su
brevità, e con più piacere degli uditori, le nostre storie. Ma perocchè
ogni cosa è imperfetta e vana senza l’aiuto della divina grazia,
chiamiamo in nostro aiuto la carità divina, Cristo benedetto; il quale
è in unità col Padre e con lo Spirito Santo, vive e regna per tutti
i secoli, e dà cominciamento e mezzo e termine perfetto a ogni buona
operazione.

CAP. I.
_Della inaudita mortalità._
Trovasi nella santa Scrittura, che avendo il peccato corrotto ogni via
della umana carne, Iddio mandò il diluvio sopra la terra: e riservando
per la sua misericordia l’umana carne in otto anime, di Noè, e di tre
suoi figliuoli e delle loro mogli nell’arca, tutta l’altra generazione
nel diluvio sommerse. Dappoi per li tempi multiplicando la gente, sono
stati alquanti diluvi particolari, mortalità, corruzioni e pistolenze,
fami e molti altri mali, che Iddio ha permesso venire sopra gli uomini
per li loro peccati. Tra le quali mortalità troviamo venute le più
gravi l’una al tempo di Marco Aurelio, Antonio e Lucio Aurelio Commodo
imperadori, gli anni di Cristo 171, la quale cominciò in Babilonia
d’Egitto, e comprese molte provincie del mondo. E tornando L. Commodo
colle legioni de’ Romani delle parti d’Asia, parea combattesse
ostilemente per la loro infezione gli uomini delle provincie ond’elli
passavano: e a Roma fece grave sterminio de’ suoi abitanti. E l’altra
venne al tempo di Gallo Ostilio Augusto, e Bolusseno suo figliuolo,
occupatori dello imperio, e gravi persecutori de’ cristiani, la quale
cominciò gli anni di Cristo 254, e durò, ritornando di tempo in tempo,
intorno di quindici anni: e fu di diverse e incredibili infermitadi,
e comprese molte provincie del mondo. Ma per quello che trovar si
possa per le scritture, dal generale diluvio in qua, non fu universale
giudicio di mortalità che tanto comprendesse l’universo, come quella
che ne’ nostri dì avvenne. Nella quale mortalità, considerando la
moltitudine che allora vivea, in comparazione di coloro che erano
in vita al tempo del generale diluvio, assai più ne morirono in
questa che in quello, secondo la estimazione di molti discreti. Nella
quale mortalità avendo renduta l’anima a Dio l’autore della cronica
nominata la Cronica di Giovanni Villani cittadino di Firenze, al quale
per sangue e per dilezione fui strettamente congiunto, dopo molte
gravi fortune, con più conoscimento della calamità del mondo che la
prosperità di quello non m’avea dimostrato, propuosi nell’animo mio
fare alla nostra varia e calamitosa materia cominciamento a questo
tempo, come a uno rinnovellamento di tempo e secolo, comprendendo
annualmente le novità che appariranno di memoria degne, giusta la
possa del debole ingegno, come più certa fede per li tempi avvenire ne
potremo avere.

CAP. II.
_Quanto durava il tempo della moría in catuno paese._
Avendo per cominciamento nel nostro principio a raccontare lo sterminio
della generazione umana, e convenendone divisare il tempo e il modo, la
qualità e la quantità di quella, stupidisce la mente appressandosi a
scrivere la sentenzia, che la divina giustizia con molta misericordia
mandò sopra gli uomini, degni per la corruzione del peccato di final
giudizio. Ma pensando l’utilità salutevole che di questa memoria puote
addivenire alle nazioni che dopo noi seguiranno, con più sicurtà del
nostro animo così cominciamo. Videsi negli anni di Cristo, dalla sua
salutevole incarnazione 1346, la congiunzione di tre superiori pianeti
nel segno dell’Aquario, della quale congiunzione si disse per gli
astrolaghi che Saturno fu signore: onde pronosticarono al mondo grandi
e gravi novitadi; ma simile congiunzione per li tempi passati molte
altre volte stata e mostrata, la influenzia per altri particulari
accidenti non parve cagione di questa, ma piuttosto divino giudicio
secondo la disposizione dell’assoluta volontà di Dio. Cominciossi nelle
parti d’Oriente, nel detto anno, inverso il Cattai e l’India superiore,
e nelle altre provincie circustanti a quelle marine dell’oceano, una
pestilenzia tra gli uomini d’ogni condizione di catuna età e sesso, che
cominciavano a sputare sangue, e morivano chi di subito, chi in due o
in tre dì, e alquanti sostenevano più al morire. E avveniva, che chi
era a servire questi malati, appiccandosi quella malattia, o infetti,
di quella medesima corruzione incontanente malavano, e morivano per
somigliante modo; e a’ più ingrossava l’anguinaia, e a molti sotto le
ditella delle braccia a destra e a sinistra, e altri in altre parti
del corpo, che quasi generalmente alcuna enfiatura singulare nel corpo
infetto si dimostrava. Questa pestilenzia si venne di tempo in tempo,
e di gente in gente apprendendo, comprese infra il termine d’uno anno
la terza parte del mondo che si chiama Asia. E nell’ultimo di questo
tempo s’aggiunse alle nazioni del Mare maggiore, e alle ripe del Mare
tirreno, nella Soria e Turchia, e in verso lo Egitto e la riviera
del Mar rosso, e dalla parte settentrionale la Rossia e la Grecia,
e l’Erminia e l’altre conseguenti provincie. E in quello tempo galee
d’Italiani si partirono del Mare maggiore, e della Soria e di Romania
per fuggire la morte, e recare le loro mercatanzie in Italia: e’ non
poterono cansare, che gran parte di loro non morisse in mare di quella
infermità. E arrivati in Cicilia conversaro co’ paesani, e lasciarvi
di loro malati, onde incontanente si cominciò quella pestilenzia ne’
Ciciliani. E venendo le dette galee a Pisa, e poi a Genova, per la
conversazione di quegli uomini cominciò la mortalità ne’ detti luoghi,
ma non generale. Poi conseguendo il tempo ordinato da Dio a’ paesi, la
Cicilia tutta fu involta in questa mortale pestilenzia. E l’Affrica
nelle marine, e nelle sue provincie di verso levante, e le rive del
nostro Mare tirreno. E venendo di tempo in tempo verso il ponente,
comprese la Sardigna, e la Corsica, e l’altre isole di questo mare; e
dall’altra parte, ch’è detta Europa, per simigliante modo aggiunse alle
parti vicine verso il ponente, volgendosi verso il mezzogiorno con più
aspro assalimento che sotto le parti settentrionali. E negli anni di
Cristo 1348 ebbe infetta tutta Italia, salvo che la città di Milano,
e certi circustanti all’Alpi, che dividono l’Italia dall’Alamagna, ove
gravò poco. E in questo medesimo anno cominciò a passare le montagne,
e stendersi in Proenza, e in Savoia, e nel Dalfinato, e in Borgogna,
e per la marina di Marsilia e d’Acquamorta, e per la Catalogna, e
nell’isola di Maiolica, e in Ispagna e in Granata. E nel 1349 ebbe
compreso fino nel ponente, le rive del Mare oceano, d’Europa e
d’Affrica e d’Irlanda, e l’isola d’Inghilterra e di Scozia, e l’altre
isole di ponente, e tutto infra terra con quasi eguale mortalità, salvo
in Brabante ove poco offese. E nel 1350 premette gli Alamanni, e gli
Ungheri, Frigia, Danesmarche, Gotti, e Vandali, e gli altri popoli e
nazioni settentrionali. E la successione di questa pestilenzia durava
nel paese ove s’apprendeva cinque mesi continovi, ovvero cinque lunari:
e questo avemmo per isperienza certa di molti paesi. Avvenne, perchè
parea che questa pestifera infezione s’appiccasse per la veduta e
per lo toccamento, che come l’uomo, o la femmina o i fanciulli si
conoscevano malati di quella enfiatura, molti n’abbandonavano, e
innumerabile quantità ne morirono, che sarebbono campati se fossono
stati aiutati delle cose bisognevoli. Tra gl’infedeli cominciò questa
inumanità crudele, che le madri e’ padri abbandonavano i figliuoli, e
i figliuoli le madri e’ padri, e l’uno fratello l’altro e gli altri
congiunti, cosa crudele e maravigliosa, e molto strana dalla umana
natura, detestata tra i fedeli cristiani, nei quali, seguendo le
nazioni barbare, questa crudeltà si trovò. Essendo cominciata nella
nostra città di Firenze, fu biasimata da’ discreti la sperienza veduta
di molti, i quali si provvidono, e rinchiusono in luoghi solitari,
e di sana aria, forniti, d’ogni buona cosa da vivere, ove non era
sospetto di gente infetta; in diverse contrade il divino giudicio (a
cui non si può serrare le porti) gli abbattè come gli altri che non
s’erano provveduti. E molti altri, i quali si dispuosono alla morte per
servire i loro parenti e amici malati, camparono avendo male, e assai
non l’ebbono continovando quello servigio; per la qual cosa ciascuno
si ravvide, e cominciarono senza sospetto ad aiutare e servire l’uno
l’altro; onde molti guarirono, ed erano più sicuri a servire gli altri.
Nella nostra città cominciò generale all’entrare del mese d’aprile gli
anni _Domini_ 1348, e durò fino al cominciamento del mese di settembre
del detto anno. E morì tra nella città, contado e distretto di Firenze,
d’ogni sesso e di catuna età de’ cinque i tre, e più, compensando
il minuto popolo e i mezzani e’ maggiori, perchè alquanto fu più
menomato, perchè cominciò prima, ed ebbe meno aiuto, e più disagi e
difetti. E nel generale per tutto il mondo mancò la generazione umana
per simigliante numero e modo, secondo le novelle che avemmo di molti
paesi strani, e di molte provincie del mondo. Ben furono provincie nel
Levante dove vie più ne moriro. Di questa pestifera infermità i medici
in catuna parte del mondo, per filosofia naturale, o per fisica, o
per arte d’astrologia non ebbono argomento nè vera cura. Alquanti per
guadagnare andarono visitando e dando loro argomenti, li quali per la
loro morte mostrarono l’arte essere fitta, e non vera: e assai per
coscienza lasciarono a ristituire i danari che di ciò aveano presi
indebitamente.
Avemmo da mercatanti genovesi, uomini degni di fede, che aveano avute
novelle di que’ paesi, che alquanto tempo innanzi a questa pestilenzia,
nelle parti dell’Asia superiore, uscì della terra, ovvero cadde da
cielo un fuoco grandissimo, il quale stendendosi verso il ponente, arse
e consumò grandissimo paese senza alcuno riparo. E alquanti dissono,
che del puzzo di questo fuoco si generò la materia corruttibile della
generale pestilenzia: ma questo non possiamo accertare. Appresso
sapemmo da uno venerabile frate minore di Firenze vescovo di .... del
Regno, uomo degno di fede, che s’era trovato in quelle parti dov’è
la città di Lamech ne’ tempi della mortalità, che tre dì e tre notti
piovvono in quello paese biscie con sangue che appuzzarono e corruppono
tutte le contrade: e in quella tempesta fu abbattuto parte del tempio
di Maometto, e alquanto della sua sepoltura.

CAP. III.
_Della indulgenzia diede il papa per la detta pistolenza._
In questi tempi della mortale pestilenzia, papa Clemente sesto fece
grande indulgenza generale della pena di tutti i peccati a coloro che
pentuti e confessi la domandavano a’ loro confessori, e morivano: e in
quella certa mortalità catuno cristiano credendosi morire si disponea
bene, e con molta contrizione e pazienzia rendevano l’anima a Dio.

CAP. IV.
_Come gli uomini furono peggiori che prima._
Stimossi per quelli pochi discreti che rimasono in vita molte cose,
che per la corruzione del peccato tutte fallirono agli avvisi degli
uomini, seguendo nel contradio maravigliosamente. Credetesi che gli
uomini, i quali Iddio per grazia avea riserbati in vita, avendo veduto
lo sterminio dei loro prossimi, e di tutte le nazioni del mondo,
udito il simigliante, che divenissono di migliore condizione, umili,
virtudiosi e cattolici, guardassonsi dall’iniquità e dai peccati, e
fossono pieni d’amore e di carità l’uno contra l’altro. Ma di presente
restata la mortalità apparve il contradio; che gli uomini trovandosi
pochi, e abbondanti per l’eredità e successioni dei beni terreni,
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