Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 10

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a’ Fiorentini che la prendessono, volendo mantenere la città a parte
guelfa, e in più sicuro e pacifico stato che non erano. E così parlato,
misono il partito a segreto squittino, e vinsero che la guardia della
città fosse messa liberamente nel comune di Firenze, e che dentro vi
mettesse gente e capitano alla guardia quanto al detto comune piacesse;
e che dentro alla città in su le mura si facesse un castello alle spese
de’ Fiorentini, per più sicura guardia, e che oltre a ciò avessono
la guardia di Seravalle e quella della Sambuca. E messi dentro de’
cittadini di Firenze in quel dì, ogni cosa di grande concordia si recò
in buona pace; e dentro vi misono il capitano e’ cavalieri e’ pedoni
che i nostri cittadini vollono, e presono la tenuta, e ordinarono
la guardia di Seravalle: e per fretta e mala provvidenza indugiarono
di mandare per la tenuta della Sambuca nel passo dell’alpe, la quale
quando poi vollono, senza difetto de’ Pistolesi, non poterono avere:
onde poi ne seguì cagione di grande pericolo a’ Pistoiesi e al nostro
comune, come leggendo per innanzi si potrà trovare. Fatta la detta
concordia, i Fiorentini levarono il campo e arsono i battifolli, e
ordinatamente con gran festa tornò tutta la bene avventurata oste nella
nostra città, all’uscita d’aprile, gli anni di Cristo 1351. E pochi dì
appresso vi mandò il comune di Firenze de’ suoi grandi cittadini con
pieno mandato, i quali riformassono al piacere de’ cittadini di Pistoia
lo stato e il reggimento di quello comune; e rimisonvi messer Ricciardo
Cancellieri e’ suoi, con pace de’ Panciatichi, fortificata e ferma con
più matrimoni dall’una famiglia all’altra.

CAP. XCVIII.
_Come il re d’Inghilterra sconfisse in mare gli Spagnuoli._
Nel tempo delle tregue del re di Francia e di quello d’Inghilterra,
gli Spagnuoli, i quali usavano colle loro cocche e navili di navicare
il mare di Fiandra, cominciarono a danneggiare i navili d’Inghilterra,
e a rubare in corso le loro mercatanzie; e seguitando con più forza la
loro guerra, per più riprese feciono agl’Inghilesi onta e danno assai.
Il re d’Inghilterra non potè dissimulare questa ingiuria, che senza
cagione di guerra gli Spagnuoli gli aveano fatta, e però accolse suo
navilio, e in persona con due suoi figliuoli assai giovani si mise in
mare per andare in Spagna. Il re di Castella che sentì l’armata del
re d’Inghilterra, fece suo sforzo d’armare molte navi, e abboccaronsi
coll’armata d’Inghilterra nella vicinanza delle loro marine, e
commisono aspra e fiera battaglia, della quale il re d’Inghilterra
ebbe la vittoria, con grande danno degli Spagnuoli e delle loro navi.
E fatta la sua vendetta, con piena vittoria si tornò in Inghilterra. E
qui finisce il nostro primo libro, anni di Cristo 1351.


LIBRO SECONDO

CAPITOLO PRIMO
_Prolago._
Perocchè anticamente gl’infedeli e i pagani e le barbare nazioni,
compiacendosi alla reverenza delle virtù morali, i cominciamenti della
guerra alle ragioni della giustizia congiugneano, non senza debita
ammirazione ne’ nostri tempi, ne’ quali i cristiani, non solamente
dalle morali, ma dalle virtù divine ammaestrati nella perfetta fede
di Cristo nostro redentore, molti trapassano con disordinato appetito
la via eguale della vera giustizia, e seguitando la sfrenata volontà
della tirannesca ambizione, non colle debite ragioni, ma con perverse
cagioni, con subiti e sprovveduti assalti gli sprovveduti popoli
assaliscono, le città e le terre, confidandosi nella loro quiete, per
furti, per tradimenti, e per inganni rapiscono, sforzandosi con ogni
generazione d’inganni quelle soggiogare, e sottomettere al giogo della
loro tirannia; e non meno la cristianità, che le infedeli nazioni,
di queste malizie e inganni spesso si conturba. E avvegnachè queste
cose senza vergogna de’ laici secolari raccontare non si possono, ne’
cherici, e massimamente ne’ prelati, i quali, invece di Cristo fatti
spirituali pastori della sua greggia, diventando rapaci lupi, nelle
predette cose sono con ogni abominazione da detestare. E però venendo
al cominciamento del secondo libro del nostro trattato, diverse e
varie cagioni di questa materia prima ci s’apparecchiano, vinti da
onesta necessità, la verità del fatto, con seguire nostra materia,
racconteremo.

CAP. II.
_Come il comune di Firenze usava la pace coll’arcivescovo di Milano._
I Fiorentini avendo per gelosia presa la guardia del castello di Prato
e della città di Pistoia, usciti della paura di quelle, si stavano
in pace, riputandosi essere in amistà dell’arcivescovo di Milano,
perocchè guerra non v’era, e contro a sua impresa i Fiorentini non
s’erano voluti travagliare. Con Bologna tenea le strade e i cammini
aperti, e le mercatanzie d’ogni parte andavano e venivano sicure. E
spesso il tiranno scrivea al comune de’ suoi onori e de’ singulari
servigi, come accade ad amici, e il comune a lui, come a reverente
signore e caro amico. E con folle ignoranza stava il nostro comune
senza sospetto, e per non dare materia di sospetto al vicino tiranno,
si guardava di fornirsi di capitano di guerra e di gente d’arme, e
appena aveano fornite di guardie le loro castella. Il tiranno, ch’avea
fatta la lega con gli altri tiranni d’Italia e con tutti i ghibellini,
si venia fornendo di gente d’arme al suo soldo a piè e a cavallo,
e vegghiava al continovo contro al nostro comune nella conceputa
malizia, attendendo il tempo che a ciò avea divisato. E in questo mezzo
carezzava con doni e con servigi i suoi vicini tiranni, per averli
più pronti al suo servigio al tempo del bisogno. E si pensava, che
ingannando i Fiorentini, e venendo della città al suo intendimento,
essere appresso al tutto signore d’Italia. E i rettori della città di
Firenze avendo a’ suoi confini il tiranno potente, viveano improvvisi,
sotto confidenza degna di biasimo e di grave punizione. Ma così avviene
spesso alla nostra città: perocchè ogni vile artefice della comunanza
vuole pervenire al grado del priorato e de’ maggiori ufici del comune,
ove s’hanno a provvedere le grandi e gravi cose di quello, e per forza
delle loro capitudini vi pervengono; e così gli altri cittadini di
leggiere intendimento e di novella cittadinanza, i quali per grande
procaccio, e doni e spesa si fanno a’ temporali di tre in tre anni agli
squittini del comune insaccare: è questa tanta moltitudine, che i buoni
e gli antichi, e’ savi e discreti cittadini di rado possono provvedere
a’ fatti del comune, e in niuno tempo patrocinare quelli, che è cosa
molto strana dall’antico governamento de’ nostri antecessori, e dalla
loro sollecita provvisione. E per questo avviene, che in fretta e
in furia spesso conviene che si soccorra il nostro comune, e che più
l’antico ordine, e il gran fascio della nostra comunanza, e la fortuna,
governi e regga la città di Firenze, che il senno o la provvidenza de’
suoi rettori. Catuno intende i due mesi c’ha a stare al sommo uficio al
comodo della sua utilità, a servire gli amici, o a diservire i nimici
col favore del comune, e non lasciano usare libertà di consiglio a’
cittadini: e questo è spesso cagione di vergogna e di grave danno del
nostro comune, ricevuto da’ suoi minori e impotenti vicini.

CAP. III.
_Come l’arcivescovo di Milano appuose tradimento e condannò messer
Iacopo Peppoli._
Era in questo tempo rimaso in Bologna messer Iacopo de’ Peppoli, il
quale fu traditore con messer Giovanni suo fratello della propria
patria, vendendo la città e i suoi cittadini all’arcivescovo, come
detto abbiamo, al quale la sua malizia, e il commesso peccato, tosto
apparecchiò alcuna penitenza alle sue male operazioni. Che trattando
egli con certi tiranni lombardi di fare rivolgere la città di Bologna,
l’arcivescovo, o vero o bugia che fosse, sentì che trattato si tenea
per lui e per alcuni altri cittadini di Bologna: e la boce corse
che trattavano co’ Fiorentini: e questo non ebbe sostanza alcuna di
verità. Il tiranno avea voglia di trarlo di Bologna, sicchè ogni lieve
ragionamento o materia gli fu assai: e però di presente fece prendere
lui e’ figliuoli e alcuni altri cittadini, e condannati gli altri a
morte, messer Iacopo per grande servigio condannato a perpetua carcere,
e pubblicati i suoi beni alla sua camera, come di traditore, e tolsegli
i danari che gli restavano della vendita di Bologna, e le castella che
dato gli avea, e il proprio patrimonio: e fattolo venire co’ figliuoli
a Milano, incarcerò lui nel castello di... e i figliuoli a Cremona.
L’altro fratello che a quello tempo era in Milano non involse in
questa sentenza, il quale dissimulando suo dolore rimase in Milano in
lieve stato, per passare il tempo alla provvigione del signore, con
amaro cuore. Assai tosto ha fatto manifesto qui il divino giudicio la
miseria a che sono condotti i traditori della loro patria, i quali per
disperato consiglio, i cittadini i quali gli aveano con grande onore
esaltati e fatti signori sottopuosono per avarizia al giogo del crudele
tiranno: e ora spogliati de’ propri beni, e privati d’ogni amore de’
loro cittadini, in calamitosa prigione danno esemplo agli altri di più
intera fede a’ loro comuni.

CAP. IV.
_Come l’arcivescovo fermò d’assalire improvviso la città di Firenze._
Nel mese di luglio del detto anno, l’arcivescovo di Milano, avendo
purgato di sospetto la città di Bologna, per la morte d’alquanti
cittadini e per l’incarcerazione di messer Iacopo de’ Peppoli e
de’ figliuoli, e accolti e fatti accogliere quasi tutti i soldati
oltramontani d’Italia, parendoli venuto il tempo di scoprire a’ suoi
collegati ghibellini d’Italia la sua intenzione, ebbe in Milano i
caporali di parte ghibellina d’Italia, e conferì con loro di volere
sottomettersi il comune di Firenze, e con molte ragioni dimostrò
com’era venuto il tempo da poterlo fare col loro aiuto: e ciò fatto,
era spento in Italia il nome di parte guelfa. La proposta fu in piacere
di tutti. Eranvi caporali, oltre a’ Lombardi, gli Ubaldini, i figliuoli
di Castruccio Interminelli e messer Francesco Castracani da Lucca,
messer Carlino di Pistoia e’ suoi, il conte Nolfo d’Urbino, i conti di
Santafiore e il conte Guglielmo Spadalunga, e de’ ribelli del comune di
Firenze alquanti di quelli da Cigliano, e messer Tassino e il fratello
discesi della casa de’ Donati. E non volendosi scoprire d’esservi in
persona i Tarlati d’Arezzo, il vescovo co’ suoi Ubertini, e’ Pazzi di
Valdarno, e il conte Tano da Montecarelli, ch’erano allora in pace e
in amore col comune di Firenze, in segreto vi mandarono catuno segreti
ambasciadori con pieno mandato. I quali tutti udita l’intenzione del
potente tiranno furono molto allegri, e confortarono l’arcivescovo
dell’impresa: aggiugnendo che sentivano i cittadini di Firenze in tanta
discordia per le loro sette, e per lo male contentamento del reggimento
della città, e Arezzo e Pistoia in sì male stato, che se la sua potenza
improvviso a quelli comuni col loro aiuto si stenderà sopra loro, non
vedeano che di tutto in breve tempo e’ non fosse signore: e la signoria
di Firenze il facea signore d’Italia. E così d’un animo rimasono in
accordo col tiranno di fare l’impresa ordinata; e data la fede della
loro credenza e di loro aiuto, con grandi promesse lieti si ritornarono
in loro contrade, e intesono d’apparecchiarsi di cavalli e d’arme al
loro podere. L’ordine fu preso, che quando l’oste dell’arcivescovo
fosse sopra i Fiorentini, che gli Ubaldini co’ Romagnuoli assalissono
nel’alpe, e i Tarlati Ubertini e Pazzi si rubellassono e assalissono
il Valdarno: e il conte Tano da Montecarelli movesse guerra in Mugello.
A’ Pisani intendea l’arcivescovo co’ suoi confidenti ambasciadori fare
rompere pace a’ Fiorentini, e muovere guerra dalla loro parte: cercando
muoverli con sue coperte suasioni, non dimostrando il perchè, in suo
aiuto. Ma i Pisani accorgendosi del fatto, nutricavano il tiranno con
parole di speranza, e mandarono a lui loro ambasciadori per potere
sentire più il vero da che movea quella inchiesta, e per avere più
tempo a deliberare. E questo avvenne, perocchè allora la città di
Pisa signoreggiava per li Gambacorti, uomini mercatanti e amici de’
Fiorentini. Ma i governatori del comune di Firenze, addormentati e
fuori della mente, non procuravano di sentire queste cose, e quello
che sentivano mettevano al non calere, e provvisione alla loro guardia
non faceano, sentendo che molta gente d’arme s’accogliea in Lombardia,
e che Lombardia non era in guerra, ma in lega coll’arcivescovo di
Milano. I quali rettori del nostro comune non erano degni di governare
il fascio di tanta città, ma di grandi pene delle loro persone,
commettendo contro al loro comune pericolo d’irreparabile fallo.

CAP. V.
_Come si mise in ordine il consiglio preso._
L’arcivescovo di Milano, la gente d’arme che avea in diverse parti
in Lombardia, in pochi dì la fece venire a Bologna: e fatto capitano
messer Giovanni de’ Visconti da Oleggio, il quale per fama si tenea
essere suo figliuolo, per addietro capitano de’ Pisani, e prigione
de’ Fiorentini nella battaglia che feciono per soccorrere Lucca alla
Ghiaia, animoso contro a’ Fiorentini, singularmente per quell’onta,
uomo di grande animo, e accompagnato da’ caporali ghibellini lombardi
toscani e marchigiani, maestrevoli conducitori di guerra, si pensò
prosperamente fornire la commissione a lui fatta per lo suo signore. Il
castello della Sambuca, nel passo della montagna tra Bologna e Pistoia,
era allora per difetto de’ Fiorentini nelle sue mani, al quale avea di
vittuaglia per l’oste grande apparecchiamento; e di questo non s’erano
accorti i Fiorentini: e così provveduto, subitamente a dì 28 del mese
di luglio, gli anni _Domini_ 1351, mosse colla sua oste da Bologna, e
prima fu valicato la Sambuca, e accampatosi presso a Pistoia a quattro
miglia, per attendere il rimanente del suo esercito, che i Fiorentini
sapessono alcuna cosa, o che avessono avuto pensiero che la forza del
tiranno si stendesse sopra loro: ma sentendo questo, subitamente, in
que’ due dì ch’e’ nimici attesono la loro gente, i Fiorentini misono
gente d’arme a piè e a cavallo in Pistoia, sicchè dentro vi si trovò
alla guardia da cinquecento cavalieri e seicento fanti alla venuta
dell’oste, messer Giovanni raunata tutta la sua oste e la vittuaglia, a
dì 30 di luglio predetto si strinse alla città di Pistoia, credendolasi
avere per vane promesse, ma non essendogli risposto come s’avvisava,
vi si strinse e posevisi ad assedio. La gente de’ Fiorentini che
dentro v’era, faceano di dì e di notte sofficiente e buona guardia, e
per questo, se trattato niuno v’era non s’ardì a scoprire, ma tutti i
cittadini colla gente de’ Fiorentini insieme attesono alla difesa della
città.

CAP. VI.
_Come gli Ubaldini arsono Firenzuola, e presono Montecolloreto._
Gli Ubaldini, ch’erano in pace col comune di Firenze, sentendo l’oste
dell’arcivescovo sopra Pistoia, avendo fatto loro sforzo, e avuto
cavalieri del tiranno, improvviso a’ Fiorentini apparirono nell’alpe,
e corsono a Firenzuola, che si redificava pe’ Fiorentini, ma non era
ancora cinta di mura, nè di fossi nè di steccati, ma incominciata, e
dentro v’erano capanne per alberghi, e lieve guardia per tener sicuro
il cammino, sicchè senza contrasto la presono e arsono: e andaronsene
a oste a Montecolloreto, nel quale era castellano per lo comune di
Firenze uno popolano de’ Ciuriani di Firenze, giovane poco scorto
degl’inganni delle guerre. Costui vedendosi assediato, e dando fede
alle parole de’ nimici, i quali diceano come Firenze era per arrendersi
al signore di Milano, si condusse mattamente a patteggiar con loro:
che se in fra ’l terzo dì non fosse soccorso, darebbe la rocca: e
per istadico diede un suo fratello. I Fiorentini ch’aveano l’animo
a guardare quella fortezza, cercarono di soccorrerla, e trovato uno
conestabile valente con venticinque masnadieri, promise d’entrare
innanzi al termine nel castello; e di presente si mise in cammino: e
tanto procacciò per suo ingegno e virtù, che innanzi il termine fu nel
castello, ma non potè entrare nella mastra fortezza, che si guardava
per lo castellano, e ’l castellano avendo questo soccorso si potea
difendere per lungo tempo da tutta la forza ch’avessono potuta fare gli
Ubaldini, perocchè il luogo era fortissimo e bene fornito: ma essendo
(come egli follemente avea messo il fratello nelle mani de’ nimici,
i quali minacciavano d’impiccarlo se non rendesse la rocca) vinto
dall’amore della carne, non volle ricevere il soccorso, anzi diede la
rocca a’ nimici. E salvate le persone da’ nimici, condotto a Firenze,
e giudicato traditore del comune, per la sua dicollazione e di due suoi
compagni diede esemplo agli altri castellani di più intera fede al loro
comune. I mallevadori che dati avea di rassegnare la rocca al comune
convenne che pagassono lire ottomila com’erano obbligati.

CAP. VII.
_Come gli Ubertini, e’ Tarlati, e i Pazzi assalirono il contado di
Firenze._
Messer Piero Sacconi co’ suoi Tarlati usciti d’Arezzo, e il vescovo
d’Arezzo degli Ubertini co’ suoi consorti, e Bustaccio co’ Pazzi di
Valdarno, per lungo tempo stati in pace e in protezione col comune
di Firenze, sentendo l’avvenimento di messer Giovanni Visconti da
Oleggio con grande forza d’arme sopra Pistoia, si ragunarono con
tutto loro sforzo di gente d’arme a piè e a cavallo a Bibbiena; e
dall’arcivescovo aveano avuto dugentocinquanta barbute, acciocchè
potessono fare maggiore guerra. Di presente, improvviso a’ Fiorentini,
cominciarono a cavalcare sopra loro, e sopra i conti Guidi, amici e
fedeli del comune di Firenze, e oggi correvano in una contrada e domane
in un’altra, uccidendo e predando, e facendo aspra guerra. I Fiorentini
vedendo d’ogni parte le subite e sprovvedute tempeste venire sopra
loro, e sentendo gli amici diventati nimici, ebbono paura non piccola,
mescolata di grande sospetto, e i provveduti rettori del comune non
sapeano che si fare. E così era la città di forza e di consiglio
spaventata, e molto piena di paura e di sospetto per modo, che non
veggendo nè per atto nè per consiglio alcuna cagione di sospetto
cittadinesco, non si fidava l’uno del’altro, e non si provvedea al
comune riparo per via di consiglio in que’ primi cominciamenti.

CAP. VIII.
_Come i Fiorentini mandaro ambasciadori al capitano dell’oste._
Vedendosi i Fiorentini con tanta forza e da cotante parti assalire dal
signore di Milano, senza avere con lui alcuna guerra o conturbagione
di pace, elessono alquanti cittadini, e mandaronli ambasciadori nel
campo a messer Giovanni da Oleggio, capitano dell’oste sopra a Pistoia,
i quali essendo giunti nel campo, furono ricevuti dal capitano assai
cortesemente. E secondo la commissione a loro fatta da’ priori e
da’ collegi del nostro comune, domandarono messer Giovanni, con ciò
fosse cosa che tra l’arcivescovo suo signore e ’l comune di Firenze
fosse pace e niuno sospetto di guerra, perchè venuto era ostilmente
come contra suoi nimici sopra il comune di Firenze, non avendo prima
annunziato al comune la sua guerra secondo i patti della pace, salvo
che per una breve lettera, mandata per lui poichè fu sopra Pistoia: la
quale senza precedente cagione di nostro fallo, disse: _non avete voi
voluto osservare la pace, e però vi facciamo la guerra_: la quale non
era nè onesta nè debita cagione; e però siamo mandati dal nostro comune
a sapere la verità di questo movimento. Udito il capitano la loro
ambasciata, raccolse il suo consiglio, e appresso rispose altieramente
in questo modo. Il nostro signore, messer l’arcivescovo di Milano, è
potente, benigno e grazioso signore, e non fa volentieri male ad alcuna
gente, anzi mette pace e accordo in ogni luogo ove la sua potenza si
stende; è amatore di giustizia, e sopra gli altri signori la difende e
mantiene: e qui non ci ha mandati per mal fare, ma per volere tutta la
Toscana riducere e mettere in accordo e in pace, e levare le divisoni
e le gravezze che sono tra’ popoli e’ comuni di questi paesi. E perchè
a lui è pervenuto e sente le divisioni discordie e sette, e le gravezze
che sono in Firenze, le quali conturbano e aggravano la vostra città e
tutti i comuni di Toscana, ci ha mandati qui affinchè voi vi governiate
e reggiate in pace e in giustizia per lo suo consiglio, e sotto la sua
protezione e guardia; e così intende volere addirizzare tutte le terre
di Toscana. E dove questo non si possa fare con dolcezza e con amore,
intende farlo colla forza della sua potenza e degli amici suoi. E a
noi ha commesso, ove per voi non si ubbidisca al suo buono e giusto
proponimento, che mettiamo la sua oste in sulle vostre porti e intorno
alla vostra città, e che ivi tanto manterrà quella, accrescendola e
fortificandola, continuamente combattendo d’ogni parte il contado e il
distretto del vostro comune col fuoco e col ferro, e colle prede de’
vostri beni, che tornerete per vostro bene alla volontà sua. Udendo
gli ambasciadori la superba risposta del capitano e del suo consiglio,
non parve che luogo e tempo fosse di quivi stendere più loro sermone:
e però domandarono sicurtà fino a Bologna per potere andare al signore
di Milano, come aveano in commissione dal loro comune, la quale il
capitano non volle dare. E però si tornarono a Firenze, e spuosono a’
signori e al consiglio quello ch’aveano avuto dal capitano dell’oste
per risposta della loro ambasciata, per la quale l’animo de’ cittadini
di Firenze crebbe più in disdegno che in paura.

CAP. IX.
_Come l’oste si levò da Pistoia e puosesi a Campi._
Essendo stata l’oste del tiranno otto dì sopra la città di Pistoia, e
mancata la speranza d’avere la terra, per la buona guardia e sollecita
che ’l dì e la notte vi faceano i Fiorentini: e il somigliante di
Prato, nelle quali terre erano le tre parti della gente d’arme che
allora aveano i Fiorentini, essendo la città di Firenze quasi rimasa
senza aiuto di soldati forestieri, e non avendo capitano di guerra:
messer Giovanni da Oleggio col consiglio de’ caporali ghibellini
ch’avea con seco, i quali stavano solleciti a sentire il fatto del
nostro comune, e sentivano essere dentro grande sospetto e poco
consiglio, e minore forza d’arme che in Pistoia e in Prato, con molte
verisimili suasioni mossono il capitano subitamente a stringersi
sopra Firenze colla sua oste: il quale essendo uomo di grande ardire,
e animoso contro a’ Fiorentini, sentendosi accompagnato da molti
buoni capitani di guerra, e da cinquemila barbute, e da duemila
altri cavalieri, e seimila masnadieri a piede, non bene provveduto di
vittuaglia, sperando nel contado di Firenze farsene abbondevole, come
mostrato gli era, a dì 4 d’agosto del detto anno subitamente levò il
campo da Pistoia, e per la strada dritta e piana senza arresto valicata
la terra di Prato, condusse la sua oste in sull’ora del vespero a
Campi, Brozzi e Peretola, improvviso, non che a’ Fiorentini, ma agli
uomini di quelle ville e contrade, per la qual cosa non poterono
campare alcuna cosa, fuori che le persone, e di quelle vi rimasono
assai. Il capitano per non conducersi al tardi, e perchè il luogo era
albergato e pieno d’ogni bene, fermò il campo a Campi. Della villa di
Campi e d’altre d’intorno raccolsono grano e biada e carnagione assai,
e molte masserizie e letta de’ paesani: e intesono a starsi ad agio e a
rinfrescare la gente di vivanda, della quale intorno a Pistoia aveano
avuto disagio. E dato l’ordine al campo di buona guardia di dì e di
notte, provviddono che ogni cavalcata che si facesse verso la città
di Firenze avesse riscossa di mille cavalieri il meno. E incontanente
cominciarono a cavalcare per lo piano, prendendo e raccogliendo
il bestiame e la roba che rimasa v’era senza trovare riparo, e
alcuna volta si stesono infino alle mura della città di Firenze. I
Fiorentini sentendo questa subita venuta dell’oste sopra la città, e la
baldanza presa d’aversi lasciato dietro Pistoia e Prato, sbigottirono
disordinatamente, non trovandosi forniti nè provveduti al riparo. E i
rettori del comune per lo fallo commesso dell’abbandonata provvisione
non sapeano che si fare; e molto temeano che fossono venuti così
baldanzosi a istanza de’ loro cittadini d’entro. E in questa contumacia
e sospetto si stette insino che manifesto apparve per l’operazione
de’ cittadini grandi e popolani grassi, che catuno era in fede al suo
comune: e levata la nebbia che teneva intenebrata la mente del popolo
e del comune, presono più ardire, e feciono trarre fuori i gonfaloni,
e andarono coll’arme alle porti, e fecionle serrare di verso la parte
d’ond’erano i nimici; e ordinarono guardie di buoni cittadini, facendo
il dì e la notte fare buona guardia. E armarono le mura di ventiere,
e le più deboli parti feciono afforzare per difendere la città, che di
mettere gente in campo a quell’ora non aveano podere.

CAP. X.
_Come l’oste ebbe gran difetti a Campi e a Calenzano._
Avvenne, che stando l’oste a Campi, per mala provvisione, tutto il
bestiame ch’avrebbe dato con ordine lungamente carne all’oste, in
pochi dì si straziò e consumò. E in quello tempo era sformato caldo e
secco grande, e tutte mulina di quelle contrade erano state sferrate
e guaste; per la qual cosa, benchè l’oste avesse del grano, non potea
fare farine, ed erano in grande soffratta di sale. E la vittuaglia
di quel piano cominciò a mancare, e quella che venia da Bologna per
scorta era spesso in preda de’ cavalieri ch’erano in Pistoia. E per
questo avvenne, che in pochi dì all’oste mancò il pane e il sale: e
non aveano che manicare, se non carne, e di quella poca, e cocevanla
col grano, che farina non aveano. Da niuna parte del contado di Firenze
aveano mercato, e cavalcate non poteano stendere in parte onde recare
potessono fornimento al campo, perocchè tutte le circustanze aveano
sgombrato e ridotto nella città. Onde cominciarono a sentire fame, e
il caldo li consumava e affliggeva forte i corpi degli uomini; e il
maggiore sussidio ch’avessono era l’agresto e le frutta non mature: e
poco tempo v’aveano a stare, che senza essere contastati da’ Fiorentini
veniano in ultima disperazione. I loro capitani e conducitori vedendosi
a questo pericolo, diedono voce di volersi strignere alla città, e
per forza valicare nel piano di san Salvi. I Fiorentini temettono di
questo: e non trovandosi gente d’arme da potere contradiare il passo
a’ nimici, feciono una tagliata dal ponte della porta a san Gallo
infino alla costa di Montughi: e ivi misono molti balestrieri e popolo
alla guardia, con ordine di soccorso se bisogno fosse. L’altra voce
diedono di tornarsene per lo piano d’ond’erano venuti verso Pistoia;
i Pistolesi per questa tema ruppono i passi, e abbarrarono i cammini
con fossi e con alberi. E per questo i Fiorentini più temeano che non
valicassono nel piano di san Salvi, e per questa cagione afforzarono
di bertesche e di steccati la rocca di Fiesole, e fecionla guardare;
e nondimeno tutto il contado da lunge e d’appresso feciono sgombrare
da quella parte. I capitani dell’oste vedendosi a cotanto disagio, non
ardirono di strignersi più alla città, anzi levarono il campo, a dì 11
d’agosto del detto anno, e traendosi addietro si puosono a Calenzano. I
Fiorentini stimando che se n’andassono, sonarono le campane del comune
a stormo; e il popolo volonteroso a cacciare chi fuggisse s’armò, e
alquanti mattamente senza ordine e senza capitano uscirono della città:
ma sentendo che i nimici non fuggivano, tosto ritornarono dentro dalle
mura. Ma di questo nacque la voce per lo contado e scorse per tutto,
che se n’andavano per la Valdimarina; e di stormo in stormo si mossono
i contadini senza ordine o comandamento del comune, e occuparono
le montagne sopra la Valdimarina d’ogni parte, e furono loro tanto
innanzi all’ora del vespero, che forte feciono temere e maravigliare i
nimici, ch’aveano intenzione di valicare nel Mugello per quella via.
Come i capitani ebbono fermo il loro campo sotto Calenzano in sulla
Marina, feciono combattere la pieve e certa fortezza ov’era raccolta la
vittuaglia de’ paesani, e presonle a patti, salve le persone: e anche
presono il castello di Calenzano, che non era murato nè difeso, e in
questa tenuta trovarono alcuno rinfrescamento. Fino a quell’ora non
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