Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 08

Total number of words is 4624
Total number of unique words is 1325
38.7 of words are in the 2000 most common words
52.9 of words are in the 5000 most common words
59.1 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
comune di Firenze e di Perugia e di Siena, e colla Chiesa medesima,
per potere con maggiore forza resistere al potente tiranno, mandò in
Italia il vescovo di Ferrara, cittadino di Firenze della casa degli
Antellesi, con pieno mandato a ciò ordinare e fermare: il quale giunto
in Toscana, mandò a’ signori di Lombardia e a’ comuni predetti, che
a certo termine catuno mandasse suoi ambasciadori alla città d’Arezzo
a parlamento. E innanzi che il termine venisse, il detto legato andò
in persona a messer Mastino e al marchese di Ferrara, e al comune
di Perugia e di Siena a sporre la sua ambasciata, e tornò a Firenze,
avendo sommossi i detti comuni e signori a venire in loro servigio e
di santa Chiesa alla detta lega, perocchè catuno si temeva della gran
potenza del’arcivescovo. E messer Mastino, che gli era più vicino, con
sollecitudine confortava i Lombardi e’ comuni di Toscana che venissono
alla lega e a fare sì fatta taglia, che all’arcivescovo si potesse
resistere francamente. E del mese d’ottobre vegnente gli ambasciadori
d’ogni parte furono ragunati ad Arezzo; quelli di messer Mastino e
de’ Fiorentini v’andarono con pieno mandato; i Perugini mostravano di
volere lega e taglia, ma d’ogni punto voleano prima risposta dal loro
comune, e i Sanesi faceano il somigliante, per li quali intervalli,
gli ambasciadori stettono lungamente ad Arezzo senza poter prendere
partito. E questo avveniva perocchè a’ Perugini e a’ Sanesi parea
che la forza dell’arcivescovo non potesse giugnere a’ loro confini, e
volevano mostrare di non volersi partire dal volere di santa Chiesa
e de’ Fiorentini. E in questo soggiorno, l’arcivescovo di Milano
temendo che la Chiesa non si facesse forte coll’aiuto de’ Toscani
e de’ Lombardi, mandò a messer Mastino messer Bernabò suo genero,
pregandolo che si ritraesse da questa impresa: e grandi impromesse
al comune di Firenze faceva d’ogni patto e vantaggio che volesse
da lui: e con queste suasioni cercava disturbare la detta lega: ma
invano s’affaticava con questi tentamenti, che di presente tutti si
piovicavano nel parlamento, e’ Sanesi s’erano ridotti al segno de’
Fiorentini, ed era preso, che se i Perugini non volessono essere alla
lega, che si facesse senza loro. E avendo questo protestato loro,
attendendo l’ultima risposta, la quale dilungavano con nuove cagioni
di dì in dì, andandovi in persona oggi l’uno ambasciadore e domane
l’altro, essendo gli altri ambasciadori per fermare la lega e la taglia
senza loro, come a Dio piacque, sopravvenne la novella della morte
di messer Mastino, per la quale cosa si ruppe il parlamento senza
fermare lega, e catuno ambasciadore si tornò a suo comune e signore;
della qual cosa tornò grande ripetio a’ comuni di Toscana. E benchè i
Fiorentini e i Sanesi non fossono cagione di questo scordo, nondimeno
peccarono in tanto aspettare i Perugini: che grande utilità era al
comune di Firenze, che confinava col tiranno, avere in suo aiuto il
braccio di santa Chiesa e del signore di Verona, e di Ferrara e di
Siena. Ma quando i falli si prendono ne’ fatti della guerra sempre
hanno uscimento di privato pericolo: e però gli antichi maestri della
disciplina militare punivano con aspre pene i mali consigliatori,
eziandio che del male consiglio conseguisse prospero fine. Ma ne’
nostri tempi, i falli della guerra si puniscono non per giustizia, ma
per esperienza del male che ne seguita, come tosto avvenne a’ detti
comuni di Toscana, come seguendo appresso ne’ suoi tempi dimostreremo.

CAP. LXXVII.
_Come il tiranno di Milano si collegò con tutti i ghibellini d’Italia._
Avvenne in questo anno, come l’arcivescovo di Milano sentì rotto
il trattato della lega mosso per lo papa, e morto messer Mastino di
cui più temea, gli parve che fortuna al tutto fosse con lui, e prese
speranza di sottomettersi Toscana, e appresso tutta l’Italia. E però
procacciò di recare a se il gran Cane della Scala cognato di messer
Bernabò, e vennegli fatto per la confidenza del parentado. E perchè
essendo giovane e nuovo nella signoria non facea per lui la guerra di
sì fatto vicino, e però lievemente venne a concordia e legossi con lui,
e promise d’aiutare l’uno l’altro nelle loro guerre. Sentita questa
lega gli altri tiranni lombardi tutti si legarono coll’arcivescovo,
non guardando il marchese di Ferrara perchè avesse antico amore e
singolare affetto col comune di Firenze; e così tutti i tirannelli
di Romagna feciono il simigliante, e que’ della Marca. E il comune di
Pisa per patto li promisono dugento cavalieri, e non volendo rompere
patto di pace a’ Fiorentini l’intitolarono alla guardia di Milano. E in
Toscana s’aggiunse i Tarlati d’Arezzo, non ostante che fossono in pace
e in protezione del comune di Firenze, e il somigliante di Cortona: e
gli Ubaldini, e’ Pazzi di Valdarno, e gli Ubertini, e de’ conti Guidi
tutti i ghibellini, e quei di Santafiore, e molti altri tirannelli
ghibellini, i quali segretamente s’intesono coll’arcivescovo, non
volendosi mostrare innanzi al tempo, per paura che i comuni guelfi
loro vicini nol sapessono. Questa lega fu fatta e giurata tosto e
molto segretamente, perocchè vedendo i ghibellini la gran potenza
dell’arcivescovo, e sappiendo che la Chiesa non avea potuto fare la
lega, e che i tiranni tutti di Lombardia s’erano accostati a dare
aiuto all’arcivescovo, pensarono che venuto fosse il tempo di spegnere
parte guelfa in Italia, e però senza tenere pace o fede promessa catuno
s’accostò col Biscione, e vennesi provvedendo d’arme e di cavalli per
essere alla stagione apparecchiati. In questo mezzo l’arcivescovo per
meglio coprire l’intenzione sua amichevolemente mandava al comune di
Firenze sue lettere, congratulandosi de’ suoi onori, e profferendosi
come ad amici, e con questa dissimulazione passò tutto il verno,
e mostrava d’avere l’animo a stendersi nella Romagna. E il comune
di Firenze per non mostrare in sospetto l’amicizia che dimostrava
a’ Fiorentini, non si provvedeva di capitano di guerra nè di gente
d’arme, e le strade di Bologna e di Lombardia usava sicuramente colle
mercatanzie de’ suoi cittadini; e i Milanesi e’ Bolognesi e gli altri
Lombardi faceano a Firenze il somigliante senza alcuno sospetto:
perocchè il malvagio concetto del tiranno e de’ suoi congiunti si
racchiudea ne’ loro petti, e di fuori non si dimostrava, per meglio
potere adempiere loro intenzione.

CAP. LXXVIII.
_Come fu assediata Imola dal Biscione e altri._
In questo medesimo verno, messer Bernabò, ch’era in Bologna vicario per
l’arcivescovo, costrinse i Bolognesi, e mandò a porre l’oste a Imola
i due quartieri della città: ed egli v’andò in persona con ottocento
cavalieri, e fecevi venire il capitano di Forlì colla sua gente a piè
e a cavallo, e vennevi messer Giovanni Manfredi tiranno di Faenza colla
sua forza, e il signore di Ravenna e gli Ubaldini, e assediarono Imola
intorno con più campi. Guido degli Alidogi signore d’Imola, guelfo e
fedele a santa Chiesa, avendo sentito questo fatto dinanzi, e richiesto
i Fiorentini e gli altri comuni e amici di santa Chiesa d’aiuto, e
non avendolo trovato, per la paura che catuno avea d’offendere al
Biscione, come uomo franco e di gran cuore s’era provveduto dinanzi che
l’assedio vi venisse di molta vittuaglia; e per non moltiplicare spesa
di soldati elesse centocinquanta cavalieri di buona gente d’arme e
trecento masnadieri nomati, tutti di Toscana, e con questi si rinchiuse
in Imola; e fece intorno alla città due miglia abbattere case chiese
e quanti difici v’erano, perchè i nimici non potessono avere ridotto
intorno alla terra; e così francamente ricevette l’assedio, acquistando
onore di franca difesa, insino all’uscita di maggio gli anni _Domini_
1351. In questo stante al continovo si mettea in ordine sotto questa
coverta d’Imola di potere improvviso a’ cittadini di Firenze assalire
la città: e approssimandosi al tempo, di subito fece levare l’oste da
Imola e lasciarvi certi battifolli, i quali in poco tempo straccati,
senza potere tenere assediata la città, se ne levarono e lasciaronla
libera.

CAP. LXXIX.
_Come il capitano di Forlì tolse al conticino da Ghiaggiuolo e al conte
Carlo da Doadola loro terre._
In questo medesimo tempo, il capitano di Forlì disideroso d’accrescere
sua signoria, e avventurato nell’imprese, non vedendosi avere in
Romagna di cui e’ dovesse temere, co’ suoi cavalieri venne subitamente
sopra le terre del conticino da Ghiaggiuolo, di cui non si guardava,
e con lui venne l’abate di Galeata, da cui il conticino tenea certe
terre, e non gli rispondea com’era tenuto. E parve che fosse una
maraviglia, che avendo buone e forti castella e bene guernite a grande
difesa, tutte l’ebbe in pochi dì. E con questa foga se n’andò sopra le
terre di Carlo conte di Doadola, e quasi senza trovar contasto tutte le
recò sotto la sua signoria. Egli era a quel tempo in lega col signore
di Milano, e però non trovò il comune di Firenze, benchè il conticino
fosse stato suo cittadino, ch’aiutare lo volesse contro al capitano.

CAP. LXXX.
_Come nella città d’Orbivieto si cominciò materia di grande scandalo._
In questo anno 1350, reggendosi la città d’Orbivieto a comune appo il
popolo, erano i maggiori governatori di quello stato Monaldo di messer
Ormanno, e Monaldo di messer Bernardo della casa de’ Monaldeschi;
Benedetto di messer Bonconte loro consorto, per invidia e per setta
recati a se due altri suoi consorti, trattò con loro il malificio, che
poco appresso gli venne fatto; perocchè del mese di marzo del detto
anno, uscendo amendue i Monaldi sopraddetti del palagio del comune
dal consiglio, Benedetto co’ suoi due consorti s’aggiunsono con loro,
e senza alcuno sospetto, i due Monaldi, che al continovo il dì e la
notte usavano con Benedetto, s’avviarono con lui ragionando; e avendo
il traditore l’uno di loro per mano, nel ragionamento, in sulla piazza,
il fedì d’uno stocco, e cadde morto; l’altro Monaldo vedendo questo
cominciò a fuggire: Benedetto sgridò i compagni, i quali il seguirono,
e innanzi che potesse entrare in casa sua il giunsono e uccisonlo.
Morti che furono costoro, Benedetto corse a casa sua e armossi; e
accolti certi suoi amici, co’ suoi due consorti corsono la terra: e non
trovando contasto, entrarono nel palagio del comune; e aggiuntasi forza
di cittadini di sua setta, Benedetto si fece fare signore, e cominciò
a perseguitare tutti coloro ch’erano stati amici de’ suoi consorti
morti; e montò in tanta crudeltà la sua tirannia coll’audacia de’ suoi
seguaci, che cacciati molti cittadini, in piccolo tempo, innanzi che
l’anno fosse compiuto, più di dugento tra dell’una setta e dell’altra
se ne trovarono morti di ferro. Onde il contado e il paese d’intorno se
ne ruppe in sì fatto modo, che in niuno cammino del loro distretto si
potea andare sicuro.

CAP. LXXXI.
_Come la città d’Agobbio venne a tirannia di Giovanni Gabbrielli._
Avendo narrato delle nuove tirannie che si cominciarono in Toscana,
ci occorre a fare memoria d’un’altra che si creò nella Marca in
questo medesimo anno, la città d’Agobbio, la quale in quel tempo avea
sparti per l’Italia quasi tutti i suoi maggiori cittadini in ufici
e rettorie. Giovanni di Cantuccio de’ Gabbrielli d’Agobbio, essendo
co’ suoi consorti in discordia per una badia di Santacroce, si pensò
che agevolemente si potea fare signore e della badia e d’Agobbio,
trovandosi nella città il maggiore, e non guardandosi i suoi consorti
nè gli altri cittadini di lui. E non ostante che fosse guelfo di
nazione, considerò che tutti i comuni e signori di parte guelfa di
Romagna, e di Toscana e della Marca temeano forte del signore di
Milano, ch’avea presa di novello la città di Bologna, e provvidde, che
dove i Perugini o altra forza si movesse contro a lui, che l’aiuto
dell’arcivescovo non gli mancherebbe. E avendo così pensato, senza
indugio accolse cento fanti masnadieri, e con alquanti cittadini
disperati e acconci a mal fare, i quali accolse a questo tradimento
della patria, subitamente corse in prima alle case de’ suoi consorti, e
affocate e rotte le porti, prese messer Belo di messer Cante, e messer
Bino e Rinuccio suoi figliuoli, e Petruccio di messer Bino e quattro
altri piccioli fanciulli, e tutti gli mise in prigione; e rubate le
case, vi mise il fuoco e arsele. E fatto questo, corse al palagio de’
consoli rettori di quello comune: e non volendo il gonfaloniere darli
il palagio, corse alle case sue e arsele in sua vista. E tornato al
palagio, disse agli altri consoli, che se non gli dessono il palagio
altrettale farebbe delle loro; onde per paura gli aprirono; e preso
il palagio, vi lasciò sue guardie, e corse la terra. I cittadini
sentendo presi i consorti di Giovanni, di cui avrebbono potuto fare
capo, si stettono per paura, e niuno si mise a contastarlo. E così
disventuratamente coll’aiuto di meno di centocinquanta fanti fu
occupata in tirannia la città d’Agobbio in una notte, la quale avea
seimila uomini d’arme. Ma i peccati loro, e massimamente le ree cose
commesse per le città d’Italia per le continove rettorie ch’aveano gli
uomini di quella città, li condusse in quelle, e nella disciplina della
nuova e disusata tirannia. E per le discordie della casa de’ Gabbrielli
a quell’ora non avea la città podestà, nè capitano nè altro rettore.
Avevavi alcune masnade de’ Perugini, i quali Giovanni ne cacciò fuori;
e ’l dì seguente, avendo cresciuta la sua forza dentro, se ne fece fare
signore; e di presente, come potè il meglio, si fornì di gente, e di
notte facea sollecita guardia, e fortificava la sua signoria.

CAP. LXXXII.
_Come il comune di Perugia e il capitano del Patrimonio andarono a oste
ad Agobbio._
Sparta per lo paese la nuova signoria d’Agobbio, messer Iacopo, ch’era
capo della casa de’ Gabbrielli, e allora era capitano del Patrimonio
per la Chiesa, co’ suoi cavalieri, e con aiuto d’alquanti suoi amici,
di subito cavalcò a Perugia; e il comune di Perugia, che si sentiva
offeso per lo cacciare della sua gente d’Agobbio, a furore di popolo
si mosse a cavalcare popolo e cavalieri con messer Iacopo, e puosonsi
a oste intorno alla città d’Agobbio. Vedendo Giovanni di Cantuccio,
nuovo tiranno, che il comune di Perugia, e messer Iacopo e altri suoi
consorti con forte braccio l’avieno assediato, e che da se era male
fornito a potere resistere, e de’ suoi cittadini d’entro non si potea
fidare, sagacemente mandò nel campo a’ Perugini suoi ambasciadori,
i quali da parte di Giovanni dissono: Signori Perugini, Giovanni di
Cantuccio ci manda a voi a farvi assapere, com’egli è di quella casa
de’ Gabbrielli, che sempre furono amatori e fedeli del vostro comune,
e così intende d’essere egli; e intende che ’l comune di Perugia abbia
in Agobbio ogni onore e ogni giurisdizione che da qui addietro avere
vi solea, e maggiore, e vuole rendere i prigioni; ed e’ si partissono
dall’assedio, e mandassono in Agobbio que’ savi cittadini di Perugia
cui elli volessono, a mettere in ordine e riformare il governamento
del comune, e ricevere i prigioni. La profferta fu larga, e’ Perugini
più baldanzosi che discreti, confidandosi follemente alla promessa del
tiranno, elessono ambasciadori ch’andassono a ricevere i prigioni e
riformare la città, e misongli in Agobbio: e di presente si levarono
da campo della terra e tornaronsi in Perugia, e lasciarono messer
Iacopo a campo colla gente d’arme ch’avea della Chiesa, il quale rimase
all’assedio più dì partiti i Perugini; pensando coll’aiuto de’ suoi
cittadini d’entro potere da se alcuna cosa, o se la fede di Giovanni
fosse intera co’ Perugini, potere tornare in Agobbio. Gli ambasciadori
de’ Perugini entrati in Agobbio, con grandissima festa, e dimostramento
di grande amore e confidanza furono ricevuti da Giovanni. E cominciolli
prima a convitare e tenerli in desinari e in cene, e tranquillarli
d’oggi in domane; e strignendolo gli ambasciadori, disse che volea
prima vedere partito messer Iacopo dall’assedio. Messer Iacopo
s’avvide bene dell’inganno, ma stretto dagli ambasciadori perugini,
acciocchè a lui non si potesse imputare cagione che per lui seguitasse
la discordia, si partì dall’assedio e tornossi nel Patrimonio. Gli
ambasciadori di Perugia, partitosi messer Iacopo, con più baldanza
strigneano Giovanni, di rivolere i prigioni, e ordinare il reggimento
della guardia della terra, com’egli avea promesso. Il tiranno vedendosi
levato l’assedio, tenea con più fidanza gli ambasciadori in parole,
e trovando nuove cagioni a dilungare il tempo, gli tenea sospesi. Ma
vedendo che oltre al debito modo gli menava per parole, per sdegno
si partirono d’Agobbio, e rapportarono al loro comune l’inganno che
Giovanni avea fatto. A’ Perugini ne parve male: ma non trovarono tra
loro concordia di ritornarvi ad oste. Nondimeno il nuovo tiranno,
pensandosi più gravemente avere offeso il comune di Perugia, non
ostante che fosse per nazione e per patria guelfo, si pensò d’aiutare
co’ ghibellini. E mandò ambasciadori a messer Bernabò ch’era a Bologna,
dicendo: che volea tenere la città d’Agobbio dal suo signore messer
l’arcivescovo: e pregollo che gli mandasse gente d’arme alla guardia
sua e della terra; il quale senza indugio vi mandò dugentocinquanta
cavalieri, e appresso ve ne mandò maggiore quantità, parendoli avere
fatto grande acquisto alla sua intenzione. Giovanni da se sforzò i
suoi cittadini per avere danari, e fornissi di gente d’arme a piè e a
cavallo; e vedendosi fornito alla difesa si dimostrò palesemente nimico
de’ Perugini, come appresso seguendo nostro trattato racconteremo.

CAP. LXXXIII.
_Come cominciò l’izza da’ Genovesi a’ Veneziani._
Essendo cresciuto scandalo nato d’invidia di stato tra il comune
di Genova e quello di Vinegia, tenendosi ciascuno il maggiore,
cominciamento fu di grave e grande guerra di mare. E la prima cagione
che mosse fu, che avendo avuto i Genovesi guerra e briga con Giannisbec
imperadore nelle provincie del Mare maggiore, a cui i Genovesi aveano
arsa la Tana e fatto danno grande alla gente sua, per la qual cosa i
Genovesi non potieno colle loro galee andare al mercato della Tana,
anzi facevano a Caffa porto, e per terra vi faceano venire la spezieria
e altre mercatanzie, con più costo e avarie che quando usavano la Tana.
I Veneziani dopo la detta briga s’acconciarono coll’imperadore, e alla
Tana andavano con loro navili e colle loro galee per la mercatanzia,
e traevanla a migliore mercato, la qual cosa mettea male a’ Genovesi.
Per la qual cosa richiesono i Veneziani, e pregaronli che si dovessono
accordare con loro a fare porto a Caffa, e darebbono loro quella
immunità e fondaco e franchigia ch’avieno per loro: e facendo questo,
l’arebbono in grande servigio; ed essendo in concordia, non dottavano
che Giannisbec si recherebbe a far loro ogni vantaggio che volessono,
per ritornarli al mercato della Tana: e questo tornerebbe in loro
profitto, e in onore di tutta la cristianità. I Veneziani non vi si
poterono per alcun modo recare, anzi dissono, che intendeano d’andare
con loro legni e galee alla Tana e dove più loro piacesse, che della
briga che i Genovesi aveano coll’imperadore non si curavano. Per la
quale risposta i Genovesi sdegnarono, e dispuosonsi dove si vedessono
il bello, di fare danno a’ Veneziani in mare, e i Veneziani a loro; e
d’allora innanzi, dove si trovarono in mare si combatteano insieme, e
in trapasso di non gran tempo feciono danno l’uno all’altro assai. E
sentendo catuno comune come la guerra era cominciata in mare tra’ loro
cittadini, ordinarono di mandare a maggiore riguardo e più armati i
loro navili grossi che non solieno. E per non mostrare paura nè viltà
l’uno dell’altro non si ristrinsono del navicare.

CAP. LXXXIV.
_Come quattordici galee di Veneziani presono in Romania nove de’
Genovesi._
Avvenne che andando in questo anno alla Tana quattordici galee di
Veneziani bene armate, come furono in Romania s’abboccarono in undici
galee de’ Genovesi ch’andavano a Caffa, sopra l’Isola di Negroponte,
e incontanente si dirizzano colle vele e co’ remi in verso loro. I
Genovesi vedendole venire, l’attesono arditamente, e acconciaronsi
alla battaglia. E sopraggiungendo le galee de’ Veneziani, combatterono
insieme. E dopo la lunga battaglia, i Veneziani sconfissono i Genovesi:
e seguitando la fuga, delle undici galee ne presono nove, e le due
camparono, e fuggirono in Pera. I Veneziani avendo questa vittoria,
trovandosi presso all’isola di Negroponte, acciocchè non impedissono
per tornare a Vinegia il loro viaggio della Tana, tornarono a Candia, e
ivi scaricarono la mercatanzia presa delle nove galee de’ Genovesi, e
misonla nel loro fondaco, e tutti i prigioni incarcerarono: e i corpi
delle galee de’ Genovesi lasciarono nel porto, pensando d’avere ogni
cosa in salvo alla loro tornata, e allora menar la preda della loro
vittoria a Vinegia con grande gazzarra; e fatto questo seguirono il
loro viaggio. Ma le cose ebbono tutto altro fine che non si pensarono,
come appresso diviseremo.

CAP. LXXXV.
_Come i Genovesi di Pera presono Negroponte, e riebbono loro
mercatanzia._
Le due galee di Genovesi campate dalla sconfitta, e venute a Pera,
narrarono a’ Genovesi di Pera la loro fortuna. E sentito per quelli
di Pera come le quattordici galee di Veneziani erano passate nel
Mare maggiore, e come i Genovesi prigioni, e la mercatanzia e i corpi
delle loro galee erano in Candia; non inviliti per la rotta de’ loro
cittadini, ma come uomini di franco cuore e ardire, di presente avendo
in Pera sette corpi di galee le misono in mare, e quelle e le due
de’ Genovesi della sconfitta, e quanti legni aveano armarono di loro
medesimi, e montaronvi suso a gara chi meglio potè, fornendosi d’arme
e di balestra doppiamente; e senza soggiorno, improvviso a’ Veneziani
di Candia, i quali non sapieno che galee di Genovesi fossono in quel
mare, furono nel porto. I Veneziani co’ paesani, volendo contastare
la scesa a’ Genovesi in terra nel loro porto, tratti alla marina, per
forza d’arme e dalle balestra de’ Genovesi furono ributtati; e scesi in
terra i Genovesi di Pera, e romore levato per la città, tutti trassono
i cittadini alla difesa, per ritenere i Genovesi che non si mettessono
più innanzi verso la terra. Ma poco valse loro, che con tanto empito
di loro coraggioso ardire i Genovesi si misono innanzi, che coll’aiuto
delle loro balestra rotti que’ della terra, e fuggendo nella città, con
loro insieme v’entrarono. Come si vidono dentro, affocando le case,
e dilungando da loro i cittadini co’ verrettoni, gli strinsono per
modo, che già erano signori della terra; ma pervenuti alla prigione la
ruppono, e trassonne tutti i loro cittadini presi; ed entrarono nel
fondaco, e tutta la mercatanzia presa delle nove galee de’ Genovesi,
e quella che dentro v’era de’ Veneziani presono, e caricarono ne’
corpi delle loro nove galee prese nel porto, e su le loro; e rimessi i
prigioni in su le galee, pensarono che tanto erano rotti e sbigottiti
gli abitatori di Candia, che agevole parea loro vincere la terra, ma
vincendola e convenendola guardare, convenia loro abbandonare Pera,
e però si ricolsono alle galee, e con piena vittoria si ritornarono a
Pera. E a Genova rimandarono le nove galee racquistate per loro, e gli
uomini e la mercatanzia, con notabile fama di loro prodezza e di varia
fortuna.

CAP. LXXXVI.
_Come fu morto il patriarca d’Aquilea, e fattane vendetta._
In questo anno, del mese di giugno, messer Beltramo di san Guinigi
patriarca d’Aquilea, cavalcando per lo patriarcato, da certi terrieri
suoi sudditi, con aiuto di cavalieri del conte d’Aquilizia, ch’era
male di lui, fu nel cammino assalito e morto con tutta sua compagnia,
e senza essere conosciuti allora, coloro che feciono il malificio si
ricolsono in loro paese. Per la qual cosa rimaso il patriarcato senza
capo, i comuni smossono il duca d’Osterich, il quale con duemila
barbute venne, e fu ricevuto da tutti i paesani senza contasto, e
onorato da loro. E vicitato il paese infino nel Friuli, sentendo che ’l
papa avea fatto patriarca il figliuolo del re Giovanni di Boemia, non
illigittimo ma ligittimo, si tornò in suo paese. E poco appresso, il
detto patriarca venne nel paese, e fu con pace ricevuto e ubbidito da
tutti i comuni e terrieri del patriarcato. E statovi poco tempo, certi
castellani il vollono fare avvelenare, e furono coloro ch’avieno morto
l’altro patriarca, avendo a ciò corrotto due confidenti famigliari.
Onde egli scoperto il tradimento, messer Francesco Giovanni grande
terriere, capo di questi malfattori, con certi altri castellani che
’l seguitavano, furono da lui perseguitati senza arresto, tanto che
si ridussono a guardia nelle loro fortezze, e ivi furono assediati per
modo, che s’arrenderono al patriarca. Il quale prima abbattè tutte loro
castella, le quali erano cagione della loro sfrenata superbia, e al
detto messer Francesco, con otto de’ maggiori castellani fece tagliare
le teste, e un’altra parte ne fece impendere per la gola. Per la qual
cosa tutto il paese rimase cheto e sicuro, e il patriarca temuto e
ubbidito da tutti senza sospetto o contasto.

CAP. LXXXVII.
_Come il legato del papa si partì del Regno, e il re riprese Aversa._
Tornando alle novità del regno di Cicilia di qua dal Faro, come è
narrato, fatto l’accordo dal re Luigi a Currado Lupo e agli altri
caporali ch’erano sotto il titolo del re d’Ungheria in Terra di Lavoro,
le città e le castella che teneano in quella furono assegnate alla
guardia del cardinale messer Annibaldo da Ceccano, salvo le torri
di Capova. Il cardinale non trovando tra le parti accordo, per dare
materia al re Luigi che si potesse riprendere le città e le castella
che a lui erano accomandate, si partì del Regno e andossene a Roma, ove
da’ Romani fu male veduto; perocchè dispensava e accorciava i termini
della vicitazione a’ romei, contro all’appetito della loro avarizia,
onde più volte standosi nel suo ostiere fu saettato da loro, e alla
sua famiglia fatta vergogna, e assaliti e fediti cavalcando per Roma.
Onde egli sdegnoso si partì, e andossone in Campagna; e nel cammino
morì di veleno con assai suoi famigliari. Dissesi che ad Aquino era
stato avvelenato vino nelle botti, del quale non ebbono guardia, e
bevvonsene: se per altro modo fu non si potè sapere. Rimasta la città
d’Aversa e la guardia del castello a certi famigliari del cardinale in
nome di santa Chiesa, il re Luigi vi cavalcò con poca gente, e fecesi
aprire le porte del castello senza contasto, e misevi fornimento o
gente d’arme alla guardia. E incontanente la città, ch’era troppo larga
e sparta da non potersi bene difendere, ristrinse, facendo disfare
tutte le case e’ palagi che fuori del cerchio che prese rimanieno;
e delle pietre fece cominciare a cignere quella di buone e grosse
mura: e a ciò fare mise grande sollecitudine, sicchè in poco tempo,
innanzi l’avvenimento del re d’Ungheria nel Regno, le mura erano alzate
per tutto sei braccia intorno alla terra. E fatto capitano messer
Iacopo Pignattaro di Gaeta, valente barone, di trecento cavalieri e
di seicento pedoni masnadieri, gli accomandò la guardia della città
d’Aversa e del castello; e nella terra fece mettere abbondanza di
vittuaglia, perocchè di quella terra, più che dell’altre, si dubitava
alla tornata del re d’Ungheria. In quel tempo Currado Lupo non
sentendosi forte di cavalieri, che s’erano partiti del Regno, s’era
ridotto a Viglionese in Abruzzi, e gli Ungheri in Puglia, e guardavano
il passo delle torri di Capova, aspettando il loro signore.

CAP. LXXXVIII.
_Come il re d’Ungheria ritornò in Puglia conquistando molte terre._
In questo anno, Lodovico re d’Ungheria sentendo che la sua gente avea
sconfitto a Meleto i baroni del re Luigi e i Napoletani, e aveano molti
a prigioni: essendo sollecitato per lettere e per ambasciadori da’
comuni e da’ baroni che teneano nel Regno la sua parte che ritornasse,
diliberò di farlo. E di presente mandò innanzi de’ suoi cavalieri
ungheri con certi capitani in Ischiavonia, perchè di là passassero
in Puglia. E quando gli sentì passati, subitamente con certi suoi
eletti baroni, con piccola compagnia, si mise a cammino, e prima fu
alla marina di Schiavonia che sapere si potesse della sua partita: e
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 09
  • Parts
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 01
    Total number of words is 4370
    Total number of unique words is 1610
    37.0 of words are in the 2000 most common words
    51.7 of words are in the 5000 most common words
    58.5 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 02
    Total number of words is 4672
    Total number of unique words is 1391
    39.2 of words are in the 2000 most common words
    55.0 of words are in the 5000 most common words
    61.6 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 03
    Total number of words is 4651
    Total number of unique words is 1384
    39.0 of words are in the 2000 most common words
    53.4 of words are in the 5000 most common words
    61.2 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 04
    Total number of words is 4714
    Total number of unique words is 1300
    40.0 of words are in the 2000 most common words
    55.2 of words are in the 5000 most common words
    62.5 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 05
    Total number of words is 4738
    Total number of unique words is 1404
    39.6 of words are in the 2000 most common words
    53.4 of words are in the 5000 most common words
    60.7 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 06
    Total number of words is 4648
    Total number of unique words is 1352
    38.5 of words are in the 2000 most common words
    54.8 of words are in the 5000 most common words
    61.8 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 07
    Total number of words is 4637
    Total number of unique words is 1344
    38.8 of words are in the 2000 most common words
    54.3 of words are in the 5000 most common words
    63.1 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 08
    Total number of words is 4624
    Total number of unique words is 1325
    38.7 of words are in the 2000 most common words
    52.9 of words are in the 5000 most common words
    59.1 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 09
    Total number of words is 4732
    Total number of unique words is 1342
    40.2 of words are in the 2000 most common words
    54.3 of words are in the 5000 most common words
    61.7 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 10
    Total number of words is 4626
    Total number of unique words is 1359
    38.3 of words are in the 2000 most common words
    53.9 of words are in the 5000 most common words
    61.2 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 11
    Total number of words is 4600
    Total number of unique words is 1276
    39.4 of words are in the 2000 most common words
    54.4 of words are in the 5000 most common words
    60.1 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 12
    Total number of words is 4553
    Total number of unique words is 1327
    36.9 of words are in the 2000 most common words
    52.6 of words are in the 5000 most common words
    60.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 13
    Total number of words is 4706
    Total number of unique words is 1366
    38.2 of words are in the 2000 most common words
    52.7 of words are in the 5000 most common words
    59.7 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 14
    Total number of words is 4594
    Total number of unique words is 1450
    36.8 of words are in the 2000 most common words
    51.5 of words are in the 5000 most common words
    59.0 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 15
    Total number of words is 4571
    Total number of unique words is 1396
    38.3 of words are in the 2000 most common words
    51.9 of words are in the 5000 most common words
    59.3 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
  • Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 16
    Total number of words is 2906
    Total number of unique words is 1025
    43.7 of words are in the 2000 most common words
    55.6 of words are in the 5000 most common words
    62.6 of words are in the 8000 most common words
    Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.