Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 11

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aveano fatta alcuna arsione: stando ivi, uno grande conestabile tedesco
si stese a Pizzidimonte, e fuvvi morto da’ villani; e per questa
cagione vi cavalcarono e arsonlo, e appresso alcuna altra villa intorno
a Calenzano. E feciono provvedere i passi per valicare in Mugello,
ch’ogni altro viaggio era loro, in stremità del pane, più pericoloso a
pigliare.

CAP. XI.
_Come i rettori di Firenze abbandonarono il passo di Valdimarina._
La necessità delle cose da vivere, l’un dì appresso l’altro già
tornata in fame, strignea l’oste del Biscione, che così si chiamava
allora, a partirsi del piano, ove senza speranza di potersi allargare,
di pane erano affamati. I cittadini di Firenze, a cui era commessa
la provvisione della guerra, ch’erano oltre a’ priori e a’ collegi
diciotto tra grandi e popolani, sapeano bene il difetto ch’aveano i
nemici, ma non aveano capitano, e da loro non sapeano la maestria della
guerra, conobbono per lo comune grido, che agevole era a tenere loro il
passo che non entrassono nel Mugello per la Valdimarina, che per natura
il luogo era stretto, e’ passi aspri e forti, da tenergli poca gente
con loro sicurtà da tutta l’oste: e vidono manifesto, che dove questa
via s’impedisse loro, convenia che si partissono, tornando addietro da
Pistoia sconciamente. Ma la tema della boce che non passassono a san
Salvi, ch’era quasi impossibile, fece al comune non riparare a quel
passo. Ma un gentile scudiere alamanno, il quale in quel tempo per lo
comune era capitano in Mugello, da se medesimo commise a uno della casa
de’ Medici, il quale era in sua compagnia, ch’andasse a provvedere al
passo, e diegli dugento fanti e cinquanta cavalieri. La commissione fu
debole a cotanto fatto: nondimeno se il cittadino fosse stato valoroso,
e avesse voluto acquistare onore, molto agevole gli era a guardare
quel passo, perocchè i Mugellesi sentendo che il capitano mandava a
guardare quel passo, con grande animo di ben fare trassono da ogni
parte allo stretto ov’era venuto il provveditore. Ed essendo nel luogo,
viddono che il passo si difendea senza dubbio, a grande sicurtà de’
difenditori, per la fortezza naturale di quelle valli, onde conveniva
l’oste de’ nemici valicare a piede, e uomo innanzi uomo, che a cavallo
insieme non v’era modo da poter valicare. Ma il cittadino deputato
a quel servigio disse a’ Mugellesi che gli conveniva essere altrove,
e quivi per niuno modo si potea ritenere. Onde i Mugellesi ch’erano
tratti coraggiosi alla difesa, vedendo come colui cui doveano avere
per capitano a quella guardia si partiva, perderono ogni vigore: e
partito il capitano, tornarono a casa, e cominciarono a fuggire il loro
bestiame, e le loro famiglie e masserizie, maledicendo il comune di
Firenze e’ suoi governatori, con giusta cagione della loro fortuna.

CAP. XII.
_Come l’oste del Biscione valicò il passo, e andò in Mugello._
I capitani dell’oste che si vedeano in gran bisogno d’uscire del
luogo dov’erano stretti dalla fame, seppono di presente come il passo
era abbandonato da’ Mugellesi, e però incontanente mandarono innanzi
masnadieri eletti, e buoni balestrieri a prendere il passo: e senza
arresto levarono il campo, a dì 12 d’agosto del detto anno, e misonsi
loro appresso. In sul passo erano rimasi alquanti fanti del paese, i
quali di loro volontà attesono i masnadieri de’ nemici; e alle mani con
loro, li ributtarono indietro. Ma vedendosi pochi e senza soccorso, e
vedendo i nemici che riempieano le coste de’ poggi e le valli d’ogni
parte, abbandonarono il passo, e i nemici di presente il presono, e
l’oste senza contrasto o pericolo valicò, facendosi grandi beffe del
comune di Firenze, parendo a catuno di servo essere divenuto signore.
E pensando alla viltà ch’avevano trovata ne’ Fiorentini, a non avere
fatto tenere e difendere quel passo, e al poco provvedimento che
mostravano ne’ fatti della guerra, crebbe la loro superbia. E poichè si
viddono essere valicati senza contrasto nel piano di Mugello, presono
fidanza d’essere signori di tutto il paese senza contrasto, e quel dì
medesimo cavalcarono a Barberino, e a Villanuova. Barberino era forte
e bene fornito alla difesa, e molta roba v’era dentro raccolta delle
vicinanze, ad intendimento di difendersi, tanto ch’avessono soccorso
da’ Fiorentini. Ma Niccolò da Barberino, antico castellano e de’
nobili di quella terra, avendo la fede corta al comune di Firenze, se
n’andò al capitano dell’oste, e senza consiglio de’ suoi castellani, a
suo vantaggio trasse patto, e rendè il castello a’ nemici, e misonvi
la loro guardia, e la vittovaglia che v’era fece dare all’oste.
Villanuova, e Gagliano, e Latera, e altre terre circustanti, che non
erano di gran fortezza, nè guardate da gente d’arme del comune di
Firenze, feciono il comandamento del capitano dell’oste, e dieronli
il mercato. Trovandosi la gente affamata in paese largo e dovizioso
e pieno d’ogni bene, soggiornarono volontieri più dì, per prendere
conforto delle loro persone, e a’ loro animali, che tutti n’avevano
gran bisogno. Ma chi ha ne’ fatti della guerra il tempo da avanzare, e
per riposo lo indugia, tardi il racquista; e così avvenne a costoro per
lo detto soggiorno, come appresso diviseremo.

CAP. XIII.
_Come il conte di Montecarelli si rubellò a’ Fiorentini e venne al
capitano._
Il conte Tano di Montecarelli rompendo la pace ch’avea col comune di
Firenze, essendo con gli altri ghibellini collegato coll’arcivescovo,
avendo in prima per inganno, per mala provvedenza del castellano,
ritolta a’ Fiorentini la rocca di Montevivagni, nella quale era a
guardia uno popolare figliuolo di Piero del Papa, il quale fu però
condannato per traditore, come sentì l’oste del Biscione nel Mugello,
fece suo sforzo di cavalieri in piccolo numero, e in persona con i
suoi compagni a cavallo e con dugento fanti venne nell’oste, e in
Montecarelli mise la guardia per l’arcivescovo e le sue insegne; e
mentre che l’oste stette in Mugello fu a nimicare il comune di Firenze,
e a dare il mercato all’oste, e ricetto in Montecarelli a’ nemici del
comune.

CAP. XIV.
_Come si fornì la Scarparia e il Borgo._
Avvenne come l’oste del tiranno fu valicata nel Mugello, e dilungata
dalla città, a’ Fiorentini parve al tutto essere fuori di sospetto,
e ritornò loro il vigore e la virtù dell’animo a consigliare e a
provvedere a’ rimedi. E in quello stante che l’oste si riposava a
Barberino, misono nella Scarperia Iacopo di Fiore conestabile tedesco,
uomo leale e valoroso, il qual era capitano del Mugello. A costui
dierono dugento cavalieri eletti di buona gente, e trecento masnadieri
esperti in arme, de’ quali quasi tutti i conestabili furono Fiorentini,
uomini di grande pregio in fatti d’arme. E fornirono la terra di molta
vittuaglia, e d’arme, di balestra, e di saettamento, e di lagname e
di ferramenti, e di buoni maestri da fare ogni dificio da offendere
e da difendere; e fornita d’ogni cosa bisognevole per un anno, al
detto capitano e conestabile accomandarono la guardia e la difesa di
quello castello. E per simigliante modo e forma fornirono il Borgo
a san Lorenzo, e Pulicciano, e altre fortezze. E mandarono armadure,
saettamento e balestra, e ammonirongli di buona guardia, confortandogli
che a ogni bisogno avrebbono aiuto e soccorso presto dal comune. E gli
uficiali deputati alla provvigione di quella guerra si cominciarono a
provvedere, e accogliere gente di soldo a cavallo e a piè quanti avere
ne poteano, per attendere alla difesa.

CAP. XV.
_Come l’oste assediò la Scarperia._
Messer Giovanni da Oleggio capitano dell’oste, e il Conte Nolfo
da Urbino maliscalco, veduto la gente rinfrescata, e presa forza e
baldanza per lo abbondante paese dove si trovarono, con le spalle
di Bologna, onde potevano avere prestamente aiuto e favore quando
bisogno fosse, pensavano senza contrasto essere signori di tutto. E
con questa baldanza, a dì 20 del mese d’Agosto del detto anno vennero
colle schiere fatte sopra il castello della Scarperia, e con loro
s’aggiunsono gli Ubaldini, ch’erano con tutto loro sforzo nell’alpe,
e più altri ghibellini nemici del comune di Firenze. La Scarperia
era a quell’ora debole terra di piccolo compreso, e non era murata se
non dall’una delle parti, ma in quello stare di Barberino, in molta
fretta s’era rimesso il fosso vecchio e trattone la terra, e innanzi
a quello fattone un’altro piccolo, e racconciato lo steccato assai
debole. I nimici vi furono intorno con tanta moltitudine di cavalieri
e di pedoni, che copriano tutto il piano, e avendo da ogni parte
circondato il piccolo castello, e fermi i campi loro, domandarono il
castello a coloro che ’l guardavano, dicendo come i Fiorentini non lo
potevano soccorrere nè difendere, ma perocchè sentivano che dentro
v’erano di prod’uomini e virtudiosi d’arme, voleano far loro grazia
d’avergli per amici, dove rendessono la terra senza contasto: e che
quando questo non facessono nel breve termine loro assegnato, gli
vincerebbono per battaglia, e la vita non perdonerebbono ad alcuno: e
così era deliberato per lo capitano e per tutti i guidatori dell’oste.
Gli assediati risposono che voleano termine a rispondere, e che dopo
il termine farebbono quello che la fortuna concedesse con loro onore.
Furono domandati da’ capitani quanto termine voleano. Gli assediati
risposono, che con loro onore non vedeano che potesse essere meno
di tre anni: e dopo il detto termine intendeano prima morire in su i
merli, che di quelli dessono uno a’ nimici: e di così franca risposta
molto feciono maravigliare i capitani dell’oste, parendo che si
mettessono a grande pericolo a volere difendere così debole castello,
e da cotanta forza. E fatta la risposta, di presente s’ordinarono
e di dì e di notte a molta sollecita guardia, e a buona e a franca
difesa; e cominciarono a regolare la vita di tutti, come se l’oste vi
dovesse stare due anni. I nimici cominciarono prima ad assalirli con
grossi badalucchi, per tentare il loro reggimento, il quale trovarono
sollecito, e maestrevolmente provveduto alla difesa.

CAP. XVI.
_Come i Fiorentini afforzarono Spugnole._
I Fiorentini ch’al continovo raccoglievano gente d’arme a cavallo
e a piè al loro soldo, e sollecitavano gli amici d’aiuto, avendo
già accolto un poco di gente, deliberarono d’afforzare Spugnole e
Montegiovi per guardare le contrade di qua da Sieve, e per dare alcuna
speranza agli assediati della Scarperia, e ivi misono de’ cavalieri
ch’aveano, e parecchie masnade di buoni e valorosi masnadieri. E al
Borgo a san Lorenzo crebbono gente d’arme: e come crescea al comune
gente d’arme per soldo o per amistà gli mandavano alle frontiere
de’ nemici in Mugello. Onde avvenne più volte, che per gli aguati da
catuna parte, e per le cavalcate de’ nimici v’ebbe di belli e di grossi
assalti, ove si mostrarono operazioni di buoni cavalieri e di franchi
masnadieri. Per questo avvenne che i nemici non ardirono a valicare la
Sieve colle loro cavalcate inverso Firenze. E tutte loro cavalcate di
là da Sieve faceano grosse di mille cavalieri, o di millecinquecento,
o di duemila per volta, e nondimeno erano continuamente percossi alla
ritratta, e assaliti d’aguati che si metteano loro. E in questo modo
si venne domesticando la guerra, e gli uomini del paese cominciarono a
prendere cuore e ardire, per modo che i villani si raccoglieano insieme
e nascondevansi a’ passi, e come i cavalieri si stendevano alle ville
gli uccidevano; e avvezzi a questo guadagno dell’arme e de’ cavalli,
con molta sollecitudine intendevano a tendere i loro aguati in ogni
luogo. E per questo modo uccisono de’ nemici grande quantità nel tempo
che durò la detta guerra.

CAP. XVII.
_Come si difese Pulicciano di grave battaglia._
Al castello di Pulicciano furono condotti per certi ghibellini della
terra in una cavalcata cinquecento cavalieri e quattrocento fanti, e
non essendo se non pochi terrazzani nella fortezza di sopra, appena la
difesono. I borghi di fuori arsono e rubarono, e mandaronne il bestiame
e la preda nel campo. Sentito questo a Firenze, subito vi mandò il
comune cento fanti masnadieri alla guardia: i quali vi furono tosto a
gran bisogno, perocchè quelli dell’oste per seducimento di traditori
del castello, e per conforto de’ soldati ch’erano stati in quella
cavalcata, si pensarono vincere la fortezza, che non era chiusa di
mura, ma da uno vile steccato, e avendo quella, signoreggerebbono un
paese forte e pieno d’ogni bene da vivere: e però una mattina per tempo
vi feciono cavalcare duemila barbute, e mille fanti e più balestrieri.
E giunti a piè del castello, i cavalieri scesono de’ cavalli, e
con gli elmi e colle barbute in testa si legarono con le braccia
insieme, tenendo l’uno ’altro, e tra loro ordinarono i balestrieri,
e cominciarono da ogni parte a un’ora a montare verso gli steccati.
I terrazzani arditi e fieri, co’ soldati che v’erano, si misono
francamente alla difesa colle balestra ch’aveano e co’ sassi maneschi.
La forza de’ nemici era grande tanto, che per forza condussono un loro
conestabile con la sua bandiera quasi al pari dello steccato. Come si
fermò con l’insegna per dare favore agli altri, tra con le balestra e
con le pietre lo traboccarono morto giù per la ripa. Nondimeno i nimici
con grave battaglia gli stringeano forte, e quelli del castello molto
vivamente senza riposo difendeano gli steccati per modo, che da mezza
terza fino a mezzo dì, che la battaglia era durata senza arresto, i
nimici non aveano potuto abbattere un legno del loro steccato. Per
la qual cosa vedendo i cavalieri la franca difesa di que’ villani, e
già morti alquanti di loro, e che il giorno era nel calare, disperati
di quell’impresa, con loro vergogna si ritrassono della battaglia e
tornarono nel campo, e più non tentarono di ritornarvi.

CAP. XVIII.
_Come i Tarlati, e i Pazzi di Valdarno e gli Ubertini vennono in sul
contado di Firenze, e furonne cacciati per forza da’ Fiorentini._
Dall’altra parte messer Piero de’ Tarlati d’Arezzo in prospera
vecchiezza, valicati i novanta anni della sua età, e il vescovo
d’Arezzo della casa degli Ubertini, e i Pazzi di Valdarno, non ostante
che fossono in pace col comune di Firenze, avendo dugentocinquanta
cavalieri di quelli dell’arcivescovo, e aggiuntosi de’ conti
d’Urbino e altri ghibellini, mentre che l’oste era in Mugello, con
trecentocinquanta cavalieri e con duemila pedoni si misono da capo
predando il contado di Firenze, e vennono all’Ambra, e di là intendeano
entrare nel Valdarno e venire a Fegghine. I Fiorentini sdegnosi di
questi traditori, subitamente trassono dalle loro frontiere cinquecento
cavalieri, e commisono a centocinquanta cavalieri ch’aveano in Arezzo
che dovessono venire a raccozzarsi co’ nostri; e mossono il popolo
del Valdarno, che con grande animo e di buona voglia andavano in
quello servigio. Il comune di Firenze si confidò al tutto in questa
cavalcata di Albertaccio di messer Bindaccio da Ricasoli, uomo savio,
pro’ e ardito e buono capitano, se fosse stato in fede nel servigio
del comune: e benchè altri buoni cittadini fossono mandati in detto
servigio, a costui fu dato il mandato che in tutto fosse ubbidito. La
gente a piè e a cavallo che cavalcavano di volontà, sopraggiunsono
i nimici in sul vespero all’Ambra, in parte, che avendo voluto fare
quello si poteva per la nostra gente, non ne campava testa che non
fossono morti o presi: perocchè la gente del comune di Firenze era due
cotanti, e migliore gente d’arme, e erano nel loro terreno intorniati
dagli amici. Questo Albertaccio avendo parentado e amistà co’ detti
nimici, portò infamia di non avere servito il comune lealmente. In
prima d’avere sostenuta la gente del comune a Montevarchi, che potea
più infra ’l dì avere occupati i nimici: appresso, che quando fu a loro
non gli lasciò per la nostra gente badaluccare, per tenerli corti e
ristretti che non si potessono provvedere: e perocchè non lasciò porre
la sera la cavalleria de’ Fiorentini nel luogo dove si poteva torre
la via a’ nimici che andare non se ne potessono quella notte. Per li
savi che v’erano con lui si provvedeva, nondimeno per lo pieno mandato
ch’aveva dal comune fu ubbidito; ed egli mostrava di fare buona e
franca capitaneria, e di volere vincere i nimici senza pericolo della
sua gente: e però puose quella sera il campo in luogo sicuro a’ suoi,
e utile a’ nimici. O vero o bugia che fosse, infamato fu d’avere dato
il tempo e fatto assapere a’ nimici che si dovessono partire in quella
notte. I nimici traditori del nostro comune, vedendosi sorpresi a
loro gran pericolo, intesono con ogni sollecitudine, senza dormire, a
campare le persone: e non tennono per una via, ma per diverse parti per
lo scuro della notte presono la fuga molto chetamente. La nostra gente
non fu ordinata a quella guardia, e poi innanzi che il capitano facesse
armare il campo, i nimici erano più di sei miglia dilungati; allora
si strinsono ove la sera aveano lasciati i loro avversari, e niuno ve
ne trovarono: onde la infamia crebbe al capitano per lo fatto, e il
ripitio fu grande tra i cavalieri soldati e il conducitore, ch’avea
tolto loro quella preda per mala condotta. La gente che v’era d’Arezzo,
forte sdegnata di questo tradimento che parve loro avere ricevuto,
si partirono senza licenza del capitano con centocinquanta cavalieri
ch’aveano per loro guardia da’ Fiorentini, e tornaronsi in Arezzo.

CAP. XIX.
_Come Bustaccio entrò e rendè la Badia a Agnano._
In quella notte Bustaccio degli Ubertini si ridusse con parte di quella
gente a piede e a cavallo nella Badia a Agnano, la quale era molto
forte e bene guernita. La cavalleria de’ Fiorentini rimasa con vergogna
della partita de’ nimici, sentendo come Bustaccio era ricoverato in
quella Badia, cavalcarono là, e trovaronli racchiusi, e ordinati alla
difesa di quella tenuta. Il capitano per volere ricoprire sua infamia
volea combattere la fortezza; i conestabili de’ cavalieri, stretti
insieme, dissono ch’erano stati ingannati, e per baratto aveano perduta
la preda de’ nimici fuggiti, e però non intendeano combattere se prima
non fossono sicuri della preda, se per patto si lasciassono i nimici
partire: e in fine ne furono in concordia d’avere fiorini cinquecento
d’oro, come che i nimici si capitassono. E di presente combattendo
certo borgo il vinsono. Poi combattendo la Badia furono ributtati a
dietro, e perderono tre bandiere, ch’erano in sulle case, le quali
i nimici presono, e per paura del passo ove si trovavano le locaro
ritte in sull’altare maggiore della badia. I cavalieri aontati delle
loro bandiere prese, d’un animo si disponeano per forza a vincere
la Badia, e sarebbe venuto fatto loro, ma non senza grande danno,
perchè dentro v’erano buoni guerrieri; e però innanzi che alla grave
battaglia si venisse, il Roba da Ricasoli, allora discordante per
setta d’Albertaccio, volle parlare con quelli d’entro, i quali stavano
in gran paura: e parlato loro, di presente s’acconciarono a rendere
la Badia, potendosene andare salve le persone, e i cavalli e l’arme.
E presa per lo meno reo partito la detta concordia, e data la fede,
i nimici si partirono, e la fortezza e le bandiere s’ebbono senza
vergogna del comune, e i conestabili vollono i fiorini cinquecento
d’oro loro promessi.

CAP. XX.
_Come l’arcivescovo tentò i Pisani di guerra contro a’ Fiorentini._
Stando l’oste intorno alla Scarperia, e dando opera i capitani a
far fare dificii da traboccare nella terra per rompere le torri
e mura, e gatti e altri ingegni di legname per vincere la terra
per battaglia, e i Fiorentini d’accogliere gente d’arme, e d’avere
capitano per poterla soccorrere, l’arcivescovo non restava di tentare
i Pisani dalla sua parte in comune e in diviso che rompessono pace
a’ Fiorentini, con intenzione di mandare messer Bernabò da quella
parte con duemila cavalieri ad assalire co’ Pisani insieme il nostro
comune, e faceva loro grandi promesse. I Gambacorti, a cui segno Pisa
si governava, non vollono rompere la pace: nondimeno l’arcivescovo
avendo favore dentro, e’ consigliò del modo che avesse a tenere
di muovere il popolo naturale nemico de’ Fiorentini, ed elesse una
solenne ambasciata, fornita d’autorità di savi uomini, e mandògli a
Pisa: e giunti là, e sposta la loro ambasciata con molte suadevoli
ragioni, i Pisani astuti, per pigliare consiglio nel tempo, dissono di
rispondere all’arcivescovo per loro ambasciadori, e incontanente gli
mandarono a Milano, imponendo loro, che della volontà dell’arcivescovo
non si rompessono, ma tranquillassono il fatto. E in questo mezzo
provvidono più riposatamente sopra il partito, e conobbono che
rompere pace al comune di Firenze non tornava in loro utile: che se
l’arcivescovo prendea signoria in Toscana, era loro suggezione e danno;
e segretamente feciono quello sentire a tutti i confidenti di quello
stato, buoni cittadini. L’arcivescovo avvedendosi del modo che con
lui tenevano coloro che governavano la terra, li credette ingannare,
e per lo favore ch’avea nel popolo e in molti altri cittadini, e non
ostante che avesse gli ambasciadori pisani in Milano, fece maggiore
e più solenne ambasciata a’ Pisani; e commise loro, che in parlamento
esponessono la sua domanda, come detto gli era, sperando che a grido
di popolo avrebbe la sua intenzione contro a’ Fiorentini. E come
giunti furono in Pisa, senza sporre alcuna cosa a’ rettori del comune,
addomandarono loro di volere il parlamento, e risposto fu loro di
farlo adunare volentieri a certo giorno, onde gli ambasciadori furono
contenti; e incontanente feciono a tutti i cittadini, con cui aveano
conferito loro consiglio, dire che venissono al parlamento; e bandito e
sonato a parlamento, come ordinato fu si ragunò il popolo nella chiesa
maggiore in gran numero, ove furono tutti i cittadini che temeano di
perdere loro libertà e il loro stato. Gli ambasciadori ammaestrati in
udienza di tutto il parlamento, con molto ornato sermone, ricordando
i servigi grandi per la casa de’ Visconti fatti al comune di Pisa,
e come gli aveano onorati e aggranditi sopra gli altri cittadini di
Toscana, e’ raccontarono per ordine la mala volontà che i Fiorentini
aveano verso di loro, e l’ingiurie che altro tempo inimichevolmente
aveano loro fatte, e intendeano di fare quando si vedessono il destro,
mostrando loro come ora era venuto tempo nel quale il loro signore
intendea d’abbattere in tutto lo stato e l’arroganza de’ Fiorentini
loro antichi nemici, e spegnere parte guelfa in Italia, e a ciò fare
avea mossi tutti i ghibellini di Lombardia e di Toscana, e di Romagna e
della Marca, come per opera era loro manifesto. La qual cosa conosciuta
per loro, ch’erano capo di parte ghibellina in Toscana, molto doveano
essere contenti di poter fare in cotanta loro esaltazione la volontà
del loro signore, la quale e’ domandava con tanta istanza a quello
popolo. Essendo uditi attentamente, si pensarono a grida di popolo
avere impetrata la loro dimanda, ma la cosa andò tutt’altrimenti,
per la provvisione de’ savi cittadini, li quali si ritennero in
silenzio in quello parlamento, come per loro fu provveduto. E quando
gli ambasciadori l’uno dopo l’altro ebbono detto e confermato loro
sermone, pregarono gli ambasciadori che si attendessono alquanto, e
tosto risponderebbono di comune consentimento alla loro ambasciata,
e così si trassono del parlamento. E usciti gli ambasciadori, gli
anziani feciono la proposta che si consigliasse se il comune di Pisa
dovesse rompere pace a’ Fiorentini, oggi loro amici e loro vicini,
o no: e levatosi alcuno a dire in servigio dell’arcivescovo, molti
più, i maggiori cittadini, si levarono a dire come grande male e
vergogna del loro comune sarebbe, avendo ferma e buona pace col comune
di Firenze, a romperla contro a ragione, in perpetua infamia del
loro comune. E fatto il partito, fu vinto che pace non si rompesse
a’ Fiorentini. Gli ambasciadori, già preso sdegno per l’uscita del
parlamento, avvedendosi dove la cosa riuscirebbe, senza attendere se
n’erano andati all’ostiere. E quando gli anziani mandarono per loro per
fare la risposta del parlamento, sentendo che non sarebbe quella ch’e’
voleano, non vi vollono andare, e senza prendere comiato montarono
a cavallo e tornaronsene a Milano. I Pisani si scusarono saviamente
all’arcivescovo, perchè non stesse indegnato, e mandarongli dugento
cavalieri, che mandar gli doveano per loro convenenza alla guardia
di Milano. Allora venne meno all’arcivescovo la maggiore speranza che
avesse di potere vincere i Fiorentini. Il comune di Firenze cercava in
questo tempo d’avere capitano di guerra che guidasse la sua gente, che
al continuo la cresceva, e avendo mandato a molti l’elezione con grande
salario, tutti la rifiutavano per paura del potente tiranno: nondimeno
il comune pensava d’atarsi con la capitaneria de’ suoi cittadini.
E avendo l’oste così grande in Mugello, non pareva se ne curasse, e
nella città catuno faceva la sua mercatanzia e sua arte senza portare
alcuna arme; e continovo facea rendere a’ cittadini i danari del
monte: e sapendo questo i nemici forte se ne maravigliavano, e molto
n’abbassarono la loro superbia.

CAP. XXI.
_Come l’oste deliberò combattere la Scarperia._
Quando i conduttori dell’oste seppono che il comune di Pisa non voleva
rompere pace a’ Fiorentini, e come alcuno trattato ch’aveano in Pistoia
era scoperto, con tutta la loro intenzione si rivolsono alla Scarperia,
e quella cominciarono a tormentare con percosse di grandissimi dificii,
che il dì e la notte gettavano nel piccolo castello grossissime pietre,
le quali rompeano le case d’entro, e le mura e le bertesche gettavano
a terra. E ogni dì faceano assalto loro alla terra: onde gli assediati
per la continova guerra, e per la sollecita guardia che conveniva loro
fare il dì e la notte alla difesa, erano infieboliti, e pensarono che
senza soccorso di fuori, o aiuto di masnadieri freschi poco potrebbono
sostenere: e però scriveano a’ Fiorentini per loro fanti tedeschi, che
si mescolavano con gli altri Tedeschi di fuori, che avacciassono il
loro soccorso. I Fiorentini erano in ciò assai solleciti, e già avevano
al loro soldo accolti milleottocento cavalieri, e tremilacinquecento
masnadieri a piede de’ buoni d’Italia, e dugento cavalieri aveano da’
Sanesi, e seicento n’attendeano da Perugia, i quali erano a cammino;
e avendo ordinato d’uscire a campo con questi cavalieri, e con grande
popolo, a petto a’ nemici sopra il Borgo a san Lorenzo luogo detto a
san Donnino, ove erano forti per lo sito, e con le spalle al Borgo a
san Lorenzo da potere strignere e danneggiare i nemici, ch’erano assai
di presso, e dare vigore e baldanza agli assediati della Scarperia:
ed essendo ogni cosa provveduta, attendendo i cavalieri perugini per
uscire fuori, n’avvenne la fortuna che appresso diviseremo.

CAP. XXII.
_Come i Tarlati sconfissono i cavalieri de’ Perugini._
In questi dì, del mese di settembre del detto anno, era giunto a
messer Piero Saccone de’ Tarlati in Bibbiena, mandato dal tiranno,
il doge Rinaldo Tedesco con quattrocento cavalieri per incominciare
più forte guerra a’ Fiorentini nel Valdarno. In questo stante, messer
Piero molto avveduto, sentì che seicento cavalieri buona gente
d’arme, che ’l comune di Perugia mandava in aiuto a’ Fiorentini,
erano in cammino, e venivano baldanzosi senza sospetto, e la sera
doveano albergare all’Olmo fuori d’Arezzo a due miglia. Avendo messer
Piero il certo del fatto, col doge Rinaldo insieme con quattrocento
cavalieri e con duemila fanti cavalcò la notte, e chetamente ripose
i fanti nella montagna sopra l’Olmo, per averli al suo soccorso nel
fatto; e la mattina per tempo co’ suoi cavalieri e col doge Rinaldo
assalì la cavalleria di Perugia, che la maggior parte era ancora per
gli alberghi, ma quelli ch’erano montati a cavallo si cominciarono
francamente a difendere. E già aveano tra loro messer Piero, che
s’era messo molto innanzi nella via ov’era la battaglia, prigione,
con più altri de’ caporali in sua compagnia. E se in quello assalto
gli Aretini fossono stati favorevoli ad aiutare gli amici del comune
di Firenze, come doveano, tutta la gente di messer Piero rimaneva
presa per lo stretto luogo dove s’erano messi. Ma usciti d’Arezzo i
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