Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 03

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Avendo il re e la reina queste novelle, incontanente con quei baroni
che poterono accogliere di Proenza, e con la loro famiglia, si
raccolsono a Marsilia in su le dette dieci galee de’ Genovesi: ed
avendo il tempo acconcio al loro viaggio, sani e salvi in pochi giorni
arrivarono a Napoli, all’uscita del mese d’agosto del detto anno.
E perocchè le castella di Napoli, e quello dell’Uovo, e il castello
di Santermo, e ’l porto e la Tenzana erano nella signoria e guardia
della gente del re d’Ungheria, non si poterono mettere nel porto, nè
in quelle parti; anzi arrivarono fuori di Napoli sopra santa Maria del
Carmino, di verso ponte Guicciardi, e ivi scesono in terra; e il re e
la reina entrarono nella chiesa di Nostra Donna per aspettare i baroni
e l’università di Napoli, che gli conducessono nella città.

CAP. XX.
_Come il re e la reina Giovanna entrarono in Napoli a gran festa._
I baroni ch’erano accolti a Napoli, aspettando la venuta del re e
della reina con la loro cavalleria, de’ quali erano caporali quegli
di san Severino, e della casa del Balzo, l’ammiraglio conte di
Montescheggioso, quelli dello Stendardo, il conte di Santo Agnolo,
que’ della casa della Raonessa, e di Catanzano, e molti altri. I quali
forniti di molti cavalli e di ricchi arredi e di nobili robe e arnesi,
con loro scudieri vestiti d’assise, e’ gentili uomini di Napoli con
loro proprio, apparecchiati pomposamente a cavallo e a piè con molta
festa si misono ad andare al Carmino per conducere il re e la reina
in Napoli con molta allegrezza; e da parte i Fiorentini e Sanesi e
Lucchesi mercatanti che allora erano in Napoli, e Genovesi e Provenzali
e altri forestieri, catuna gente per se, vestiti di ricche robe di
velluti e di drappi di seta e di lana, con molti stormenti d’ogni
ragione, sforzando la dissimulata festa, andarono incontro al re e
alla reina. E giunti a loro, e fatta catuna compagnia la riverenza,
apparecchiati nobilissimi destrieri, montati a cavallo, addestrati
da’ baroni, sotto ricchi palii d’oro e di seta con molte compagnie
d’armeggiatori innanzi, in prima il re, a cui andava in fronte il duca
Guernieri co’ suoi Tedeschi, smovendo il popolo, e dicendo: gridate
viva il signore: e così gridando, fu la parola da molti notata, perchè
era a loro nuovo titolo, non dicendosi viva il re, e con ragione dire
non lo potevano a quella stagione. E con questa festa il condussono
a Napoli; e perchè l’abitazioni reali erano tutte nella forza de’
nemici, il collocarono ad Arco, sopra Capovana, nelle case che furono
di messere Aiutorio. E appresso di lui con somigliante festa vi
condussono la reina. La gente, benchè sforzata si fosse di fare festa,
pure s’avvedea per le molte città e castella che il re d’Ungheria avea
nel Regno, e per la buona gente che v’era alla guardia, che questa
tornata del re Luigi e della reina Giovanna era piuttosto aspetto di
guerra e di grande spesa, e sconcio del paese e della mercanzia e de’
forestieri, che cominciamento di riposo, come poi n’avvenne.

CAP. XXI.
_Come il re Luigi si fe’ fare cavaliere, e da cui._
Vedendosi il re Luigi, e conoscendo il bisogno che avea di buono
aiuto, e veggendo che la maggiore forza de’ suoi cavalieri era nel
duca Guernieri, acciocchè per onorevole beneficio più lo traesse alla
sua fede e amore, ordinò di farsi fare cavaliere per le sue mani,
della qual cosa avvilì se, per onorare altrui. E ordinata gran festa
per la sua cavalleria, del mese di settembre del detto anno, si fece
fare cavaliere al detto doge Guernieri, ed egli in quello stante fece
appresso ottanta altri cavalieri della città di Napoli, e d’altri
paesi del Regno. La libertà grande che ’l re dimostrò nel tedesco duca
Guernieri tosto trovò vana in colui, come per la sua corrotta fede nel
processo della nostra materia al suo tempo racconteremo.

CAP. XXII.
_Brieve raccontamento di cose fatte per il re d’Inghilterra contra
quello di Francia._
Richiede il nostro proponimento, per le cose che avremo a scrivere de’
fatti del re di Francia e di quello d’Inghilterra per la loro guerra,
che noi ci traiamo un poco addietro alle cose occorse più vicine,
acciocchè quelle che seguiranno abbiano più chiaro intendimento.
Essendo il valoroso re Adoardo d’Inghilterra passato in Normandia, del
mese d’agosto, gli anni di Cristo 1347, e avendo preso Camoboroso e
Saulu e più altre ville, venendo verso Parigi con quattromila cavalieri
e quarantamila sergenti, tra’ quali avea molti arcieri, e fatto
d’arsioni e di preda gravi danni al paese, s’accampò a Pussì e a San
Germano, presso a Parigi a due leghe. Il re di Francia era andato colla
sua forza verso Camo per farlisi incontro, e non trovandolo nel paese,
si tornò addietro, e accolta molta baronia e cavalieri e sergenti
di suo vassallaggio, s’accampò fuori di Parigi con più di settemila
cavalieri e sessantamila sergenti: il re d’Inghilterra, sentendo la
tornata del re di Francia, si levò da campo scostandosi da Parigi.
Il re di Francia con grande baldanza il seguitò con la sua gente,
tanto che sopraggiunse il re d’Inghilterra, che andava assai a lenti
passi per non mostrare paura: e aggiugnendosi l’una oste all’altra,
il re d’Inghilterra vedendosi presso il re di Francia, e quello di
Boemia e quello di Maiolica con molti baroni, e con più di due tanti
cavalieri che non avea egli, come signore di grande cuore e ardire,
di presente s’apparecchiò alla battaglia, intra Crescì e Albevilla.
E ordinò tutto il suo carreaggio alla fronte a modo d’una schiera, e
di sopra alle carra mise i cavalieri armati, e a piè d’ogni parte i
suoi arcieri. E sopravvenendo l’assalto de’ Franceschi, baldanzosi,
con grande empito cominciarono la battaglia. Gl’Inglesi fermi al loro
carreaggio, con l’ordine dato agli arcieri, senza perdere colpo,
di loro saette fedivano i cavalli e’ cavalieri de’ Franceschi. E
vedendo gl’Inglesi fediti molti de’ cavalli e de’ cavalieri de’ loro
avversari, a uno segno dato ordinate le guardie de’ sergenti sopra il
carreaggio, corsono i cavalieri a’ loro cavalli che aveano a destro
dietro al carriaggio, e montati e assettati sopra i loro cavalli,
con savia condotta vennono alle spalle de’ nimici, ed assalirono i
Franceschi con dura battaglia. I Franceschi che erano re e baroni
d’alto pregio manteneano la battaglia vigorosamente, la quale durò
da mezza nona alle due ore di notte; ove si dimostrarono di grandi
operazioni d’armi di valorosi baroni e cavalieri da catuna parte. Ma
perocchè i Franceschi e i loro cavalli erano più stanchi e magagnati
dalle saette degl’Inglesi, e molti conducitori di loro morti, come fu
la volontà d’Iddio la vittoria rimase al re d’Inghilterra, con grande
e grave danno de’ Franceschi. Morto vi fu il valente re di Boemia,
figliuolo dello imperatore Arrigo di Luzimborgo, e il duca di Loreno,
il conte di Lanzone fratello del re di Francia, e sei altri conti, con
milleseicento cavalieri grande parte baroni e banderesi, e morironvi
ventimila pedoni; fra i quali furono i Genovesi che erano andati là
con dodici galee, che pochi ne camparono. Ed il re Filippo di Francia
di notte, con sei tra prelati e baroni, e sessanta sergenti a piè,
uscì della battaglia, e campò per grazia della notte. Sul campo si
trovarono molti cavalli morti e bene quattromila fediti. E fatta questa
battaglia a dì 26 d’agosto nel 1347, il re d’Inghilterra poco appresso
pose assedio al forte castello di Calese sulla marina, e per assedio il
vinse: e fattolo più forte, per avere porto nel reame e nella marina
di Francia, lasciato nel paese il conte d’Erbi duca di Lancastro,
suo cugino, a guerreggiare, con duemila cavalieri e ventimila pedoni
i più arcieri, con grande onore si tornò in Inghilterra. Il conte
d’Erbi entrò in Guascogna l’anno appresso, e conquistò più terre di
quelle che vi tenea il re di Francia; e rotti in più abboccamenti i
cavalieri franceschi, se ne venne cavalcando e predando il paese infino
alla città di Tolosa; ma aggravando la mortalità quei paesi, si tornò
addietro con grande preda. E fatta tregua dall’uno re all’altro, con
grande onore del re d’Inghilterra, posò la guerra per alcuno tempo.

CAP. XXIII.
_Come gli Ubaldini furo cominciatori della guerra che il comune di
Firenze ebbe con loro._
Avendo narrato de’ fatti de’ due reami, cominciano le novità della
nostra città di Firenze. Negli anni di Cristo 1348, essendo gli
Ubaldini in pace, ma in corrotta fede col nostro comune, fidandosi
nelle loro alpigiane fortezze, cominciarono a ricettare sbanditi del
comune di Firenze: e insieme con loro entravano di notte nel Mugello,
rubando le case e uccidendo gli uomini, e ricoglieansi nell’alpe con
le ruberie. E avendo fatto questo più volte di notte, il cominciarono
a fare di dì. E tornando d’Avignone uno Maghinardo da Firenze con
duemila fiorini d’oro, gli Ubaldini il seguirono e uccisono, rubandolo
sul contado di Firenze. E non volendone fare ammenda alla richesta del
comune, i Fiorentini mandarono nell’alpe suoi soldati a piè e a cavallo
col capitano della guardia. E stati più dì sopra le terre e sopra i
fedeli degli Ubaldini feciono loro gran danno, e senza alcuno contasto
si tornarono a Firenze.

CAP. XXIV.
_Come i fedeli del conte Galeotto si rubellarono da lui e dieronsi al
comune di Firenze._
In questo anno, i fedeli del conte Galeotto de’ conti Guidi si
rubellarono da lui, perocchè lungamente gli avea male trattati, per
sua crudeltà e dissoluta vita: e all’entrata del mese di marzo del
detto anno gli tolsono il forte castello di san Niccolò, e tutte le sue
terre e tenute intorno a quello, e ’l suo tesoro e arnesi, che n’era
fornito nobilmente, e di presente si diedono al comune di Firenze. Il
quale, perocchè il detto conte sempre avea nimicato il nostro comune,
perocchè era ghibellino, ricevette la fortezza e gli uomini in sua
giurisdizione e libera signoria, con quelle solenni cautele che i
detti uomini poterono fare; e fecionli popolani e contadini, dando loro
per alcuno tempo certe immunità. E ordinata la guardia delle castella
nelle mani de’ cittadini, a’ popoli diede podestà che gli reggesse, e
messe le castella e gli uomini ne’ suoi registri. Dinominò e intitolò
l’acquisto, il contado di san Niccolò del comune di Firenze.

CAP. XXV.
_Come i Fiorentini feciono guerra agli Ubaldini, e presero Montegemmoli
e loro castella._
Vedendo i Fiorentini che la latrocina superbia degli Ubaldini non
si gastigava per una battitura, feciono decreto, che ogni anno
si dovesse tornare sopra di loro, tanto che fossono privati delle
alpigiane spelonche. E per questa cagione, il verno furono chiamati
otto cittadini uficiali sopra provvedere e fornire la guerra: i quali,
del mese di giugno 1349, mandarono l’oste del comune nell’alpe, la
quale si dirizzò a Montegemmoli, una rocca quasi inespugnabile: nella
quale era Maghinardo da Susinana e due suoi figliuoli, con parecchie
masnade di franchi masnadieri, i più usciti di Firenze. Era fuori
della rocca in su la stretta schiena del poggio, alla guardia della
via ch’andava al castello, una torre forte e bene armata: innanzi
alla torre una tagliata in su la schiena del poggio, con forte
steccato: e a questa guardia, per voglia di fare d’arme, i caporali
de’ masnadieri del castello erano scesi co’ loro compagni: e la gente
del comune di Firenze avendo fermo il loro campo, a intendimento di
vincere il castello per assedio, e molestarlo con dificii i quali
vi faceano conducere, alquanti masnadieri s’appressarono verso la
guardia della torre per badaluccare. I valenti masnadieri d’entro, per
troppa baldanza, uscirono fuori della tagliata incontro alla gente de’
Fiorentini, badaluccando e facendo gran cose d’arme per lo vantaggio
che aveano del terreno. In questo stante i cavalieri de’ Fiorentini
montando il poggio per dare vigore a’ loro masnadieri, cominciarono
a scendere de’ cavalli, e a pignersi innanzi con fanti e a’ nemici, i
quali per non perdere il terreno, con folle prodezza attesono tanto,
che i cavalieri e’ masnadieri de’ Fiorentini co’ balestrieri furono
mischiati tra loro, innanzi che si potessono ritrarre alla fortezza.
E volendosi ritrarre, per lo soperchio de’ loro avversari non poterono
fare, che a un’ora con loro insieme non entrassono dentro alli steccati
i masnadieri fiorentini, e a loro aiuto erano tratti tanti balestrieri,
che non lasciarono a’ nemici riprendere la fortezza della torre: anzi
la presono per loro. E ritraendosi i masnadieri degli Ubaldini per
loro scampo nella rocca, continuando la battaglia stretta alle mani,
entrarono i Fiorentini cacciando gli avversari nel primo procinto. E
crescendo della gente dell’oste la loro forza, presono tutto, fuori
de’ palagi e torri dell’ultima fortezza, ov’era racchiuso Maghinardo
e la moglie, e due suoi figliuoli con loro compagnia: i quali si
difenderono vigorosamente. Essendo il dì e la notte combattuti dalla
gente de’ Fiorentini, Maghinardo e’ figliuoli, benchè fossero in
fortezza da potersi difendere lungamente, conobbono il loro pericolo.
E sentendosi male d’accordo per loro quistioni con gli altri Ubaldini
loro consorti, si deliberarono di dare la rocca a’ Fiorentini, e di
volere essere contro a’ suoi consorti co’ Fiorentini. E fatti i patti,
e fermi a Firenze, diedono la rocca libera al comune di Firenze: e il
comune prese il saramento della fede promessa, li ricevette in amicizia
e cittadinanza, e ordinarono loro la provvigione promessa: e dati loro
cavalieri e pedoni si mossono a guerreggiare gli altri Ubaldini. E
innanzi che l’oste de’ Fiorentini tornasse, assediò Montecolloreto, e
presonlo; e misonvi fornimento e buona guardia. Andarono a Roccabruna
ed ebbonla: ed entrarono nel Podere e presono Lozzole per trattato.
E per trattato fu dato loro la signoria di Vigiano e di più altre
tenute, che appartenevano al detto Maghinardo e a certi altri degli
Ubaldini che feciono il comandamento del comune. E andarono intorno a
Susinana, guastando le case e’ campi di fuori; e tentando di volerlo
combattere, trovarono il castello sì forte e sì bene fornito alla
difesa, che lasciarono stare, e andarono a Valdagnello, e dieronvi una
battaglia, senza potervi acquistare per la fortezza del sito, e perchè
era bene provveduto alla difesa: e però guastarono i campi e le ville
d’intorno. E fornito che ebbono tutte le castella che aveano acquistate
di vittuaglia e d’arme e di buona guardia, avendo fatto agli Ubaldini e
a’ loro fedeli gran danno, del mese d’agosto, gli anni di Cristo 1349,
senza alcuno impedimento, sani e salvi con vittoria si tornarono alla
città di Firenze.

CAP. XXVI.
_Come il re di Francia comperò il Dalfinato._
Il re di Francia posandosi nella tregua col re d’Inghilterra, avendo
papa Clemente sesto, suo protettore ne’ fatti temporali, perocchè
per lui si teneva essere al papato, e amava sopra modo d’accrescere
i suoi congiunti, i quali erano uomini del re di Francia, e però il
re traeva in sussidio della guerra danari al bisogno; e le decime del
reame e tutte grazie che volea domandare il papa senza mezzo l’otriava,
trapassando l’onestà del suo pontificato: e perocchè i cardinali erano
la maggior parte di suo reame, non si ardivano a contrapporre a cosa
che volesse. Era in que’ dì il Dalfino di Vienna uomo molle, e di poca
virtù e fermezza. Costui alcuno tempo tenne vita femminile e lasciva,
vivendo in mollizie: ed appresso volle usare l’arme: e andò capitano
per la Chiesa alle Smirne in Turchia, e dove poteva acquistare onore
e pregio, tornò con poca buona fama: e per bisogno impegnò alla Chiesa
il Dalfinato per fiorini centomila d’oro: ed essendo morta la moglie,
credendo prosperare in abito chericile, sperando in quello divenire
cardinale, vendè al re Filippo di Francia il Dalfinato, contro alla
volontà de’ suoi paesani, e pagò la Chiesa: e fatto cherico fu dal
papa promosso in patriarca.... nel quale finì sua vita spegnendo
la fama della casa sua. E il re di Francia, perdendo per la guerra
d’Inghilterra in ponente, accresceva senza guerra in levante i confini
al suo reame.

CAP. XXVII.
_La cagione perchè il re d’Araona tolse Maiolica al re._
Vera cosa fu, che il re di Maiolica nella sua infanzia si nutricò co’
reali di Francia, e poi che fu re di Maiolica, essendo dissimigliante
a’ Catalani onde traeva suo origine, mostrò d’essere molto scienziato
e adorno di bei costumi. Disdegnò di rendere al re d’Araona l’omaggio
debito, il quale si pagava con la reverenzia d’un bacio: e schifo della
vita catalanesca e di loro costumi, seguiva i Franceschi; la qual
cosa il fece sospetto al suo legnaggio. Cugino era del re d’Araona,
e la sirocchia carnale avea per moglie, della quale avea figliuoli.
Nondimeno il re d’Araona fece apparecchiamento d’arme contro a lui, e
trattato occulto co’ cittadini di Maiolica. Per lo quale, essendo egli
a Perpignano, e venendo sopra loro il re d’Araona, volendo mostrare di
volersi difendere, il feciono venire in Maiolica, mostrando di volerlo
atare fedelmente. Venuta la gente col re d’Araona, e scesa nell’isola,
accogliendo il consiglio in Maiolica per volere dare ordine alla
difesa, essendo tempo da potere scoprire il loro tradimento, feciono
dire al loro re, o che facesse la volontà del re d’Araona, o che se
n’andasse. Vedendosi tradito da’ suoi cittadini, i quali aveano già
abbarrata la città contro a lui, si ricolse in fretta, per campare la
persona, in una galea. E partendosi dell’isola, le porte della città
furono aperte alla gente del re d’Araona: e data loro la signoria di
tutta l’isola, con patto che ella non dovesse tornare per alcuno tempo
al loro re nè a’ suoi discendenti.

CAP. XXVIII.
_Come il re di Maiolica vendè la sua parte di Mompelieri al re di
Francia._
Il re di Maiolica essendo cacciato dell’isola da’ suoi sudditi, venuta
l’isola nella signoria del re d’Araona, e avendo poco di quello che il
suo titolo reale richiedea, disiderando d’accogliere moneta, e d’avere
aiuto dal re di Francia, al cui servigio era stato lungamente nelle
sue guerre e battaglie personalmente, il richiese con grande istanza
d’aiuto, acciocchè potesse ricoverare lo suo, ma da lui non potè avere
alcuno aiuto. E stretto da grave bisogno, vendè al detto re di Francia
la propietà e giurisdizione ch’avea in comune consorteria col detto re
nella metà di Mompelieri, per quello pregio che il re di Francia volle,
a buono mercato. E come povero e sventurato re venia cercando modo di
riacquistare l’isola di Maiolica. La qual cosa fu cagione della sua
finale morte, come innanzi al suo tempo racconteremo.

CAP. XXIX.
_Come s’ordinò il generale perdono a Roma nel 1349._
Essendo stato il giudicio della generale mortalità nell’universo
per giusta cagione, fu supplicato al papa che nel prossimo futuro
cinquantesimo anno la Chiesa rinnovellasse generale perdono in Roma.
Il papa Clemente sesto, col consiglio de’ suoi cardinali, e di molti
altri prelati e maestri in teologia, trovando che per lo dicreto fatto
per papa Bonifazio, ogni capo di cento anni dalla natività di Cristo
fosse ordinato generale perdono a Roma, per comune consiglio parve più
convenevole, considerando l’età umana che è brieve, che il perdono
fosse di cinquanta in cinquanta anni. Avendo ancora alcuno rispetto
all’anno Iubileo della santa Scrittura, nel quale catuno ritornava ne’
suoi propri beni: e i propri beni de’ cristiani sono i meriti della
passione di Cristo, per li quali ci seguita indulgenzia e remissione
dei peccati. E per questa cagione la santa madre Chiesa fece decreto
e ordine: che nel prossimo futuro cinquantesimo anno, per la natività
di Cristo, cominciasse a Roma generale perdono di colpa e di pena
di tutti i peccati a’ fedeli cristiani i quali andassono a Roma, dal
detto termine a uno anno, i quali fossono confessi e contriti de’ loro
peccati, e vicitassono ogni dì la chiesa di santo Pietro e di santo
Paolo e di santo Giovanni Laterano. E le dette visitazioni furono
stribuite a’ Romani trenta dì continovi, salvo che quello si omettesse
si potesse con un altro ristorare; ed agl’Italiani quindici dì, e
agli oltramontani a tali dieci, a tali cinque dì, e meno, secondo la
distanza de’ paesi. E nondimeno la Chiesa discretamente provvide, per
molti e diversi casi e cagioni che possono avvenire, ch’e’ cardinali e
gli altri legati che andarono per lo mondo, e stettono a Roma, avessono
autorità di potere dispensare del tempo come a loro paresse. E le
lettere furono fatte e mandate per corrieri sotto le bolle papali. In
prima per tutta la cristianità, e appresso per suoi legati a predicare
per tutto le sante indulgenze, acciocchè ciascuno s’apparecchiasse e
disponesse a potere ricevere il santo perdono. In Italia furono mandati
due cardinali, quello di Bologna sopra lo Mare, messer Annibaldo di
Ceccano, e messer Ponzo di Perotto di Linguadoca vescovo d’Orbivieto,
uomo onesto, e di grande autorità, il quale era vicario di Roma per
lo papa: fu commessa piena e generale legazione a potere a tutti
dispensare il tempo delle dette visitazioni come a lui paresse, ch’era
presente continuo nella città di Roma. Lasciando alquanto la santa
disposizione del perdono, ci occorrono meno piacevoli, e più gravi cose
al presente a raccontare.

CAP. XXX.
_Come il re di Maiolica andò per racquistare l’isola, e fuvvi morto._
Lo sventurato re di Maiolica non trovando aiuto dal re di Francia,
cui egli avea lungamente servito nelle sue guerre, nè dal papa, nè
da alcuno altro signore, strignendolo la volontà e ’l bisogno di
racquistare l’isola, come disperato d’ogni aiuto, avendo venduta la sua
parte di Mompelieri, accattò danari dal re di Francia sopra la villa
di Perpignano, ch’altro non gli era rimaso, e condusse cavalieri e
pedoni, e dodici galee di Genovesi fece armare al suo soldo, e alcuno
navilio di carico; sperando, quando fosse con forza d’arme nell’isola,
gli uomini del suo regno tornassono a lui, come forse a inganno gli era
dato intendimento, perocchè con alquanti era in trattato. Apparecchiata
l’oste, e ’l navilio con le dodici galee armate, del mese di... del
detto anno si mise in mare; e senza impedimento arrivò nell’isola di
Maiolica, presso alla città a dieci miglia; e ivi scesi in terra,
s’accampò con quattrocento cavalieri e cinquecento masnadieri,
aspettando che coloro della città con cui avea trattato, e il popolo
della terra il volessono come loro benigno e natural signore. Le dodici
galee de’ Genovesi avendo messo in terra il re, o che fosse di suo
comandamento, per mostrarsi più forte agli uomini dell’isola, o per
altre cagioni, si partirono da quella parte ove il re avea posto il
campo, e girarono da un’altra parte del’isola; e rimaso il re, e ’l
figliuolo, e l’altra gente senza il favore delle dodici galee, della
città di Maiolica subitamente uscirono più di seicento cavalieri con
grandissimo popolo, e vennero contro all’oste del re per combattere con
lui. Il re vedendosi i nimici appresso, potea stare alle difese tanto
che tornassero le sue galee: ma con vana confidanza de’ suoi regnicoli,
che non dovessero resistere contro a lui, senza attendere punto, si
volle mettere alla battaglia, per trarre a fine la sua impresa come la
fortuna il menava. E ordinata la sua gente, e confortata a ben fare,
mostrando che quivi non era altro rimedio che nel bene operare la virtù
delle loro persone, sì fedì tra i nemici, i quali erano cavalieri
catalani, maggiore quantità e migliore gente che i suoi soldati, e
guidati da buoni capitani, i quali ricevettono il re e i suoi cavalieri
francamente, per modo, che in poca d’ora furono sconfitti, e il re
morto. Il quale se avessono voluto potieno ritener prigione, ma rade
volte in fatti d’arme tra’ Catalani si trova mansuetudine: il figliuolo
fu preso, e rappresentato al zio re d’Araona, l’altra gente fu rotta
e sbarattata, e l’isola rimase libera al re d’Araona, e Mompelieri e
Perpignano al re di Francia.

CAP. XXXI.
_Come i baroni italiani e catalani per loro discordie guastarono
l’isola di Cicilia._
Avendo detto dell’isola di Maiolica, quella di Cicilia ci s’offera con
dissimigliante fortuna. Essendo per la mortalità morto il valoroso
duca Giovanni, balio e governatore dell’isola di Cicilia, rimaso
picciolo fanciullo di dieci anni messer Luigi figliuolo che fu di
don Pietro, il quale si fece appellare re di Cicilia, a cui aspettava
l’eredità del detto reame. Costui avea due fratelli minori di se, l’uno
chiamato Giovanni, l’altro Federigo. E non essendo della casa reale
nessuno in età che governasse l’isola per lo fanciullo, discordia
nacque tra i baroni: e dall’una parte erano i Palizzi caporali, e
con loro teneano quelli di Chiaramonte, e’ conti di Vintimiglia, e i
discendenti conti della casa degli Uberti di Firenze, de’ quali era
capo il conte Scalore, e con costoro teneano quasi la maggiore parte
degl’Italiani dell’isola. E questi si faceano chiamare la parte del re,
e a loro segno rispondeano le migliori città della marina dell’isola,
Messina, Siracusa, Melazzo, Cefalu, Palermo, Trapani, Mazzara, Sciacca,
Girgenti, Taormina, e gran parte delle buone terre e castella fra la
terra dell’isola. E dall’altra parte era don Brasco d’Araona caporale
con gli altri Catalani dell’isola, e il figliuolo di Giovanni Barresi
colla sua casa, genero di don Brasco, e molti altri di Catania, i quali
aveano a loro segno alla marina la città di Catania, Iaci, Alicata,
Tose, la Catona, e il capo d’Orlando; e fra terra grande numero di
città e di castella. E per simigliante modo si faceano costoro chiamare
la parte del re. E per le loro divisioni cominciarono a far guerra
l’uno contra l’altro. E catuna parte s’armava, e afforzava d’avere
seguito di gente dell’isola: e catuno volea governare il reame per
lo re, e non potendosi trovare via d’accordo tra loro, cominciarono
a cavalcare l’uno sopra l’altro; e dove si scontravano si combatteano
mortalmente. E spesso rompea e sconfiggea l’una gente l’altra, e senza
misericordia a tenere prigione s’uccidevano insieme, e montando la loro
sfrenata mala volontà, cominciarono ad ardere le loro possessioni e
le biade ne’ campi, come fossono in terra di nimici; e facendo questo
guasto, oggi in una contrada, e domani nell’altra, consumarono il paese
senza alcuna misericordia. E seguitando l’uno dì appresso dell’altro
questa pestilente furia tra loro, in poco tempo fu tanta tribolazione
tra’ paesani, e tanta disfidanza, che lasciarono il coltivamento delle
terre, e il nutricamento del bestiame: onde avvenne che quello paese,
il quale per antico era fontana viva di grano, e di biade, e d’ogni
vittuaglia, a spandere per lo mondo tra i cristiani e tra i saracini,
che solo tra loro nell’isola non avea che manicare; e il bestiame per
simigliante modo fu consumato e disperso. Per la quale cosa avvenne
che l’anno 1349 a Palermo, e a più altre città, per inopia convenne
si provvedesse per comune consiglio grano mescolato con orzo, e dare
ogni settimana certa piccola distribuizione per testa d’uomo, acciocchè
potessono miserevolmente mantenere la loro vita. E non potendosi
sostentare i popoli con questa misera provvisione, convenne che il
popolo minuto in gran parte per nicistà abbandonasse l’isola, e molti
ne fuggirono in Calavra e nel’isola di Sardigna per scampare dalla
fame la loro vita. E questa pestilenzia non avvenne a’ Ciciliani per
sterilità di tempo avverso, che i campi aveano da Dio la loro stagione
fertile, e abbondevole della grazia del cielo. E non era tolto loro
il coltivamento da nimici strani, nè per rubellione di loro signorie,
nè per odio del paese, ch’era patria de’ suoi abitanti a catuna parte
e reame d’uno medesimo re: ma stimasi avvenisse per dimostrazione
del peccato della ingratitudine dell’abbondanza di troppi beni, e
a dimostrare come è divoratrice senza rimedio d’ogni buono stato la
cittadinesca discordia, e il divoratore fuoco della laida invidia.

CAP. XXXII.
_Come il re Filippo di Francia e ’l figliuolo tolsono moglie._
Era nella mortalità morta la moglie del re Filippo di Francia, madre di
messer Giovanni primogenito, Dalfino di Vienna, la quale fu sirocchia
del duca di Borgogna, e la moglie di messer Giovanni suo figliuolo,
figliuola che fu del re Giovanni di Boemia della casa di Luzimborgo,
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