Una Donna - 05

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commozione ineffabile. Per una settimana vissi come in un sogno
gaudioso, in una pienezza d’energia spirituale che m’impediva di
sentirmi estenuata, che mi dava l’illusione d’avviarmi ai dominio
della vita. Nelle ore in cui il piccino dormiva nella sua culla bianca
accanto a me, e il silenzio e la penombra regnavano nella camera,
io abbandonavo la briglia alla fantasia, ed era nella mia mente un
avvicendarsi di due distinti progetti: l’uno che riguardava mio figlio,
che riassumeva la visione di tutti i mesi precedenti la nascita, che mi
delineava la grave dolcezza del mio còmpito di nutrice, di maestra, di
compagna; l’altro, che costituiva il primo invincibile impulso verso
l’estrinsecazione artistica di quanto mi commuoveva ora, mi riempiva di
sensazioni distinte, rapide, nuove ed ineffabili. Si svolgeva nel mio
cervello il piano d’un libro; pensavo di scriverlo appena rinvigorita,
nelle lunghe ore di riposo presso la culla. E talora, in dormiveglia,
sorridevo ad immagini di gloria.
La settima od ottava notte dopo la nascita, mentre rivolgevo al
poppante sommesse parole di tenerezza, vidi il volto puerile
atteggiarsi ad un sorriso; un sorriso lungo, pieno, splendente,
miracoloso: mi produsse una sensazione così intensa, che credetti
svenire.
Non posi fede al dottore, il mattino seguente, mentre mi diceva che
quel sorriso non poteva essere se non una contrazione muscolare,
assolutamente inconscia, prodotta soltanto dal benessere fisiologico
di cui il bimbo godeva in quel momento di sazietà e di riposo. Era
così soave pensare che fra me e la mia creatura esistesse di già una
corrente di simpatia, e che, nel mistero della notte, col mio solo viso
amoroso negli occhi, il bimbo affermasse di già la sua vita di piccolo
uomo!
Il dottore mi guardava affettuosamente; mi raccomandò di non esaltarmi,
sopratutto di non inquietarmi, come principiavo a fare, sembrandomi che
il piccolo dimagrisse; mi assicurò ancor una volta che il mio latte
era sufficiente e che non dovevo temer di nulla.
Passai la giornata scaldandomi il cuore all’evocazione di quel sorriso
notturno, che m’era apparso come un preludio dei gaudî che mio figlio
mi avrebbe dati nel tempo.
La sera vennero le mie sorelle coll’istitutrice a trovarmi. Conversavo
con esse lietamente, quasi effondendo il mio intimo contento, quando
sopraggiunse mia cognata. Senza mostrar d’avvedersi delle astanti, e
dopo aver baciato il nipote, ella restò in piedi, con volto arcigno,
muta. Le altre, dopo essersi scambiato uno sguardo, proseguirono
tranquillamente la conversazione e andandosene, dopo un poco, non
piegarono che lievemente il capo dalla parte ove stava la bisbetica
indomabile. Questa non le lasciò neppur chiudere l’uscio; si avventò
come una furia verso di me, con una valanga d’improperî al loro
indirizzo. Era un vecchio rancore quello che ella sentiva verso le
mie sorelle, che non andavano mai a farle visita: ma non mi si era
ancora rivelato intero così. Mio marito intervenne fiaccamente;
io non potei che rispondere qualche frase di sprezzo, mentre mi
abbandonavo sui guanciali, sentendomi la febbre montare nelle
vene, e staccavo il bambino dal petto, dietro esortazione sommessa
della servente impensierita. A lungo la donna fuori di sè parlò,
parlò, inviperendo.... Allorchè se ne fu andata, mi trovai esausta,
semisvenuta, incapace finanche di rimproverar mio marito, di dirgli il
mio stato.... La notte il bambino pianse, insoddisfatto del nutrimento;
nella sua visita mattutina il dottore mi trovò mentre lasciavo scendere
sul volto di mio figlio vanamente attaccato al seno alcune lagrime
disperate.
Non avevo più latte. Invano per quindici giorni tentai affannosamente
ogni rimedio, ogni regime, non vivendo più che nell’idea fissa di
volere io, io sola allevare mio figlio, a ogni costo. L’energia che
mi aveva sostenuta fin lì pareva abbandonarmi: piangevo, piangevo
piano, come una bimba, guardando il seno che non mi s’inturgidiva,
verificando desolatamente ad ogni pesatura che il piccino diminuiva,
cercando rassegnarmi al pensiero di veder quella testina appoggiata
ad un altro petto. Era un dolore nuovo, fisico oltre che morale,
qualcosa che mi struggeva, che recideva in me tutta la magnifica
fioritura di sogni spuntata dinanzi alla culla bianca; qualcosa che
respingevo coll’indignazione del moribondo giovane, come una mostruosa
ingiustizia....
Dovetti cedere, per non far morire la creaturina. Ottenni che la balia
restasse in casa, che mio figlio dormisse accanto a me. La giovane
che mi surrogò credo di averla odiata, col suo viso stupidamente
classico e i suoi movimenti pesanti, goffi; ma non aveva neppur lei
sufficiente latte per il piccolo ingordo che aveva patito la fame.
Dopo una settimana venne a sua volta sostituita. La nuova nutrice,
d’aspetto umile, dallo sguardo tranquillo e buono, mi calmò alfine
l’ansia per la salute del bimbo. Intuendo la mia gelosia materna, la
povera donnina si difendeva dalla tentazione di baciare la creatura cui
ella dava il suo sangue, e tendeva tutte le facoltà del suo intelletto
per non trasgredire le mie norme. Potei così vincere alquanto il mio
spasimo, rassegnarmi a dirigere l’opera che non potevo compiere, e a
ristabilire il mio organismo straordinariamente scosso. Mi rivedo tutta
bianca nel vestito e nel viso, sprofondata nella poltrona; tentando
riscaldarmi al sole di maggio, ascoltando distrattamente i discorsi
del medico, la sola persona che quasi ogni giorno portava nella mia
vita un filo di fraternità spirituale. L’anemia s’era impadronita di
me e non m’avrebbe più lasciata. Non me ne preoccupavo; ma i nervi se
ne risentivano, sempre dolorosamente tesi. L’igiene del piccino m’era
come un’ossessione, poichè la spingevo agli eccessi; dovevo mostrarmi
d’un’esigenza quasi crudele colla balia, malgrado le fossi, in certi
momenti di serenità, intensamente grata. Mio figlio cresceva come un
fiore fra le due madri. Ora per ora sentivo di amarlo in modo sempre
più delirante, comprendendo di aver accumulato in lui tutta la mia
sostanza profonda. La mia vita si concentrava su quel piccolo essere.
Non notavo che mio marito m’era diventato affatto indifferente e che
la mia psiche aveva cessato di occuparsene. L’indulgenza a suo riguardo
era divenuta una forma d’abitudine. Egli era il padre della mia
creatura, l’uomo che un giorno mio figlio avrebbe dovuto rispettare, ed
io agivo verso me e verso gli altri ispirata dalla volontà di mantenere
l’illusione intorno alla persona morale di lui, di farlo apparire
degno di me, degno della sua paternità. Gli ero grata quando lo vedevo
commuoversi ed allietarsi per qualche piccolo progresso del bimbo,
quando partecipava in un certo grado alle mie incessanti apprensioni e
sopportava, oltre ai fastidî notturni, le mie lagnanze contro tutto ciò
che non era il sorriso di mio figlio.
Come se una jettatura pesasse sull’allevamento del piccino, verso il
quinto mese alla nutrice morì una figlia e scemò il latte. Entrò in
casa una nuova donna, bruna, sanguigna, formosa, di carattere opposto
a quella che se ne andava. Non ho mai incontrato un temperamento più
bislacco, assurdo e imperturbabile. Per mesi e mesi, mentre il bimbo
sviluppava deliziosamente le sue grazie e le sue forze, io sostenni una
lotta continua contro i miei impulsi per sopportare quella contadina
che aveva un riso sonoro e fatuo nell’ossequio come nell’impertinenza,
un riso che mi feriva sopratutto quando lo vedevo scoppiare ad un palmo
di distanza dalla faccina di mio figlio.
Mio marito, rimproverandomi, acuiva la mia amarezza: non comprendeva
che i difetti di quella donna m’irritavano in quanto deformavano
la seconda madre ch’io volevo che fosse per mio figlio?... Temevo,
sopratutto, che il bimbo potesse, col latte, succhiare i germi di
quella natura goffa e biliosa. E vedendo mio marito insistere nel
difenderla, mi attraversò la mente un sospetto che mi offendeva in
quanto avevo di più sacro.
Tanto orrore m’incuteva quel sospetto, che rifuggii con tutte le
mie forze dal verificarlo. In verità, al di fuori della somma di
energie ch’io spendevo attorno al bambino, era in me un’incapacità
sempre maggiore di vedere, di volere, di vivere: come una stanchezza
morale si sovrapponeva a quella fisica, lo scontento di me stessa, il
rimprovero della parte migliore di me che avevo trascurata, di quel
mio io profondo e sincero, così a lungo represso, mascherato. Non
era un’infermità, era la deficienza fondamentale della mia vita che
si faceva sentire. In me la madre non s’integrava nella donna: e le
gioie e le pene purissime in essenza che mi venivano da quella cosa
palpitante e rosea, contrastavano con un’instabilità, un’alternazione
di languori e di esaltamenti, di desiderii e di sconforti, di cui non
conoscevo l’origine e che mi facevano giudicare da me stessa un essere
squilibrato e incompleto.


VIII.

Su un libriccino segnavo le date maggiori dell’esistenza fragile e
preziosa della quale vivevo e che respiravo come se fosse stata la sola
aria per me vitale. Quegli appunti, insieme a qualche notazione rapida
del primo destarsi dell’intelligenza nel bimbo e delle impressioni
varie che ne risentivo, sono il mio esordio di scrittrice.
Rivedo il corpicino di mio figlio ignudo nel bagno, sorretto dalle mie
mani trepide: bello, di una bellezza perfetta che consideravo senza
orgoglio, con timore, immaginando possibili deformazioni, chiedendomi
se avrei amato quella creatura quando avesse recato qualche marchio
d’infelicità, e dicendomi che le avrei fatta bella la vita in qualsiasi
condizione. Rivedo lo sguardo di lui, inesprimibile: uno sguardo
luminoso come un lembo di cielo azzurro; e la bocca deliziosamente
fiorita, e la testina coperta di fini capelli castani, e le mani
irrequiete, prepotenti, sempre occupate. E vedo me stessa china sulla
sua culla per ore e ore, di giorno e di notte, spesso affranta, col
petto gonfio di una gioia grave, quasi mistica. Ero necessaria a mio
figlio quanto egli a me; la mia vigilanza perenne faceva di lui un
superbo esemplare d’infanzia fortunata; ero ben io che lo portavo
avanti, senza posa, io sola, ostinatamente. Egli mi apparteneva,
perchè io sola me gli davo; suo padre, sua nonna, tutti gli altri
godevano lo spettacolo; ma io ero l’autrice; da me sola avrebbe dovuto
riconoscere tutto ciò in avvenire.
La balia se ne andò prima che il bimbo compisse l’anno. La primavera
e l’estate mi videro scaldarmi al sole insieme alla mia creatura.
Sostenevo il piccino nel suo sgambettìo tentennante, poi lo prendevo
in braccio, lo portavo attraverso i campi o in riva al mare, a lungo,
ansando talvolta e sorridendo insieme per la fatica. Che cosa ci
dicevamo mio figlio ed io, dalla mattina alla sera? Chi sa! Egli
chiamava: Mamma! ed io dovevo rispondergli palpitando. Talora scrivevo
tenendolo in grembo, lettere ad amiche, cifre per gli operai; o leggevo
adagiata accanto a lui su un tappeto, fra i più strani oggetti. Negli
occhi turchino cupi, vellutati fra le ciglia lunghe, splendeva a tratti
un lampo di furberia, la coscienza dell’onnipotente sua volontà; e in
me capitolavano tutte le energie, io non sapeva più esiger nulla da chi
mi guardava con tale adorabile malizia.
Mia suocera aveva cessato di brontolare perchè non eseguivo le sue
magiche ricette contro il malocchio e una quantità d’altri pericoli.
Quando veniva a trovarmi, più piccola e sfinita nell’abito da lutto, il
volto le si accendeva fugacemente scorgendo le grazie del nipotino. In
paese si diceva ch’ella subisse ora chi sa quali maltrattamenti dalla
figlia. Non si lagnava, ma era sempre più curva, più silenziosa: quali
ombre di pensieri amari dovevano svolgersele nella mente?
Il bimbo aveva alquanto ravvivati i rapporti miei con le mie sorelle
e mio fratello. L’istitutrice, partita da casa loro per un migliore
impiego, non era stata sostituita. Ogni due mesi si andava a trovar
nostra madre, che ormai non chiedeva più di tornare con noi,
s’interessava sempre meno alle nostre frasi tremanti, acquistava
progressivamente, con una pinguedine che impensieriva i medici, un
linguaggio ed un’espressione infantili. Le figliuole principiavano a
sentire intera la loro solitudine morale, a formular dei rimproveri
concreti contro la condotta paterna. Ma si effondevano poco con me.
Dovevano pensare che non ero felice: anche compiangendomi però, mi
reputavano certo un essere poco sensibile. Ne soffrivo, ma non trovavo
la forza di disingannarle, di conquistarle.
Qualche volta incontravo il babbo, non curante che di arricchire dacchè
aveva preso in affitto la fabbrica, senza un pensiero per l’abbandono
in cui si trovavano i figli malgrado l’agiatezza crescente che li
circondava. Guardava il mio piccino come una graziosa bestiuola. Di
mio marito continuava ad esser mediocremente soddisfatto, pur avendolo
elevato a vicedirettore. Alla vita del paese era divenuto del tutto
estraneo; nelle sue critiche era troppa acredine perchè potessi
rilevarne come in passato le note giuste; e tuttavia parlando con lui
mi sentivo sempre portare come in un cerchio più spazioso d’idee, sì
che tornando nelle mie stanzuccie avevo l’impressione di ripiombare
in un pozzo angusto, soffocante. Neppure le conversazioni coll’amico
dottore mi facevano un tal effetto di eccitare quanto v’era in me di
più originale e forte.
Col dottore, pur divertendomi a discutere le sue opinioni temperate e
in parte pessimiste, restavo perplessa, e spesso sconcertata. La nostra
simpatia aveva forse radice in una differenza sostanziale della nostra
educazione e in una somiglianza altrettanto profonda dei nostri gusti:
ma io non possedevo me stessa intera ed egli non era lo spirito atto a
suscitare una certezza qualsiasi nella mia anima.
D’altronde, che cosa pensava egli veramente di me? Come di fronte
agli altri, anche di fronte a lui non avrei voluto apparire donna da
compiangersi.
Sempre più gravosa intanto mi riusciva la missione che m’ero imposta
verso mio marito. Ora anche il suo affetto egoistico mi pareva
intepidito. Nuovi sospetti sulla sua fedeltà mi erano sorti a proposito
d’una bella e sfrontata operaia ch’egli aveva difeso presso mio padre a
torto. Per altro, l’istinto geloso perdurava in lui e si manifestava in
modo sempre più tirannico.
Un giorno non so più bene dietro qual bisticcio futile, lo vidi per la
prima volta montare in furore, gettarsi su un vestito nuovo che stavo
per indossare, e lacerarlo.... Mi parve di venir io stessa malmenata.
Egli si represse tosto, tentò scusarsi. Volli dimenticare, non dar
importanza all’incidente....
Lo guardavo talora, sempre sicuro di sè, pago intimamente della sua
situazione, debole e pauroso di fronte ai superiori e alla folla, privo
di ogni intuizione, inetto nella carezza come nel rimprovero, inutile,
estraneo alla mia vita. Egli non sentiva il mio esame, ed io riportavo
lo sguardo su mio figlio, obliando istantaneamente il gelo ed il
terrore di quell’involontaria analisi, scaldandomi e tranquillandomi al
suo sorriso.
Sopraggiungendo l’inverno riprendemmo, una, due volte per settimana, le
veglie in casa del nostro parente. Vi convenivano regolarmente, oltre
al dottore, qualche commerciante ammogliato, il segretario comunale,
un maestro con alcune figliuole e qualche volta mio fratello e un suo
amico studente quasi sempre in vacanza: talora nello stanzone s’era più
di venti ad ascoltar le canzonette napoletane del segretario fra un
pettegolezzo, una disputa e un ragionamento sbilenco.
Mia cognata non mancava mai. Notavo in lei con un certo stupore delle
velleità d’eleganza e come una preoccupazione di civetteria dacchè
aveva smesso il lutto. Si mostrava apertamente invidiosa delle
ragazze, più giovani di lei e un poco più affinate. Ma nessuno, per
buona sorte, le badava troppo: solo il dottore, che l’aveva curata
pochi mesi avanti per un’ostinata nevralgia, le lanciava qualche
satira, con un sorriso fine, ed ella chinava il capo stranamente
confusa e non ribatteva.
Il dottore mi mostrava la sua compiacenza nel vedermi partecipare a
quelle riunioni serali ove pur tante cose mi urtavano. Ero così priva
di distrazioni, che mi ci recavo abbastanza volentieri. Mi sentivo
circondata, ora, da un rispetto che mi lusingava, venendo da individui
generalmente sprezzanti verso la donna; più che la fama di geloso che
mio marito s’era acquistata, era certo il mio aspetto di bimba pensosa
e gentile, così differente dal tipo femminile del luogo, che frenava la
parola e il pensiero di tutti quegli uomini, obbligandoli ad estrarre
alla luce quanto di meno volgare ognuno possedeva.
Una sera, mentre il segretario suonava, vidi ad un tratto fissi sui
miei, acutamente, singolarmente, gli occhi di uno della comitiva,
seduto di fronte a me. Era un forestiero, come in paese chiamavano
tutti coloro non nati lì. Egli diceva d’esser vissuto, sino a tre anni
avanti, sempre all’estero, un po’ qua un po’ là, per gusto d’avventure.
Sapeva infatti parecchie lingue ed era certo, dopo il dottore, il più
intelligente ed istruito di quanti conoscevo in paese. Viveva di una
piccola rendita, con la moglie e un bambino dell’età stessa del mio,
bellissimo.
Da poche settimane soltanto le relazioni tra le nostre due famiglie
s’eran annodate: la giovane m’era apparsa alquanto ambigua, con
un’espressione leggermente sarcastica su un pallido volto di consunta.
Quanto all’uomo, di trent’anni, di media statura ma di forme atletiche,
biondo, con una singolare voce calma e metallica, corretto nei modi ma
impenetrabile nello sguardo, non mi suscitava interessamento speciale.
Non avevo di lui alcuna opinione precisa, come del resto non ne avevano
gli altri suoi conoscenti, perchè solo da poco egli s’era stabilito in
paese, ove l’aria pareva dovesse giovare alla moglie.
Sotto il suo sguardo trasalii. Che voleva quell’uomo? Mi pareva che
sorridesse in modo enigmatico, per la soddisfazione d’avermi fatto
notare la sua occhiata, forse; e mi sentivo come schiaffeggiata da quel
muto riso. Ma una sorta d’ipnotismo mi obbligò a ricercare di nuovo le
sue pupille; non sorridevano più; erano cupe, imperiose, ardenti.
Quella notte mi coricai con una sorda agitazione nell’anima, quasi
che un nemico mi avesse dichiarata una guerra dal motivo e dall’esito
ignoti. Per la prima volta dacchè ero maritata, un uomo a due passi
da me ardiva di guardarmi in tal modo, come obliando la mia fama di
orgoglio e di austerità. E la sorpresa era pari all’indignazione.
Per alcune sere fui perseguitata da quegli occhi azzurro chiari,
implacabili, ma che via via perdevano l’espressione di comando che mi
aveva sgomentata, per assumere una dolcezza grande, quasi un’estasi di
sogno. Colui parlava poco, abitualmente; potendo si isolava dall’uno
o dall’altro gruppo, e dall’angolo in cui si poneva mi fissava
lungamente, non scorto che da me. Al momento dei saluti, tratteneva un
istante più del necessario la mia mano nella sua, in silenzio. Facevo
con mio marito la strada fino a casa, nel rigore della notte invernale,
fantasticando. A casa trovavo il bimbo addormentato, e a guardia di lui
la donna di servizio, sfinita, che se ne andava subito verso la sua
catapecchia. Una rapida punta al cuore. E sotto le lenzuola invocavo
ansiosamente il sonno.
Al mattino, mi rialzavo col capo greve. Di là dai vetri della sala da
pranzo scorgevo talora, giù nella strada, passar lenta una figura, che
non mi salutava e mi guardava. Un attimo; e lasciavo la finestra. Mi
ponevo a giocar col bimbo. La sera, prima di uscire, mi fermavo davanti
allo specchio, come non avevo mai fatto.
Nel nostro convegno le tre figliole del maestro susurravano spesso a
bassa voce tra loro quando mia cognata ascoltava il dottore con aria
estatica. Mio fratello una volta, scorgendole in quell’atteggiamento,
mi disse ridendo, a bassa voce: «Il segreto di tua cognata diventa
quello di Pulcinella.... Non ha da esser fiero il dottore della sua
conquista!...» Avrei voluto chiedergli spiegazione e non osai. Che
intendeva dire? Che rapporti potevano esistere fra il mio amico e
quella creatura? Restai perplessa, mentre mi cresceva ad un tratto
l’oscuro senso di malessere. E mi sentii più sola, inosservata fuor che
da quell’unico....
Ormai non potevo ignorare il proposito di quell’uomo: io gli piacevo e
voleva mostrarmelo. Poi?... Che attendeva, che immaginava? Talora, a
notte, tornando dal consueto ritrovo e accompagnandoci per un tratto di
strada insieme a sua moglie, egli mi gettava al disopra delle spalle
di questa, piccolina, il suo sguardo penetrante, e io non distoglievo
il mio che dopo un attimo, e per considerare le altre due figure che
mi camminavano a lato, ignare. Mi chiedevo: «Dove vai? Sei tu, tu che
accetti questo?»
Un semplice atto di energia sarebbe bastato, sì. Il pensiero di
quell’uomo entrava ormai in tutte le occupazioni della mia giornata,
le metteva tutte in seconda linea; financo mio figlio non valeva a
liberarmi dall’ossessione; ma non era un pensiero appassionato, neppure
simpatico. Il mio cuore non batteva, non poteva battere per chi mi era
quasi sconosciuto, per chi non vedeva in me, certo, che un fiore degno
d’essere carpito all’indifferente proprietario..... E colui doveva ben
dirsi che il gioco non poteva prolungarsi molto.
Il capo d’anno passò: ricevetti, un dì che mio marito era assente dal
paese, una lettera. Mi si pregava di una parola che convalidasse le
speranze nate in un cuore in cui l’amore e il dolore tumultuavano.
Sorrisi. Le frasi non mi persuadevano, e vidi annunziarsi l’atteso
scioglimento. Perchè risposi?
Risposi, non rammento in quali termini, che quel cuore doveva
riconquistare virilmente la calma, fugare le ombre d’un sogno,
perdonare a chi aveva lasciato forse che vi spuntassero vane speranze
per biasimevole debolezza... Era uno scritto sincero, con una punta
d’ironia che non escludeva il sentimento della pietà per l’aridezza di
entrambi; doveva balenarvi qualcosa di stanco e di amaro, traverso la
rassegnazione al destino. Rileggendolo, prima di spedirlo, mi parve di
avere scritto per me sola, d’aver sintetizzato la mia anima, e come uno
sfacelo avvenne in me; io compresi per la prima volta tutto l’orrore
della mia solitudine, sentii il gelo de’ miei vent’anni privi d’amore,
e piansi un lungo pianto desolato e selvaggio, cessato il quale seppi
la misura della mia miseria.
Spedita questa risposta, per qualche giorno restai in casa, lieta
e triste insieme di non ricevere più segno di vita da chi, senza
saperlo, mi aveva fatto gettare un tale sguardo su me stessa e mi aveva
strappata una così disperata confidenza. Quell’immagine intanto non
mi lasciava, ed io mi sentivo a grado a grado invadere da un languore
mortale, che non era più rassegnazione e non era ancora ribellione, ma
semplicemente l’ansia di qualche catastrofe impensata che mi togliesse
alla coscienza del mio male.
Il suo silenzio mi divenne presto insostenibile. Dopo qualche sera
tornai alla casa del nostro parente. Appena entrata vidi il volto
temuto, che impallidiva leggermente, mentre gli occhi evitavano i miei;
più tardi sentii la voce un po’ affiochita dire d’un malessere provato
nei giorni precedenti. Al mattino dopo, con un sotterfugio, mi pervenne
una seconda lettera. Era violenta. Mi diceva che l’amore non si doma,
che la passione non si dissimula: nulla aveva da perdonarmi, ma tutto
da implorare, ancora, sempre, per me, per il mio diritto alla felicità,
più ancora che per sè, indegno....
Era tattica sapiente, o il caso? Era colui un abile conoscitore e
calcolatore, o io attraversavo una crisi durante la quale una voce
qualsiasi di riscossa era irresistibile?
Che cosa replicassi non so più. Mi sfogavo, certo, mi lagnavo
miseramente, mi abbandonavo alla dolce fede di essere compresa, di
aver trovata un’anima fraterna sotto apparenze taciturne. Dicevo che
il domani compievano quattro anni dal dì delle mie nozze.... che la
vita mia era sigillata, che solo per mio figlio avrei ancora potuto
sorridere....
E sfuggivo ora l’analisi del mio sentimento giganteggiante, attendevo
il precipitare dei fatti, senza che il cervello paralizzato mi
permettesse di raffigurarmeli in qualche modo.
Io sapevo che sua moglie, votata ad una morte prossima, era di
carattere molesto, freddo, impotente a dare e a ricevere affetto.
Non credevo ciò una scusa per tradirla; anche verso mio marito non
accampavo motivi di rappresaglia; mi sorprendevo anzi a nutrir per
l’una e per l’altro una pietà sincera, pungente. Il pensiero del
bimbo sopratutto incombeva sul mio spirito. Ma anche esso pareva
affievolirsi: via via tutto si oscurava.... Ero pervenuta al sofisma
di tutte le donne che conciliano l’amore dei figli colla menzogna
maritale? Il mio spirito si raffigurava un avvenire di viltà felice fra
le gioie materne e gli amplessi dell’amante?
Non credo. Cercavo di persuadermi che la vita mi offriva finalmente
l’amore, il vero, e che dovevo accettarlo, portando all’uomo che mi
meritava, tutta me stessa e l’altra parte della mia vita, il mio bimbo,
semplicemente, lealmente. Oh, amare, amare, darmi volontariamente,
sentirmi di un uomo, vivere, rinascere!
Quanti giorni di battaglia? Non so più: pochi. Quando lo rividi,
ad una delle festicciuole da ballo che il gruppo degli amici aveva
organizzate, ed egli mi cinse la vita trascinandomi in un turbine di
giri e susurrandomi sul collo parole brevi di amore, di amore, e in
tutta la sala ridicolmente addobbata, non vidi un solo essere che
attingesse le vette del sogno ch’io facevo, e mi sentii nelle vene
tumultuare un sangue giovane, ricco, e appresi in un baleno da cento
occhi dimentichi, che confermavano le parole ardenti di lui, ch’io
ero una donna bella, la sola bella, bella, bella; e mi dissi che un
uomo s’era sentito capace di suscitare in me una fiamma che tutta mi
travolgesse.... pensai che il mio destino si fissava, e assaporai la
prima, l’unica ebbrezza della mia vita.
* * * * *
Mio marito dovette improvvisamente partire per alcuni giorni. Quando
lo seppi, tremai. Era un pomeriggio grigiastro, gelido; egli sedeva
al caminetto, e io me gli avvicinai, mi strinsi alle sue ginocchia
come nei giorni lontani del nostro oscuro idillio, obliando in
quell’istante ch’egli era l’autore della mia sventura, non ascoltando
che l’avvertimento del cuore per cui vedevo la sua persona travolta
colla mia nell’imminente bufera. Egli mi carezzò la testa, come da un
pezzo non faceva, scorse l’alterazione del mio viso, si turbò, trovò,
dinanzi alle mie lagrime irrompenti, parole di tenerezza. Mi voleva
bene dunque ancora? Non sapevo: sapevo di non averlo, io, mai amato,
poi che la donna solo allora in me si destava, la donna bramosa di un
ignoto delirio che la ponesse, conscia del proprio valore, in balìa
d’un forte....
Che potevo dirgli? Lo lasciai partire. L’altro mi seppe sola,
audacemente e semplicemente mi pregò con un biglietto d’attenderlo
per la sera dopo: avremmo parlato; io sapevo che avrei ricevuto un
gentiluomo.
Venne. La situazione era singolare, e noi impacciati, quasi dimentichi
del reciproco esaltamento dei giorni addietro. Non so perchè, lo
trovavo quasi goffo, seduto di fronte a me col tavolo rotondo
frapposto, scegliendo le parole dell’esordio, collo sguardo privo del
consueto lampo temerario. E mi sentivo tutt’altro che commovente,
così rigida e muta, coll’orecchio teso verso la stanza ove il piccino
dormiva, la fronte ombrata di diffidenza.
Non ritenevo che qualche spunto di frase: «Certo.... abbiamo entrambi
dei doveri, dei duplici doveri.... Ma al sentimento non si può
mentire.... Il cuore ha i suoi bisogni.... Senza venir meno a quei
doveri, senza far soffrire....»
Che altro? Non era di facile eloquio e io non lo incoraggiavo.
«Senza far soffrire nessuno.... Si può conciliare....»
Doveri? S’ingarbugliava. Si risolse, troncò le dimostrazioni, mi
prese le mani, ravvivò gli occhi, mi disse che mi amava, ch’io pure
l’amavo, che saremmo stati felici presto; mi dava del tu; si alzò, mi
trasse a sè, improvvisamente mi baciò in bocca; e allontanandolo io
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