Una Donna - 11

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persuadere lui stesso di un valore mai prima sospettato. E, ad un
tratto, la mia gaiezza cadde.
Il «no» della sera innanzi mi tornava alla mente. Una incertezza
sconfortata mi assalse. Egli frattanto, dinanzi alla silenziosa
interrogazione dei miei occhi, sentì la necessità di fingere, di
esprimere indifferenza. E la mia ansietà aumentò.
La sera, una lettera di mia cognata arrivò, che illustrava i fatti
telegrafati, accentuava la sicurezza del nostro ritorno «in patria»
e diceva fra l’altro: «Ricordi? fin da questa Pasqua ti avevo
avvertito....» Egli attendeva da chi sa quanto tempo!
* * * * *
E due giorni dopo giunse la proposta. Condizioni assai buone. Era
l’esistenza assicurata, l’agiatezza in breve volger di mesi, forse
la fortuna col tempo. Avrei dovuto gioire, con quel resto d’orgoglio
che potevo possedere, perchè inaspettatamente s’elevava agli occhi
altrui quegli che già m’aveva fatto compiangere.... Anche avrei dovuto
sentirmi soddisfatta dicendomi che, in fondo, ancora sempre a me e
a mio padre colui doveva la sua fortuna: il babbo, infatti, aveva
suggerito il suo ex-impiegato e lasciava a disposizione di lui la sua
cauzione di parecchie migliaia di franchi: per qual resipiscenza? Forse
semplicemente per stabilire un vincolo col proprio successore, per non
essere staccato del tutto dalla sua creazione.
Tutto il mio essere insorgeva come se un mostruoso pericolo lo
minacciasse: reclamava la vita, la libertà. Chiudendo occhi e orecchi
all’appello delle ragioni altrui, degli altrui diritti e bisogni,
un’unica visione mi atterriva. Ecco: brutalmente, mi si chiudeva la
via dell’avvenire, mi si riconduceva nel deserto. E con me mio figlio,
che avevo voluto salvare dalle influenze dell’ambiente nativo....
Laggiù, noi due, di nuovo, per anni, per tutta la vita forse, con le
mani avvinte e la bocca silenziosa, dì fronte a un popolo di lavoratori
miserandi e pieni d’odio....


XVIII.

Quand’ebbe concluse le trattative, mio marito cadde in una cupa
tristezza. Aveva forse precipitato la decisione per reprimere tosto
ogni mio tentativo di rivolta? E per non assistere agli atti di
meraviglia, ai rimproveri forse che le amiche e i conoscenti ci
avrebbero fatto, al mio dolore mentre preparavo il trasloco, volle fare
il generoso: egli partiva e concedeva che io col bimbo e la domestica
rimanessimo ancora per qualche settimana in città attendendo che mio
padre, il quale andava a stabilirsi a Milano, lasciasse libera la casa
del direttore, a noi destinata: sarebbe allora tornato a riprenderci.
Ma il giorno in cui aveva risoluto di partire, non uscì di casa,
restando taciturno e scontento al tavolino, a scrivere non so che
progetti; i dì seguenti vagò per la città, tutto solo, come invaso
all’improvviso da un furente amore per quella vita vertiginosa da
cui stava per allontanarsi. La sera, veniva la disegnatrice, tornata
allora dalla campagna. La conversazione procedeva stanca, ed era come
un ritornello l’interrogazione: Perchè partite? Ella pareva cedere ad
una malinconia invincibile, parlava del tempo in cui sarebbe rimasta di
nuovo sola, non sopportava di raffigurarmi lontana da lei. Mio marito
la guardava come affascinato.
Una notte—aveva fissato la partenza per l’indomani—mi svegliai e
lo sentii spasimare, rivoltarsi nel letto, pronunciare una parola
indistinta. Accesi il lume; aveva la febbre! Respinse ogni aiuto,
nascondendosi sotto le coltri con gesto disperato. Quando mi parve
ch’egli si fosse acquetato, forse assopito, rientrai in letto, al buio.
Dopo un poco lo intendevo chiamare, in un sogno di delirio la mia
amica....
Povero, povero!... Lottava, l’essere informe, lottava contro la
formidabile forza ch’egli non aveva mai conosciuto, mai ammesso,
l’amore? Da quanto! Forse la verità gli si era palesata solo da pochi
giorni, dacchè aveva deciso la partenza. Forse egli non l’ammetteva
ancora, si pensava debole, malato....
Era il castigo?
La disegnatrice aveva indovinato, forse per la prima. Ed era forse
colla speranza che mio marito lo sapesse da me, ch’ella mi aveva
confidato, al suo ritorno dalla campagna, un suo segreto. Ella amava il
giovane fisiologo che avevo conosciuto al ricevimento della _Mulier_.
Ma questi doveva persuadere i suoi vecchi genitori, cosa difficilissima
e possibile soltanto col tempo. Provvedere alla propria felicità col
dolore dei genitori pareva a lui egoismo.
Mio marito doveva ora notare l’attenzione che io ponevo mio malgrado
nell’osservarlo, e n’era irritato. Sentiva la necessità di mantenersi
al disopra di me. Intanto il mio amor proprio era colpito. In qual modo
spiegare il fatto che io non avessi mai soggiogato quell’uomo che da
dieci anni pure respirava la mia atmosfera, e invece fosse bastato il
riso argentino d’una straniera per sconvolgere tutti i suoi sentimenti?
E una brama acuta di sapere mi prendeva, di sapere che fosse l’essenza
dell’amore, di sapere se quell’uomo era vittima ancor una volta de’
suoi sensi o se la bella creatura l’avesse affascinato con qualche
arcana forza ch’io non possedevo.... E una domanda sorgeva, come da
remote lontananze: «Son io fatta per esser amata?»
Egli partì. L’amica ne fu sollevata. Per qualche giorno ci facemmo una
compagnia quasi continua, dolcissima. Andavamo per le vie, nelle ville,
fra i campi, col piccino in mezzo, un poco immemori, quasi felici in
certi istanti. Ella traeva fuori il suo album, ove schizzava con
rapidità atteggiamenti di mammine, di governanti, di bambini. Passavamo
delle ore nel suo studio ai Parioli, che per me non aveva più segreti.
Era una vasta camera bianca, linda come uno specchio, con alcuni mobili
semplicissimi di legno bianco, tende chiare e due grandi finestre che
guardavano sulla campagna verso la valle del Tevere, fino al Soratte.
Dietro lo studio era una stanzetta buia, con un letto e una seggiola,
nient’altro. Una vedova che abitava una soffitta dirimpetto con quattro
bambini, accudiva alla casa e preparava il pranzo, una volta al giorno;
il thè, che le serviva da cena, l’amica se lo preparava lei stessa.
Per la prima volta ero tratta, quasi senza accorgermene, ad effondere
intero il mio spirito, a tradurre in parole lente e precise le visioni
per cui soltanto, attraverso ogni vicenda, la vita m’era parsa sempre
degna d’esser vissuta. Ella m’ascoltava sorridente. Quando accennavo al
futuro, i miei occhi s’intorbidivano; la cara mi prendeva una mano; non
aveva che quel gesto per darmi coraggio.
Anche a lei l’avvenire s’annunziava indecifrabile; doveva ritenere
impossibile darsi all’uomo che amava, nascondersi con lui per vivere
felici, incuranti dei vincoli sociali. Sola, sola, fino a quando?
Di laggiù, mio marito mi scriveva ingenuamente che si trovava sperduto,
che forse quello non era più luogo per noi, che aveva una smania
furiosa di tornare.... Gli risposi un giorno con tutto il vigore di
pietà umana ch’era in me, facendogli intendere che solo guardando in
viso la verità insieme, potevamo sentirci capaci di gustare la vita
quale il destino ce l’aveva preparata. Che confessasse! Riconoscesse
che le nostre vie erano diverse e la nostra unione una catena anche per
lui!...
Tremavo, così scrivendo: interrogavo veramente la sibilla.
Egli replicò subito col piglio insolente che gli conoscevo da tanti
anni. Negava, mettendo i punti sugli i, negava e accusava....
Non ne soffrivo.... La realtà mi dominava, finalmente. Sentivo in
confuso ch’era necessario agire, senza sapere ancora in qual modo. Una
voce nell’anima cantava senza posa «Sei libera, libera!»
Vedevo nitidamente qual sarebbe stato il mio ufficio nella casa
coniugale che m’attendeva. L’uomo il quale un giorno m’aveva
scongiurata di vivere, ora più che mai non avrebbe cercato in me che il
delirio dei sensi, l’oblio. Ed io, in quest’unica ragione della nostra
convivenza, avrei sentito crescere il disprezzo per me stessa.... No,
no!
Per due, tre giorni, non ricordo bene, la vita intorno non mi trasse
dalle mie meditazioni. Per la rivista non avevo quasi più nulla da
fare: l’editore cercava chi mi sostituisse; si era mostrato dolente
di perdermi: «È così difficile trovare chi legga con imparzialità
dei libri di donna!» La direttrice, col suo fare sempre tra cortese
e distratto, m’aveva detto che sperava io le avrei continuata la mia
collaborazione anche da laggiù. Non avevo mai pensato dì tentare
qualche lavoro di fantasia?
La norvegese era a letto per una infezione reumatica che non pareva
grave. Andavo ogni giorno per qualche ora a tenerle compagnia. Ogni
giorno veniva pure a visitarla l’amico professore. La prima volta che
avevo visto il giovane chino sopra di lei, mi si era comunicata la
dolce sicurezza del loro amore. Ma nella stanza buia non c’era aria
sufficiente. Quand’egli la persuase della necessità di trasportare il
letto nello studio, la fronte le si oscurò, sebbene egli affermasse che
era soltanto questione di alcuni giorni.
Affrettavo col pensiero il ritorno di mio marito: gli avrei proposta
una separazione amichevole; io potevo vivere col mio lavoro e con ciò
che mio padre continuerebbe ad assegnarmi. Il piccino avrebbe potuto
studiare accanto a me, e andare dal babbo nelle vacanze.
Perchè non avrebbe accettato? Egli era in uno di quei momenti
psicologici che giustificano le azioni più contrarie alla nostra
natura; tutto doveva mostrarglisi sotto un nuovo punto di vista.
Non volevo però in nessun modo pregiudicare il tentativo. A chi
chiedere un consiglio? La buona vecchia mamma non era ancora tornata
dalla Lombardia. E a nessun’altra avrei potuto confidarmi, in quell’ora
decisiva. Ma un’immagine mi s’imponeva da qualche tempo, con insistenza
crescente; non v’era un uomo che diceva di possedere la verità? Da lui
avrei potuto ricevere forza.
Non lo vedevo da parecchie settimane. Lo invitai con un biglietto a
venirmi a trovare, per sentire cose gravi.
Giunse la sera dopo, mentre stavo per condurre a letto il bambino. Per
qualche minuto parlò col piccolo amico, che lo guardava cogli occhioni
confidenti; poi questi andò a coricarsi.
Con un tremito interno straordinario presi a dire. Egli ascoltava
impassibile. Sapeva forse. La persona si protendeva un poco verso di
me, in attitudine incoraggiante.
A poco a poco mi rinfrancai; le sue domande, nette, valevano a dirigere
e a districare il mio racconto un po’ imbarazzato. Non parlavo del
lontano passato, della mia adolescenza distrutta; dicevo solo di mio
padre e di mia madre, del mio matrimonio, del lungo periodo in cui,
conscia de’ miei sentimenti, avevo ritenuto doveroso restar presso
l’uomo che credevo m’amasse e a cui pensavo di far del bene: accennavo
alla scoperta recente di un nuovo sentimento in mio marito, al mio
recente miraggio d’indipendenza.... L’aspirazione appassionata ad una
vita di libertà e d’azione, in armonia colle mie idee, si palesava in
verità a me stessa come non mai, Ogni mia parola sembrava illuminarmi
il fondo dell’anima. E uno stupore m’invadeva, si mescolava alla lucida
ebbrezza del pensiero finalmente capace di manifestarsi.
L’uomo mi guardava tranquillo, poi prese lui a parlare. Stimava inutile
giudicare la decisione irresistibile della mia coscienza. Ero pronta a
subirne qualunque effetto? Egli poteva dirmi soltanto che tutte le cose
della vita, anche i problemi morali che il nostro orgoglio suscita,
non sono in fondo che ombre. Per guidarsi, nella vita, occorre poco,
l’avrei compreso un giorno: intanto, gli piaceva la mia preoccupazione
di sincerità e di logica.
S’era alzato in piedi, girava attorno toccando libri e fotografie.
Anch’io mi ero levata e m’appoggiavo al tavolo in mezzo alla stanza;
mi venne accanto: mi sorpassava di poco in statura. Riprese a parlare,
piano. Anche nel suo passato erano delle ore oscure: egli aveva creduto
nella legge, nel progresso; aveva giudicato gli uomini in nome di un
assoluto inflessibile, aveva condannato.... Poi, un dolore tremendo, la
morte quasi simultanea del padre e della madre, gli aveva restituito
la coscienza del niente che è l’uomo, e per la prima volta infuso
il desiderio tormentoso di figger lo sguardo oltre la vita. Erano
passati anni e anni, egli aveva reciso tutti i fili che l’avvincevano
all’umanità, e una luce, sì, una luce s’era fatta nel suo spirito.
Egli credeva di poter spiegare, ora, l’enigma della nostra essenza,
essenza immortale. Questa parola avrebbe recato alle creature umane una
grande pace, la norma per l’esercizio benefico della propria volontà
durante questo passaggio terreno. Non poteva spiegarmene nulla ancora.
Fra breve.... Da vicino o da lontano, continuassi a sperare, ad aver
fede nella sua promessa.
Dalla strada, ogni tanto, la tramvia elettrica mandava il suo ululo,
producendomi l’impressione del vento notturno in riva al mare in
tempesta. Mi sentivo avvolta, veramente, in un’atmosfera frigida che
placava, rendeva anzi ogni impulso di vita particolare, creava visioni
bianche nelle quali l’occhio si smarriva.
Quando mi ritrovai sola nello studio, ove la lampada sembrava vegliare
dall’alto sull’intera città, una gioia m’invase, ignota fin allora. Che
cos’era, che cos’era? Non volevo saperlo, come non mi dava affanno il
segreto che quell’uomo diceva di possedere. Ma l’antica anima ribelle
ad ogni giogo ch’era giunta a odiare l’amore per il disprezzo di ogni
dedizione, si abbandonava alla dolcezza di essere compresa, sentita da
un’altra anima....
Il gaudio silenzioso e quasi inconfessato durò alcuni giorni. L’amico
venne altre due o tre volte, di sera; mi aveva pregato di copiargli
il manoscritto di un suo nuovo opuscolo che stava per pubblicarsi;
certe pagine quasi indecifrabili per le aggiunte e le cancellature
richiedevano le sue spiegazioni, Egli me le dava con quella sicurezza
dogmatica che allontanava qualsiasi obbiezione. L’opuscolo era una
satira tagliente cui non potevo non associarmi; preannunziava, ma non
svelava affatto l’idea dominante dell’autore, la secreta sintesi creata
dal suo intelletto. In esso non mi turbava che lo stile, complicato,
contorto, spesso illogico; più mi turbavano, talvolta, certe frasi
dettemi a viva voce, frasi oscure, che mi riconducevano ai primi tempi
della nostra relazione quando riguardavo la strana creatura come un
pauroso inviato del Mistero, a sè stesso forse incomprensibile. E
neppur ora avevo la forza di formarmi un concetto esatto della sua
personalità; ora meno che mai. Evitavo anzi, probabilmente senza
rendermene conto, di esercitare dinanzi a lui la mia analisi. Lo
vedevo pallido, emaciato, ombra della vita, con un sorriso sempre più
enigmatico sulle labbra pallide tra la breve barba nerissima, con gesti
di bimbo delicato e precoce che prevede tutto ciò che la vita gli
negherà.... E tremavo. Così debole e miserando qual’era, m’appariva
ammirabile: era in lui una potenza che non sapevo definire, ma che
trovavo più grande d’ogni altra; egli mi rappresentava lo sforzo
incessante e terribile dell’umano verso la divinità. Quando la parola
«pazzia» mi si affacciava alla mente, mi sentivo straziare.
Ma egli era sicuro della mia fede in lui; un fugacissimo bagliore mi
pareva gli attraversasse lo sguardo nei momenti in cui mi sorprendeva
intenta, assorta nella sua parola. Non aveva mai incontrato, certo, una
devozione così fervida in un’anima così libera e giovane....
Parlavo di lui alla mia malata, nelle molte ore che ormai passavo
accanto al suo letto; il male s’era complicato, l’infezione era salita
al cuore, e il povero cuore si gonfiava ogni giorno più, batteva
pazzamente, minacciava d’arrestarsi per sempre. Già il dottore, un
vecchio maestro del fidanzato, m’aveva svelato la gravita del caso;
egli lottava, ma temeva. Il giovane fisiologo sorrideva teneramente
a lei, ma dava talvolta a me sguardi strazianti. La malata non aveva
sospetti; non voleva accanto, oltre l’amico e me, che la vedova vicina.
Formulava progetti per la convalescenza, ripetendo: «Che noia, che
noia!»
Una crisi terribile, inattesa, precipitò il corso del male, gettò
l’inferma nel terrore ultimo. Per due notti restai accanto al letto
di spasimi, la mano stretta convulsamente da quella di lei, nella
pena infinita di non poter far nulla contro la forza misteriosa che
la prostrava. Per qualche ora credetti che la fine fosse imminente.
Scrissi a mio marito due righe per avvertirlo della necessità ch’io
rimanessi ancora qualche giorno.
La terza sera il cuore attenuò alquanto i suoi battiti pazzi e il
pericolo si allontanò. Il giovane, che aveva vegliato con me tre notti
tormentose, si concesse un po’ di riposo; io non mi sentivo stanca,
e il sorriso con cui la diletta accolse la mia risoluzione di restar
presso a lei, m’impedì di rimpiangere la pace delle mie stanzette, il
respiro dolce del bimbo addormentato sotto i miei occhi. La speranza
rifioriva.
Quando fu l’alba lasciai la malata in custodia della vedova e m’avviai
verso casa. Dopo pochi passi nella via deserta, biancastra, m’imbattei
in mio marito che s’avanzava a capo chino; si scosse, non seppe trovar
una parola, quasi vergognandosi. Un misto di pietà e di sprezzo
m’assalse.
Dopo che l’ebbi rassicurato sulle condizioni dell’inferma, egli cercò
di scusarsi per il viaggio impreveduto. Gli troncai la parola: non
volevo offender in alcun modo la diletta che lassù soffriva.
Anche a casa tacemmo. Tornai poco dopo presso l’amica: egli venne nel
pomeriggio a chieder se poteva vederla un momento. L’osservai. Ma
colei che lo aveva turbato, che era riuscita quasi a vincere io lui la
cupidigia d’un impiego ambito, non aveva più il fascino sensuale che lo
aveva ammaliato. Era una povera creatura sfiorita.
Ella gli parlò di me, gli disse che ero stata una santa per lei. «Vai
un po’ a casa, ora, vai, cara. Sto bene, risposerò. Verrai domattina,
non è vero?»
Povera donna! Dovetti contentarla. Ma tra mio marito e me pesava il
silenzio. Solo alla sera, dopo cena, quando il bimbo fu coricato, le
anime si apersero, con ardore la mia, un po’ guardinga la sua. Egli
teneva a giustificar il suo contegno. Io non volevo che l’ora scorresse
vana, perpetuando la menzogna. E, sorretta forse dall’eccitazione
nervosa di tanti giorni, parlai come non avrei creduto di poter mai.
Gli dissi ciò che avrei potuto dire al mio figliuolo fatto uomo:
egli non potè schermirsi, finì coll’ammettere in silenzio ciò che
gli attribuivo. Ascoltò anche quando conclusi nella necessità di
svincolarci entrambi da un legame che ci opprimeva.
M’interrogava, ora, dubbioso: «Credi proprio? Non potremo mai
intenderci?...» E sperai che sarei riuscita a persuaderlo.
In quel punto suonò all’ingresso il campanello. Era il «profeta», che
non vedevo da qualche giorno. Avevo, il mattino, detto a mio marito
delle sue visite, del lavoro di cui egli m’aveva pregata; ma il vederlo
giungere così, dopo le otto di sera, richiamò improvvisamente alla
sua anima sconvolta tutte le ire malsane di cui era capace. A stento
le represse, e la conversazione si trascinò per qualche minuto, fin
che l’amico risolse d’andarsene, stringendomi la mano in modo da
significarmi coraggio.
Sentii che la partita era persa. Mio marito principiò coll’inquisirmi,
brutalmente sarcastico. Lo lasciai dire e dire, sperando si esaurisse
così, come altre volte, il furore che gli faceva digrignar i denti....
Invece il mio atteggiamento remissivo peggiorò la situazione. Alterato
dal suono della propria voce, mi accusò, insultò l’amico, vomitò parole
abbiette, finì col lanciarsi sopra di me, gettarmi in ginocchio,
percuotermi bestialmente, mentre mi dibattevo a mia volta in una
crisi di rabbia spasmodica. Dalla stanza attigua il bimbo svegliatosi
mi chiamava, spaventato. Riuscii a svincolarmi, a correre presso il
letticciuolo, come istupidita. Le piccole mani di mio figlio correvano
sul mio viso umido e infocato, la vocina tremante susurrava: «Non
voglio, mamma, non voglio.... Non tornar più di là col papà: sta qui,
vieni a letto, non voglio che tu pianga....»
Ah, sì, obbedire, obbedire alla piccola voce dolente! Non eran più
queste le orribili notti del passato, nelle quali l’anima avvilita
accettava senza ribellione ogni sfregio e non riceveva alcun richiamo
dalla vita.... Mio figlio, ora, si preparava a difendermi, mi voleva
per sè, mi sentiva buona, pura, si rivoltava anche contro il dolore
ingiusto che per la prima volta gli si palesava.
L’uomo dovette gettarsi sul divano, in sala da pranzo; io presi in
letto con me il bambino; un’altra volta attesi l’alba.
La vecchia servente, quando m’alzai, m’interrogò tremante. Che cosa
aveva sentito dal suo stanzino? Mi guardava con pietà insistente. Mi
prese le mani, mi baciò qualche segno rosso sui polsi. Ricordava
anche lei delle ore di supplizio? I suoi occhi avevano spesso come il
rimprovero muto delle bestie maltrattate.
A mezzogiorno, a tavola, non rammento come la nuova scena si svolse:
so soltanto che a un certo punto mi trovai mio figlio avvinghiato al
petto e dinanzi mio marito che tentava strapparmelo, che gli ingiungeva
di seguirlo, partire insieme, per lasciarmi sola alle mie follìe....
Egli aveva riso ad una mia rinnovata proposta di separazione: padrona
io, di restare, di guadagnarmi da vivere come volevo, ma il figlio lo
seguirebbe, oh, dovunque!
Il piccino mi guardava smarritamente. Ah bimbo, bimbo mio!... Non sarei
morta se colui me lo strappava? Era la mia carne, la mia vita, era la
mia fede quel piccolo viluppo tepido che mi tremava fra le braccia....
Con uno sforzo tremendo respinsi il comando della coscienza
inesorabilmente lucida. Non volevo morire: e per vivere, dovevo piegare.
L’uomo sentì d’aver vinto, abbassò il tono della voce, rallentò il
fiotto delle parole odiose. Forse nella notte aveva esaminata la
situazione, s’era imposta una linea di condotta, aveva sentito svanire
i fumi sentimentali fra cui s’era compiaciuto negli ultimi mesi, s’era
di nuovo trovato pronto a strappare alla vita, senza riguardi, i soli
beni materiali—sufficienti per lui. Forse era sicuro in precedenza
che la minaccia di togliermi il figlio m’avrebbe ricondotta alla
rassegnazione. Si calmò, giunse a sorridere leggermente delle scene
avvenute, come d’una debolezza; credo anche mi chiedesse perdono.
Rimanemmo d’intesa che sarei rimasta in città alcuni giorni ancora,
finchè l’inferma fosse fuori di pericolo.


XIX.

Tre dì dopo la partenza di mio marito incontrai per strada il mio
amico; ero col piccino. Lo vedemmo avanzarsi tra la folla, assorto, un
po’ curvo, e ad un tratto, scorgendoci, trasformarsi per virtù d’un
sorriso splendente. Eravamo per lui una lieta apparizione?
Prese per mano mio figlio, rivolgendogli qualcuna di quelle domande
piene di grave tenerezza che fanno balzare di compiacimento il cuore
dei fanciulli, e che così pochi sanno trovare. Io rivedevo la scena di
poche sere innanzi; e un impeto d’indignazione mi toglieva la forza
di parlare. Bisognò ch’egli mi interrogasse, e allora non potei che
accennare ad una incipiente gelosia di mio marito, all’impossibilità
di veder lui d’ora innanzi in casa mia. Aveva intuita la cosa, ma al
sentirla confermare ebbe un movimento di sdegno. Poi, quando gli dissi
che avevo rinunziato ai propositi d’indipendenza, che per non esser
privata di mio figlio m’ero decisa a riprendere la vita meschina
e falsa, m’avvolse con uno sguardo mesto e quasi fraterno, e non
aggiunse parola. Senza confessarmelo chiaramente, restai un po’ delusa:
mi pareva che un gesto di pietà anche sprezzante, una rampogna, mi
avrebbero più sollevata.
La sera, dopo cena, mentre il bambino giocava sul tappeto accanto alla
stufa, ebbi una prostrazione paurosa.... Ero seduta alla scrivania; mi
trovai col capo tra, le mani, il petto scosso da singhiozzi violenti,
il volto inondato di lagrime. Il piccino restò un momento stordito; non
ricordava, certo, d’avermi mai vista così, piangere forte sola con lui.
Invano mi si strinse alle ginocchia, mi accarezzò il volto, mi disse le
sue puerili frasi d’amore per far cessare il mio pianto. Infine afferrò
la penna sulla scrivania, me la pose tra le dita inerti: «Mamma, mamma,
non piangere; scrivi, mamma, scrivi.... io sto buono; non piangere...!»
Ah, la piega dolorosa di quelle labbruzze fiorenti, la fissità precoce
di quello sguardo umido!... Egli partecipava veramente alla mia
sofferenza con tutta la bravura della piccola anima amorosa. E io non
potevo che accettare anche il suo sacrifizio, io, sua madre, che avevo
sognato per lui tutte le gioie, tutte le vittorie....
Scrivere? La cara piccola anima intuiva anche questo, la necessità per
me di tuffarmi come non mai nel lavoro e nel sogno. Non era geloso, mio
figlio, non era prepotentemente egoista nel suo affetto: pensava alla
mia salvezza, ai bisogni per lui oscuri del mio essere complesso, non
pretendeva di poter riempire lui solo tutta la mia vita.
Ma come afferrarmi a quella penna che mi porgevano i ditini rosei? Che
cosa scrivere? La mia desolazione si rifletteva anche su’ miei sogni,
che diventavano utopie inconsistenti e piene di contrasti ironici.
Il mio pensiero corse naturalmente sull’amico. Egli non aveva saputo
darmi un consiglio. Che cosa ero io per lui? Egli considerava tutti, me
compresa, come fa il passante che si china un momento sopra il bimbo e
lo lascia spaventarsi e piangere per qualche piccolo malanno ch’egli
potrebbe facilmente rimuovere. Potrebbe? Il bimbo quasi lo crede. Io
pure, quasi, l’avevo creduto.
Per la prima volta mi domandavo se la vita ch’egli conduceva, invece
che di purificazione e di perfezionamento, non fosse di raffreddamento,
di inutile crudeltà.... Qual verbo ne poteva scaturire?
Credeva venuta l’ora di dispensarlo al mondo; non mancava che una
preparazione di rito....
E mentre egli preparava la sua liturgia, io naufragavo, la mia amica
agonizzava: avrei pur io potuto morire! Non c’era in tutto questo
qualcosa di mostruoso?
Mi coricai. Il sonno non veniva. Quale ora di lucida coscienza
attraversavo? Dacchè, serrandomi al petto il figliuolo, avevo
rinunciato a’ miei progetti di libertà, non m’ero ancor chiesto
nettamente che cosa attendessi. Ed ecco, le risposte s’incrociavano
ora, contradicendosi, sgomentandomi. Io mi disprezzavo per la mia
debolezza.... Io mi sentivo vile.... Soffrivo senza scopo, senza
sollievo, senza utilità nè per me, nè per mio figlio.... E anelavo alla
gioia come lui nella spontaneità de’ suoi sei anni.... E presentivo
tutte le torture che egli avrebbe provato quando si fosse saputo prezzo
della ignominia materna....
E, ad un tratto, una nuova domanda irruppe: «Se _lui_ ti avesse detto
di resistere, se ti avesse chiesto di lasciare tuo figlio, se ti
avesse proposto di seguirlo, di servirlo, di portare nella sua vita
quell’armonia che vi manca?»
_Lui!_ Viveva dunque quella creatura talmente in me? Era dunque altro
che una guida, un esempio, un conforto?
E un’altra interrogazione fulminea: «L’hai amato?»
Poi ancora: «Avresti lasciato tutto per lui?»
Lo vedevo davanti a me, come l’avevo visto il giorno, contento di
ritrovarmi tra la folla ignara. Era mai stato amato? Non aveva mai
conosciuto il riposo su un seno di donna che lo comprendesse e lo
difendesse dalle ombre paurose del mistero?
Sorella egli mi chiamava.... Ma una sorella non può nulla. Altre egli
doveva averne incontrate, e niuna gli aveva potuto insegnare il
cammino della felicità.... Ed egli ostinato voleva dire agli uomini una
parola di rinunzia, assicurarli che quel cammino è fuor della terra....
Lente, le risposte si succedevano. Sì, s’egli mi avesse chiamata,
alcuni giorni prima, quand’io _credevo in lui_, io l’avrei seguìto; sì,
_per lui_ avrei forse potuto vivere senza mio figlio. In poco tempo
questo grande cambiamento s’era prodotto in me. Alcuni mesi prima,
quando avevo temuto che mio figlio morisse, nessuna figura era sorta
davanti alla mia mente ad affermarmi ch’io avrei ancora potuto vivere
per un altro essere.
Eppure, non era amore quello che sentivo per quell’uomo; non poteva
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