Cronica di Matteo Villani, vol. 1 - 13

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Scarperia. E come fu piacer di Dio, la sfrenata potenza di cotanto
signore, aggiunta con tutta la forza de’ ghibellini d’Italia, guidata
da buoni capitani, credendosi soggiogare la città di Firenze e’ popoli
circustanti, non ebbono podere di vincere la Scarperia, da qui addietro
vilissimo castello, non murato per tutto e di piccola fortezza per
sito, ma difeso da piccolo numero di valorosi masnadieri: essendovi
a oste con più di cinquemila barbute, e duemila cavalieri, e seimila
pedoni di soldo, senza la forza degli Ubaldini e degli altri ghibellini
con loro sforzo; per la qual cosa il tiranno che avea l’animo levato a
inghiottire le italiane provincie, potè conoscere che un piccolo e vile
castello domò e fece ricredente tutta la sua forza. E come era venuto
a guisa di leone con la testa alzata, spaventevole a tutte le città
di Toscana, chinate le corna dell’ambiziosa superbia, tornò pieno di
vergogna e di vituperio, non avendo per sua potenza potuto acquistare
un debole castello, e diede materia a’ popoli di grande confidenza
della loro difesa. Lasceremo ora finita questa materia, e torneremo
all’altre tempeste italiane, che non bastando in terra conturbano
l’altrui mare.

CAP. XXXIV.
_Come l’armata de’ Genovesi si partì da Negroponte e andò a Salonicco._
In questo tempo cominciando aspro e fortunoso verno, i Genovesi che con
la loro armata di sessantaquattro galee erano stati all’assedio della
città di Candia nell’isola di Negroponte, sentendo l’apparecchiamento
delle cinquanta galee de’ Veneziani e de’ Catalani che doveano venire
contro a loro al soccorso; e vedendo che lo stare ivi per speranza
d’avere la terra era invano, e non minor danno a loro che a’ Veneziani,
e avendo promesso il loro aiuto all’imperadrice di Costantinopoli,
ch’era fuggita col figliuolo nel reame di Salonicco, parendo per
questa cagione la loro levata dall’assedio fosse con meno vergogna,
ed entrando nell’imperio aveano più sicuro vernare, si partirono di
là e dirizzarono loro viaggio verso Salonicco; e giunti a Malvagia,
intendeano levare l’imperadrice e ’l figliuolo, e fare loro podere di
rimetterli in Costantinopoli con la loro forza e della parte che amava
il loro vero signore. L’imperadrice sentendo l’armata di presso, come
femmina mutevole, non avendo piena confidenza del figliuolo, cominciò a
sospettare: e il giovane medesimo non avendo avuto più maturo consiglio
all’impresa, convenendo la sua persona mettere nelle mani dell’altrui
forza, dubitò, e non lo volle fare, e forse fu più da biasimare il
cominciamento della folle impresa che ’l cambiamento del femminile e
giovanile animo, i quali non si vollono abbandonare alla non provata
fede de’ Genovesi; per la qual cosa l’ammiraglio col suo consiglio
presono sdegno, e rivolta la loro armata, desiderosi di rapina e
di preda, vennero all’isola di Tenedo, piena di gente e d’avere,
sottoposta all’imperio, i quali de’ Genovesi non prendeano alcuna
guardia, ed elli la presono e rubarono d’ogni sustanza. E quivi feciono
dimoro gran parte del verno prendendo rinfrescamento, e ragunando la
preda di quella e dell’altre terre di Grecia, della quale data a catuno
la parte sua, si trovarono pieni di roba e di danari, sicchè a loro non
fece bisogno altro soldo, e la loro vita tutta ebbero per niente delle
ruberie del paese. E ivi stettono fino al Natale senza mutare porto.

CAP. XXXV.
_Come i Veneziani e’ Catalani s’accozzarono in Romania con l’altra
armata._
I Veneziani, come addietro abbiamo narrato, avendo fatta compagnia e
lega co’ Catalani contro a’ Genovesi, armarono in Venezia ventisette
galee molto nobilmente, ove si ricolsono quasi tutti i maggiori e
migliori cittadini di Venezia per governatori e soprassaglienti,
forniti a doppio di ciò che a guerra faccia mestiero, e ventitrè galee
armarono i Catalani. E tanto bolliva negli animi loro lo infocamento
dell’izza ch’aveano presa contro a’ loro avversari genovesi, che
nel tempo che l’armate sogliono abbandonare il mare e vernare in
terra, si mossono da Venezia e di Catalogna, domando le tempeste
del mare, ad andare contro a’ loro nimici in Romania. Del mese di
novembre s’accozzarono insieme in Cicilia, e di là senza soggiorno
si dirizzarono verso l’Arcipelago, e con grandi e aspre fortune,
avendo per quelle perdute sette galee veneziane e due catalane, non
senza danno della loro gente, pervennero in Turchia, e posono alla
Palatia e a Altoloco; e ivi, del mese di dicembre del detto anno,
avendo raccolte le galee che aveano a Negroponte e nelle contrade si
trovarono con settanta galee: e in Turchia stettono gran parte del
più fortunoso verno per rivedere i loro legni e avere novelle di loro
nimici. In questo travalicamento del tempo delle due armate ci occorre
a raccontare altre cose rimase addietro, e in prima una pazzia di
corrotta mente dell’ambizione umana, la quale alcuna volta combattendo,
contro al suo prospero e buono stato abbatte e rovina se medesimo con
debito e degno traboccamento.

CAP. XXXVI.
_Come i Brandagli si vollono fare signori d’Arezzo._
Dappoich’e’ Bostoli per loro superbia furono cacciati della terra
d’Arezzo, una famiglia che si chiamarono i Brandagli, loro nimici,
cominciarono di nuovo ad avere stato in comune, e montando l’un dì
appresso all’altro vennono in maggiori, ed erano al tutto governatori
del reggimento di quello comune, e per questo montati in grandi
ricchezze: e della loro famiglia Martino e Guido di Messer Brandaglia
erano i caporali. Costoro ingrati del loro buono stato cercarono di
farsene signori con tradimento, non perchè fossono da tanto, ma per
farne loro mercatanzia, come nel fine del fatto si scoperse. Costoro
trattarono col nuovo tiranno d’Agobbio d’avere da lui al tempo ordinato
centocinquanta cavalieri, e da quello di Cortona dugento cavalieri, non
che da se gli avesse, ma per servire costoro n’accattò centocinquanta
dal prefetto da Vico, e cinquanta dal conte Nolfo da Urbino, e
feceli venire e soggiornare all’Orsaia, come gente di passaggio che
attendessono d’essere condotti e oltre a questa gente a cavallo, di
quello che non era richiesto, mise in ordine d’avere apparecchiati
undicimila fanti a piede, con intenzione, che se fortuna il mettesse in
Arezzo di volerlo per se. E ancora richiese messer Piero Tarlati, che
aveva in Bibbiena il doge Rinaldo con trecento cavalieri, benchè fosse
ghibellino e nimico del loro comune richieselo non manifestandogli
il fatto. Ma la volpe vecchia che conobbe la magagna, si offerse loro
molto liberamente, sperando altro fine del fatto che non pensavano i
traditori, accecati nella cupidigia della sperata tirannia. A conducere
questa gente aveano fuori d’Arezzo Brandaglia loro nipote, e Guido
intendeva a raccogliere i masnadieri che gli capitavano segretamente,
e a nasconderli ne’ loro palagi, e Martino stava nel palagio co’
priori della terra a tutti i segreti del comune. In quel tempo si
dava in guardia a confidenti cittadini una porta della città che si
chiamava la porta di messer Alberto, la quale era a modo d’un cassero,
e dava l’entrata tra le due castella. Questa guardia per procaccio
di Brandaglia era ne’ figliuoli di messer Agnolo loro confidenti, con
cui elli si teneano in questo tradimento. E messe le cose d’ogni parte
in assetto, a’ signori d’Arezzo fu scritto per lo comune di Firenze
e per quello di Siena ch’avessono buona guardia, perocchè sentivano
che una terra si cercava di furare, ma non sapeano come nè quale;
Martino Brandagli ch’era nel consiglio, co’ suoi argomenti levava i
sospetti. E venuto il dì che la notte si dava il segno a que’ di fuora,
un conestabile fiorentino ch’era in Arezzo, uomo guelfo e fedele, fu
richiesto da’ Brandagli per la notte. Costui per amore della sua città
e di parte non potè sostenere per promesse che avesse avute che non
manifestasse a’ priori il tradimento di quella notte. Incontanente
i priori mandarono per Martino, il quale confidandosi nel suo grande
stato e ne’ molti amici, andò dinanzi a’ priori, e negava scusandosi
che niente sapeva di quelle cose; e in quello stante Guido suo fratello
corse a’ loro palagi, e colla gente che avea nascosa levò il romore, e
tennesi co’ suoi masnadieri forte. I cittadini in furia armati corsono
alla porta di messer Alberto, che poteva dare l’entrata a’ forestieri,
per fornire di guardia per lo comune, ma trovarono ch’ella si tenea
per i traditori. E così la città intrigata nel nuovo pericolo, e non
provveduta, fu in grande paura. La porta era forte e bene guernita alla
difesa da non poter vincersi per battaglia, e già era venuta la notte,
e quei della torre della porta d’entro feciono i cenni ordinati alla
gente di fuori, che venire doveano a loro aiuto per vincere la terra.

CAP. XXXVII.
_Di quello medesimo._
I cittadini vedendo i cenni, temendo di non essere sorpresi dall’aiuto
provveduto da’ traditori, tempestando nell’animo, intrigati dalle
tenebre della notte e dalla paura, intendendo a combattere quei
della porta e mettere gente in su le mura, ma per questo non poteano
conoscere riparo che i forestieri non entrassono per forza nella
città, e però s’avvisarono di rompere le mura della città appresso a
quella porta: e fattane la rotta che vollono, avendo per loro guardia
cento cavalieri di Fiorentini e alcuni di loro, li misono fuori in uno
borgo fuori di quella porta, ove dovea essere l’entrata de’ nemici,
e accompagnaronli di cittadini e d’altri fanti alla difesa con buone
balestra; e di subito tagliarono alberi, e abbarrarono e impedirono
le vie al corso de’ cavalli, e le mura guarentirono di gente e di
saettamento: e nondimeno facevano dal lato d’entro combattere di
continovo quelli della porta e della torre, ma e’ si difendevano, e
di quella battaglia poco si curavano, e continovo manteneano cenni a
loro soccorso: e dentro i Brandagli difendeano i loro palazzi e la loro
contrada co’ masnadieri che aveano accolti, e attendendo Brandaglia
con la gente invitata, con la quale non dottavano d’essere signori
della terra s’ella v’entrasse. I segni della torre furono veduti dal
principio della notte, e il signore di Cortona che stava attento fu
in sul mattutino con dugento cavalieri e duemila pedoni giunto ad
Arezzo, e Brandaglia con altri dugento cavalieri. La gente di messer
Piero Saccone tardò più a venire, per riotta che mosse il doge Rinaldo
in sul fatto; gli altri ch’erano venuti baldanzosi, credendosi senza
contasto entrare nella città, come furono presso alla terra, mandarono
innanzi cento cavalieri che prendessono e guardassono l’entrata della
porta, e quella trovarono imbarrata dagli alberi e le vie innanzi al
borgo: ed essendo là venuti, e saettati da quelli ch’erano alla guardia
del borgo, e scorgendo in su l’aurora le mura piene di cittadini
armati alla difesa, e già morti due di loro compagni da quei del
borgo, si tornarono addietro, e feciono assapere a quelli dell’oste
che attendeano come stava il fatto: di che spaventati s’arrestarono
senza strignersi più alla terra, e già per segni e ammattamento che
que’ della torre e della porta facessono, e eziandio chiamandoli ad
alte voci, non si attentarono di venire più innanzi, ma ivi presso si
fermarono attendendo come i fatti dentro procedessono, e così stettono
schierati dalla mattina sino presso a nona. E in verso la nona messer
Piero Sacconi giunse co’ suoi cavalieri e pedoni, il quale sentendo
la cosa scoperta e i cittadini alla difesa, senza attendere punto co’
suoi cavalieri diè volta e co’ suoi pedoni, e tornossene a Bibbiena;
e veduto questo, tutti gli altri si partirono, e i traditori rimasono
senza speranza di soccorso. Questa novità sentita nel contado e
distretto de’ Fiorentini, mosse senza arresto i cavalieri e’ masnadieri
che allora avea in quelle circustanze, e i Valdarnesi per venire al
soccorso degli Aretini: i quali non bene confidenti del comune di
Firenze parte ne ritennono per loro sicurtà, e agli altri diedono
commiato onestamente, senza riceverli nella città, e dolcemente fu
sostenuto. Nondimeno i traditori teneano i palagi, e la torre e la
porta: e tanta miseria occupò l’animo di que’ pochi cittadini in cui
era rimaso il reggimento, per tema di non volere fare parte agli altri
da cui e’ potessono avere aiuto, che si misono a trattare con Martino
cui eglino aveano prigione, dicendo di lasciare andare e lui e’ suoi,
e i figliuoli di messer Agnolo e le loro cose liberamente, ed e’
rendessono la porta. E innanzi che questo venisse alla loro intenzione,
convenne che i figliuoli di messer Agnolo fossono sicuri a loro modo
d’avere contanti fiorini tremila d’oro, e avuta la sicurtà renderono la
porta e la torre al comune; e facendosi loro il pagamento per coloro
che aveano fatta la promessa, i danari furono staggiti per coloro che
aveano per loro sodo al comune, che eglino renderebbono quella fortezza
al detto comune: e così s’uscirono della città co’ Brandagli insieme;
e il seguente dì furono tutti condannati per traditori, e i loro beni
disfatti e pubblicati al comune. Trovossi poi di vero, che i traditori
aveano trattato come avessono presa la signoria, con ciò sia cosa che
non erano d’aiuto per loro lignaggio da poterla tenere, di venderla
all’arcivescovo di Milano, a gravamento della loro detestabile malizia,
la quale prese non il debito fine, ma alcuno segno della loro rovina,
per la viltà di coloro che non degni rimasono al governamento di quella
terra.

CAP. XXXVIII.
_Come il re Luigi mandò il gran siniscalco ad accogliere gente in
Romagna._
Tanto imbrigamento di guerra sboglientava gli animi degl’Italiani per
terra e per mare in questi tempi, che volendo cercare delle novità
degli strani, non ci lasciano da loro partire. Il re Luigi valicata
la tregua dal re d’Ungheria a lui, non ostante che rimesso avessono
le loro questioni al giudicio del papa e de’ cardinali, tentava con
preghiere e impromesse di recare dalla sua parte fra Moriale, friere
di san Giovanni, il quale teneva Aversa e Capua dal re di Ungheria,
e questo fra Moriale, astuto e malizioso, mostrava di voler piacere
al re Luigi; e dandogli speranza, cominciò ad allargare il passo
alla gente del re e a’ paesani d’Aversa e di Capua, sicchè andavano
e venivano sicuramente, e non faceva guerra, ma nondimeno guardava
le città e le fortezze di quelle, e per questo corse la voce che la
concordia era fatta: ma però il re di lui, o egli del re si fidava.
Ma in questo tranquillo, il re mandò il grande siniscalco nella Marca
ad accogliere gente d’arme, il quale con grandi promesse mosse messer
Galeotto da Rimini a venire al servigio del re con trecento cavalieri,
e messer Ridolfo da Camerino con cento, a tutte loro spese, e ’l grande
siniscalco messer Niccola Acciaiuoli di Firenze ne condusse e menò
quattrocento al soldo del re, e con tutta questa cavalleria entrò in
Abruzzi. E mandò al re, che con la sua forza e con quella de’ baroni
del Regno, i quali il re avea richiesti e ragunati a Napoli, venisse
là, come era ordinato, per vincere messer Currado Lupo, e racquistare
le terre d’Abruzzi che di là si teneano per lo re d’Ungheria.

CAP. XXXIX.
_Come il re Luigi accolse i baroni del Regno e andò in Abruzzi._
Il re Luigi sentendo come il gran siniscalco avea con seco in Abruzzi
que’ due buoni capitani con ottocento cavalieri di buona gente, fu
molto contento, e avendo presa sicurtà che fra Moriale per la concordia
ch’aveano non moverebbe guerra in Terra di Lavoro, si mosse da Napoli
per mare, e capitò incontanente a Castello a mare del Volturno, e
tutta sua gente a piè e a cavallo fece andare per terra da Pozzuolo
e per lo Gualdo al detto Castello a mare, non fidando la gente sua
per gli stretti passi d’Aversa e di Capua ch’erano in guardia di
fra Moriale: e seguendo di là loro cammino, del mese d’ottobre del
detto anno s’accozzò in Abruzzi con la cavalleria accolta per lo gran
siniscalco: e fatta fare la mostra, si trovò con undicimila cavalieri
e con grande popolo. Messer Currado Lupo avendo sentito l’oste che
gli veniva addosso, e non avendo gente da potere uscire a campo, mise
guardia nelle terre che teneva in Abruzzi e ordinolle alla difesa, e
con cinquecento cavalieri tedeschi bene montati e buoni dell’arme si
mise in Lanciano. Il re poco provveduto di quello che a mantenere oste
bisognava, e povero di moneta, volendo usare l’aiuto degli amici che
quivi avea si mise a oste a Lanciano; e dopo non molti dì, cavalcando
messer Galeotto co’ suoi cavalieri intorno alla terra, messer Currado
Lupo uscì fuori con parte de’ suoi cavalieri e percosse i nimici, e
danneggiò molto la masnada di messer Galeotto, e innanzi che dall’altra
oste fosse soccorso si ritrasse in Lanciano a salvamento. Per questa
cagione spaventato l’oste, considerando l’ardimento preso per li
cavalieri di messer Currado, e che la terra di Lanciano era forte
e bene guernita, e il verno veniva loro addosso, per lo migliore
presono consiglio e levaronsi dall’assedio: e stando in dubbio di
quello dovessono fare più dì, a messer Galeotto e a messer Ridolfo,
non vedendo di poter fare utile servigio al re, rincrebbe lo stallo,
presono congiò dal re e tornaronsi nella Marca, e i baroni del Regno
feciono il simigliante. Il re con la sua gente invilito e quasi
disperato avendo animo di volere entrare nell’Aquila, gli fu detto non
se ne mettesse a pruova, perocchè non vi sarebbe lasciato entrare, e
scoprirebbe nimico messer Lallo che gli si mostrava fedele; e così
rimaso il re pieno di sdegno e voto di forza e d’avere, si tornò a
Sulmona a mezzo dicembre del detto anno, e ivi s’arrestò per trarre
da’ paesani alcuno sussidio, e per fare in quella terra la festa del
Natale.

CAP. XL.
_Come il re Luigi sostenne gli Aquilani che pasquavano con lui._
Vedendosi il re Luigi rotto da’ suoi intendimenti, e abbandonato
del servigio degli amici, trovandosi a Sulmona povero, si ristrinse
nell’animo, e diede opera di volere fare in Sulmona gran festa per lo
Natale, e fece a quella invitare quei gentiluomini e baroni circostanti
che potè avere. I Sulmontini il providono di moneta e d’altri doni
per aiuto alla festa. Ciascuno si sforzò di comparire bene a quella
festa, e intra gli altri principali fu invitato messer Lallo, il
quale governava il reggimento dell’Aquila, e conoscendo la sua coperta
tirannia si dubitò d’andare al re, e infinsesi d’essere malato, e sotto
questa scusa ricusò l’andare alla festa. Per fare più accetta la sua
scusa al re elesse quindici de’ maggiori cittadini d’Aquila col suo
fratello carnale, i quali portarono al re per dono da parte del comune
dell’Aquila fiorini quattromila d’oro, e costoro mandò a festeggiare
col re: e giunti a Sulmona furono ricevuti dal re graziosamente,
nonostante che si turbasse perchè messer Lallo non v’era venuto. E
fatto il corredo reale con piena festa, i cittadini dell’Aquila volendo
prendere licenza dal re per tornare a casa furono ritenuti prigioni,
della qual cosa il re fu forte biasimato di mal consiglio, parendo
a tutti più opera tirannesca che reale. La novella corse in Aquila:
il tiranno molto savio e buono parlatore raccolse il popolo, e con
argomenti di sua savia diceria infiammò il popolo all’ingiuria, e
mosselo all’arme e corse la terra, e ordinò la guardia come se il re
con l’oste vi dovesse venire, ma il re non era atto a poterlo fare, e
però si rimase, e messer Lallo più s’afforzò nella signoria.

CAP. XLI.
_Come papa Clemente sesto fe’ la pace de’ due re._
Stando il re Luigi in Sulmona maninconoso e quasi in disperazione di
suo stato, considerando come in tutte cose la fortuna gli era avversa,
e come con abbassamento di suo onore gli avea fatte fare cose non
reali, ma di vile e mendace tiranno, e vedendosi povero e mal ubbidito,
non sapeva che si fare, e parevagli per la baldanza presa pe’ suoi
avversari ch’elli dovessono ristrignerlo o cacciare del Regno, e de’
suoi fatti da corte non avea potuto avere alcuna speranza o novella che
buona fosse. Il papa Clemente in questo tempo era stato in una grande e
grave malattia, nella quale rimorso da coscienza di non avere capitato
il fatto tra i due re che gli era commesso, e di questo sostenere era
seguito danno e confusione di molti, propuose nell’animo come fosse
guarito di capitare quella questione senza indugio, e come fu sollevato
mise opera al fatto; e per più acconcio di quello reame, vedendo che
il re d’Ungheria avea l’animo al suo reame, ed era appagato della
vendetta fatta del suo fratello, deliberò, poichè avea deliberato la
reina, che messer Luigi fosse re: e questo pubblicò co’ suoi cardinali,
e poi il mise a esecuzione, come appresso nel suo tempo racconteremo.
La novella venne improvviso al re Luigi a Sulmona, della qual cosa
fu molto allegro: e confortato nel fondo della sua fortuna da questa
prosperità, di presente conobbe il suo esaltamento per opera, che i
baroni e’ comuni il cominciarono ad onorare e a vicitare con doni e
grandi profferte come a loro signore: e tornato a Napoli con grandi
onori, stette in festa più dì tutta la terra delle buone novelle.
Lasceremo al presente alquanto de’ fatti del Regno sollecitandoci le
novità di Toscana, delle quali prima ci conviene fare memoria, per non
travalicare il debito tempo della nostra materia.

CAP. XLII.
_Come messer Piero Saccone prese il Borgo a san Sepolcro._
Avendo messer Piero Saccone de’ Tarlati a Bibbiena il conte Pallavicino
con quattrocento cavalieri dell’arcivescovo di Milano, e cento di suo
sforzo per fare guerra, e standosi e non facendola, faceva maravigliare
la gente, ma egli nel soggiorno lavorava copertamente quello che
prosperamente gli venne fatto. Il Borgo a san Sepolcro, terra forte e
piena di popolo e di ricchi cittadini, e fornita copiosamente d’ogni
bene da vivere, era nella guardia de’ Perugini con due casseri forniti
alla guardia de’ castellani perugini e di gente d’arme. Messer Piero
aveva appo se uno suo fedele che aveva nome Arrighetto di san Polo,
questi era grande e maraviglioso ladro, e facea grandi e belli furti
di bestiame, traendo i buoi delle tenute murate e guardate, e rompeva
tanto chetamente le mura, che niuno il sentiva, e di quelle pietre
rimurava le porti a’ villani di fuori sì contamente, che prima aveva
dilungate le turme de’ buoi, e tratte per lo rotto del muro due o tre
miglia, che i villani trovandosi murate le porti, e impacciati dalle
tenebre della notte e dalla novità del fatto, le potessono soccorrere;
così n’avea fatte molte beffe, e accusatone di furto, messer Piero il
difendea, e davagli ricetto in tutta sua giurisdizione. Questi saliva
su per li cauti delle mura e delle torri co’ suoi lievi argomenti
incredibilmente, e quanto che fossono alte non se ne curava, ed era
dell’altezza maraviglioso avvisatore. Per costui fece messer Piero
furare la forte e alta torre del castello di Chiusi alla moglie
che fu di messer Tarlato. A costui scoperse messer Piero come volea
furare il Borgo a Sansepolcro, e mandollo a provvedere l’altezza della
torre della porta: il quale tornato disse, che gli dava il cuore di
montare in su la più alta torre che vi fosse; e avuta messer Piero
questa risposta, s’intese con uno de’ Boccognani del Borgo e grande
ghibellino, il quale odiava la signoria de’ Perugini, e da lui ebbe,
che se la porta e la torre fosse presa, e di fuori fosse forza di
gente a cavallo e a piè grande, ch’egli con gli altri ghibellini
d’entro verrebbono in loro aiuto a metterli dentro. E dato l’ordine
tra loro, messer Piero con cinquecento cavalieri e duemila pedoni un
sabato notte, a dì 20 del mese di novembre del detto anno, improvviso
a’ Borghigiani, innanzi il dì fu presso al Borgo; e mandato Arrighetto
con certi masnadieri eletti in sua compagnia a prendere la torre
e la porta, il detto Arrighetto con suoi incredibili argomenti in
quello servigio, cintosi corde, e aiutato di non esser sentito per
uno grande vento che allora soffiava, e avea ristrette le guardie
sotto il coperto, montò in su la torre della porta, ed essendovi due
sole guardie, si recò il coltello ignudo in mano, e mostrò d’avere
compagnia, minacciandoli d’uccidere. Eglino storditi per la novità,
non sapendo che si fare, stettono cheti per paura, e Arrighetto data
la corda a’ masnadieri ch’erano a piè del muro, con una scala leggieri
di funi tirò su l’uno de’ capi e accomandollo a uno de’ merli, e
incontanente montati suso per quella l’uno appresso l’altro dodici
masnadieri, e quando si vidono signori della porta, feciono a quelli
traditori d’entro certo segno ordinato. Quello de’ Boccognani veduto il
segno come la porta era presa, fece sonare a stormo una campana d’una
chiesa, al cui suono, come ordinato avea, tutti i ghibellini del Borgo
furono all’arme e traevano verso la porta. I guelfi che non sapeano il
tradimento traevano storditi alla piazza senza niuno capo; e schiarito
il dì, vedendo aperta e presa la porta per i ghibellini, e sentendo
come messer Piero era di fuori con molta gente, non vedevano da potere
riparare; ma i ghibellini non volendo guastare la terra sicurarono i
guelfi che ruberia non vi si farebbe, e senza contasto vi lasciarono
entrare messer Piero con tutta la sua gente e del conte Pallavicino,
e non vi si diè colpo e non vi si fece alcuna ruberia: e così messer
Piero ne fu signore; ma le due rocche che erano forti e guardate
per li Perugini si misono alla difesa, per attendere il soccorso de’
Perugini. Messer Piero e il conte senza prendere soggiorno con tutta
la sua gente a cavallo e a piè uscirono del Borgo, e accamparonsi
di fuori dirimpetto alle rocche per torre la via a’ Perugini, e
fecionsi innanzi al loro campo fare un fosso di subito e uno steccato,
e mandarono a tutte le terre dov’avea gente d’arme del signore di
Milano che mandassero loro aiuto, e in pochi dì vi si trovarono
con ottocento cavalieri e popolo assai. E per impedire a’ Perugini,
Giovanni di Cantuccio d’Agobbio con la cavalleria che avea del Biscione
cavalcò sopra loro: nondimeno i Perugini turbati di questa perdita,
procacciarono da ogni parte aiuto per racquistare la terra, tenendosi
i casseri, e di presente ebbono cinquecento cavalieri da’ Fiorentini: e
con millequattrocento cavalieri e con grande popolo se ne vennono alla
Città di Castello: e acconciandosi per soccorrere quelli de’ casseri,
tanta viltà fu in coloro che gli aveano in guardia, che senza attendere
il soccorso così vicino s’arrenderono a messer Piero; e incontanente
quelli del castello d’Anghiari cacciarono la guardia che v’era de’
Perugini, e dieronsi al vicario dell’arcivescovo, ed egli lo rendè a
messer Maso de’ Tarlati. In que’ dì il castello della Pieve a santo
Stefano, e ’l Castello perugino, tenendosi mal contenti de’ Perugini,
anche si rubellarono da loro.

CAP. XLIII.
_Come i Perugini arsono intorno al Borgo e sconfissono de’ nimici._
I Perugini avendo perduta la speranza di soccorrere le rocche,
cavalcarono al Borgo, e arsonlo intorno guastando tutte le possessioni,
e già messer Piero e ’l conte Pallavicino non ebbono ardire d’uscire
della terra contro a loro: e fatto il guasto, si tornarono alla Città
di Castello. Messer Piero preso suo tempo, con tutta la cavalleria
ch’avea nel Borgo cavalcò fino alle porti della Città di Castello: i
cavalieri che v’erano dentro de’ Perugini, e singolarmente quelli de’
Fiorentini, ch’erano buona gente d’arme e bene montati, uscirono fuori
perchè i nimici aveano a fare lunga ritratta, e seguitando i nimici
quasi a mezzo il cammino, s’abbatterono in un grosso aguato: e ivi
cominciò l’assalto aspro e forte, ove s’accolse la maggiore parte della
gente di catuna parte senza fanti a piede; e ivi dando e ricevendo
si fece aspra battaglia, e durò lungamente, perocchè catuno voleva
mantenere l’onore del campo; e non avendo pedoni che l’impedissono,
feciono i buoni cavalieri grande punga, e in fine per virtù di certi
conestabili della masnada de’ Fiorentini, ristringendosi insieme, con
impetuoso assalto ruppono la cavalleria di messer Piero, e a forza in
isconfitta gli cacciarono del campo, e rimasono morti sessanta de’ loro
cavalieri in sul campo e più cavalli, e presi sei de’ loro conestabili
da’ cavalieri de’ Fiorentini, e messer Manfredi de’ Pazzi di Valdarno,
e più altri cavalieri tedeschi e borgognoni, a’ quali tolsono l’arme e’
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