Una Donna - 08

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nulla di eccezionale, che probabilmente tutti gli esseri ne recano una
uguale nel segreto dello spirito, e solo le circostanze impediscono
che tutte vadano ad aumentare il patrimonio comune. Ma non ero
persuasa dell’ipotesi. Tanta incoscienza e noncuranza erano intorno!
Il dottore avrebbe potuto fornire una base ai miei studi colla sua
scienza, ma egli non si curava più di nutrire il suo spirito: le
necessità urgenti della sua professione l’occupavano troppo, e il
suo scetticismo gli faceva apparire troppo ipotetico un mutamento di
condizioni secolari, il sollievo d’una miseria fisiologica ereditaria.
Mi diede però alcuni libri, trattati di biologia, manuali d’igiene, di
storia naturale. E sorrideva con simpatia non priva di canzonatura,
quando gli mostravo che ne avevo tratto sunti e note.
Egli era per me un fenomeno malinconicamente interessante. Mi chiedevo
ancora se erano esistiti e se esistevano dei rapporti intimi fra lui e
mia cognata, e il solo sospetto mi riusciva umiliante. Ma come viveva
egli scapolo? Il caso di mio padre mi faceva fermar l’attenzione sul
fatto sessuale e ne traevo delle riflessioni amare. Ecco, anche questo
giovane, che professava un tal rispetto per me e riconosceva delle
verità superiori, conducendo una vita esemplare secondo le convenzioni
sociali, aveva una vita segreta forse non confessabile....
Chi osava ammettere una verità e conformarvi la vita? Povera vita,
meschina e buia, alla cui conservazione tutti tenevan tanto! Tutti si
accontentavano: mio marito, il dottore, mio padre, i socialisti come
i preti, le vergini come le meretrici: ognuno portava la sua menzogna,
rassegnatamente. Le rivolte individuali erano sterili o dannose: quelle
collettive troppo deboli ancora, ridicole quasi di fronte alla paurosa
grandezza del mostro da atterrare!
E incominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte
non lieve del male sociale. Come può un uomo che abbia avuto una buona
madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui dà
il suo amore, tiranno verso i figli? Ma la buona madre non deve essere,
come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere _una
donna_, una persona umana.
E come può diventare una donna, se i parenti la dànno, ignara, debole,
incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale; ne usa come
d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola,
mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinchè continui a baloccarsi
come nell’infanzia?
Dacchè avevo letto uno studio sul movimento femminile in Inghilterra e
in Scandinavia, queste riflessioni si sviluppavano nel mio cervello con
insistenza. Avevo provato subito una simpatia irresistibile per quelle
creature esasperate che protestavano in nome della dignità di tutte
sino a recidere in sè i più profondi istinti, l’amore, la maternità,
la grazia. Quasi inavvertitamente il mio pensiero s’era giorno per
giorno indugiato un istante di più su questa parola: «emancipazione»,
che ricordavo d’aver sentito pronunciare nell’infanzia, una o due
volte, da mio padre seriamente, e poi sempre con derisione da ogni
classe d’uomini e di donne. Indi avevo paragonato a quelle ribelli la
gran folla delle inconsapevoli, delle inerti, delle rassegnate, il
tipo di donna plasmato nei secoli per la soggezione, e di cui io, le
mie sorelle, mia madre, tutte le creature femminili da me conosciute,
eravamo degli esemplari. E come un religioso sgomento m’aveva invasa,
lo avevo sentito di toccare la soglia della _mia_ verità, sentito
ch’ero per svelare a me stessa il segreto del mio lungo, tragico e
sterile affanno....
Ore solenni della mia vita, che il ricordo non potrà mai fissare
distintamente e che pur rimangono immortali dinanzi allo spirito!
Ore rivelatici d’un destino umano più alto, lontano nei tempi,
raggiungibile attraverso gli sforzi di piccoli esseri incompleti, ma
nobili quanto i futuri signori della vita!


XIII.

Un fatto di cronaca avvenuto nel capoluogo della provincia, m’indusse
irresistibilmente a scrivere un articoletto e a mandarlo ad un giornale
dì Roma, che lo pubblicò. Era in quello scritto la parola _femminismo_.
E quando la vidi così, stampata, la parola dall’aspro suono mi parve
d’un tratto acquistare intera la sua significazione, designarmi
veramente un ideale nuovo.
Intanto il mio scartafaccio cresceva di mole. Tentativi disparati vi
si succedevano. Accanto ad impressioni visive, alla pittura rapida
di qualche _tipo_, si svolgeva in cento frammenti il filo delle mie
considerazioni sulla vita, tendenti ad orientarsi in una connessione,
in un organismo. Un occulto ardore correva per quei fogli, che io
cominciavo ad amare come qualcosa _migliore di me_, quasi mi rendessero
la mia imagine già purificata e mi convincessero ch’io poteva vivere
intensamente ed utilmente. Vivere! Ormai lo volevo, non più solo per
mio figlio, ma per me, per tutti.
Mi stimavo fortunata nella mia solitudine. L’aspro calvario era ben
sempre sotto a’ miei occhi; guardandolo restavo affascinata dal
pensiero delle innumeri creature che ne salivano uno uguale senza
trovare alla vetta neppure una croce su cui attendere una giustizia
postuma. Donne e uomini; agglomerati e pur così privo ognuno di aiuto!
Quella l’umanità? E chi ardiva definirla in una formula? In realtà la
donna, fino al presente schiava, era completamente _ignorata_, e tutte
le presuntuose psicologie dei romanzieri e dei moralisti mostravano
così bene l’inconsistenza degli elementi che servivano per le loro
arbitrarie costruzioni! E l’uomo, l’uomo pure ignorava sè stesso:
senza il suo complemento, solo nella vita ad evolvere, a godere,
a combattere, avendo stupidamente rinnegato il sorriso spontaneo e
cosciente che poteva dargli il senso profondo di tutta la bellezza
dell’universo, egli restava debole o feroce, imperfetto sempre. L’una e
l’altra erano, in diversa misura, da compiangere.
Nessun libro aveva la virtù di sconvolgere le mie recenti convinzioni;
e nessuno, di quelli che lessi in quel tempo, mi produsse grande
impressione. M’accorsi che il mio senso critico, dopo la lunga
paralisi, s’era come allargato ed intensificato; e insieme scopersi
nel mio spirito una sorta di nostalgia accorata per tutto ciò che la
mia educazione irrimediabilmente aveva trascurato in me. La poesia,
la musica, le arti del colore e della forma, rimanevano per me cose
quasi ignote, mentre l’intero mio essere aspirava all’estasi ch’esse
suscitano; il pensiero di cui vivevo, avrebbe voluto talvolta farsi
alato, confondersi coi raggi e coi suoni. Scrivendo, la mia impotenza
a tradurre liricamente l’oscuro mondo interiore mi dava spesso una
sofferenza acuta; ogni cosa, che non giungevo ad esprimere, ricadeva
per sempre nel baratro ignoto onde era sòrta per un istante.
Nella casa tranquilla una vecchia donna entrata stabilmente al nostro
servizio, adempieva le funzioni domestiche che prima erano state quasi
del tutto a mio carico. Alta e curva, il viso ossuto stranamente brutto
ed espressivo, ella mi aveva destato ripugnanza al primo momento e
mi aveva conquistata di poi subito colla sua intelligenza ed il suo
tatto. La sua storia non era diversa da quella di molte donne del
popolo, prima esauste dalla maternità, poi abbandonate dal marito
emigrato, e infine sfruttate dalle loro medesime creature. Ella la
raccontava timidamente, rivelando una stoica simpatia per la vita. La
mia attenzione l’aveva lusingata: sin dai primi giorni la mia figura
fanciullesca, colla lunga treccia ed il viso roseo così simile a
quello del mio bimbo, era stata per lei oggetto di sorpresa; poi, la
vita solitaria ch’io conducevo e i temi di discorso con mio marito, a
tavola, quand’egli era in vena di ascoltarmi, le avevano infusa una
riverenza timorosa ove si mescolavano orgoglio, devozione, strane
speranze per sè e per i suoi figli.
Presi a considerarla come una compagna, umile e discreta. Non ne
avevo altra! Che sforzi commoventi per comprendermi quando tentavo
di istruirla su qualche soggetto! Se doveva rinunciarvi, crollava le
spalle curve: «Ah, signorina mia, fossi con trent’anni di meno! Chi sa
che avreste fatto di me!»
Ella, con mia suocera e un’altra vecchietta che veniva qualche volta a
lavorar di bianco in casa mia, mi rappresentava al più alto grado la
sommissione del mio sesso, non soltanto alla miseria, ma all’egoismo
dell’uomo. Teste grigie scosse perennemente di un lievissimo tremito,
come dall’istintivo ricordo degli strazî sofferti, teste stanche su cui
spesso lo sguardo non osava mantenersi, quante volte vi ho baciate in
ispirito, non per voi, per una fugace pietà del vostro destino, ma per
l’onda ardente dei propositi che, senza saperlo, gettavate entro al mio
cuore!
Mia madre, dal pauroso asilo, m’incitava anch’ella. Ero persuasa che
se la sventurata avesse incontrato in gioventù un motivo d’azione
fuori della cerchia famigliare, ella non sarebbe stata annientata
dalla sventura. Non credevo io, a ventidue anni, di poter accettare
la vita senza l’amore? Non trovavo anzi una specie di sicurezza nella
convinzione che mai più l’amore m’avrebbe sfiorata?
Non potevo percepire distintamente le deficienze ancor profonde
della mia vita. Riuscendovi, avrei reciso tutti i miei ingenui
entusiasmi. Guai se avessi analizzata la mia vita quotidiana! Ma
esorbitavo talmente da quello che avrebbe dovuto essere il mio circolo,
avevo talmente il senso di compiere uno sforzo eccezionale, che la
contraddizione fra ciò che pensavo, e ciò che subivo, non mi pungeva
nell’anima, non mi dava che un lieve affanno fisico.
A mezzo l’estate un lavoro, che mi si svolgeva in meno da qualche
tempo, mi s’impose, e lo condussi a termine in pochi giorni: una
piccola monografia sulle condizioni sociali della regione in cui
vivevo, tessuta d’osservazioni personali, vibrante d’emozione. La
mostrai al dottore, e quando me la riportò sentii ch’egli era convinto
d’una mia nuova potenzialità; e compresi anche, per istinto, senza
chiedermi se me ne compiacevo o rammaricavo, che in questa attività da
cui ero assorbita, egli avrebbe veduto un ostacolo nuovo al sentimento
che forse nutriva per me in segreto.... Elevandomi mi isolavo dunque
più che mai.
Che importava? Il mio distacco dal mondo, ora, era sincero; dotata
di gioventù e di bellezza, io potevo, mercè la crisi attraversata,
credermi esente per sempre da ogni desiderio di sensi. I rapporti con
mio marito, cui mi rassegnavo con malinconica docilità, non turbavano
il lavorìo della mia coscienza. Allorchè, nelle mie letture o nelle
mie fantasticherie, mi trovavo dinanzi alle figure delle antiche e
moderne ascete, splendenti nel loro candore di ghiaccio, non potevo non
ritenermi per un istante loro sorella.
Ricordo il mattino in cui mi giunse la rivista ov’era inserito fra
scritti importanti lo studio, per cui il dottore mi aveva pazientemente
aiutata in alcune rettificazioni. Il bimbo mi tolse il fascicolo
subito, scoperse la mia firma—non sapeva leggere, ma distingueva
la grafia de’ miei tre nomi—mi sorrise col piccolo sorriso savio e
luminoso che aveva ogni qualvolta considerava nel suo cervellino la
parola stampata. Era quel suo sorriso il premio, l’approvazione
quotidiana del mio sforzo. Pareva dicesse: «Io sento che tu lavori
anche per me, mamma, sento che tu fiorisci, ti espandi, vivi, e perciò
diventi forte e buona, e mi prepari un’esistenza forte e buona....»
Quel mattino risposi al sorriso di mio figlio con uno altrettanto
savio e luminoso. Era come se mi trovassi su di un’altura, col bambino
per mano, e contemplassi un paese smisurato e meraviglioso innanzi di
accingermi a traversarlo, sicura delle mie forze. Dietro e intorno,
nulla. Nel vago e pur imperioso presentimento del futuro una pace
assoluta, un riposante oblìo dominavano.
* * * * *
Qualche settimana dopo mio marito venne a casa tutto preoccupato. Io
avevo ricevuto il dì stesso una lettera d’una scrittrice illustre che
mi invitava a collaborare in un periodico femminile che stava per
fondare, incaricata da una nuova Società editrice. Mi si offriva un
modesto compenso. Speravo vederlo rallegrarsi. Al contrario mi intimò
di tacere. Egli aveva saputo che l’ingegnere fidanzato di mia sorella,
aveva subìta una perquisizione. In quel momento un’onda di reazione
percorreva l’Italia. Mio marito cercò la rivista che portava il mio
articolo, alcune lettere di antichi e nuovi corrispondenti che me ne
complimentavano, e buttò tutto sul fuoco: vi aggiunse un mucchio di
giornali e di riviste; indi si mise a frugare tra le mie carte....
Quell’ora emerge nella mia memoria fra le più amare e insieme le più
profonde della mia vita: notando la meschinità della creatura a cui ero
aggiogata, e vedendomi così definitivamente divisa in ispirito e sola,
sentii il brivido che incutono certi spettacoli in cui il grottesco si
mescola al sublime.
Passato quel panico, continuai a scrivere e a pubblicare. Cominciavo a
ricevere echi delle mie idee in lettere e in articoli. Un professore
italiano, riparato di recente in Svizzera, aveva iniziato meco una
corrispondenza attiva. Sotto i suoi auspici una giovane dottoressa
veneziana mi aveva pure scritto e un’amicizia epistolare s’era presto
annodata fra i nostri due spiriti ferventi. La mia immaginazione
si popolava di figure disparate, che prendevano curiose fisionomie
nell’indeterminatezza dei contorni. Di taluni de’ miei corrispondenti
non tentavo neppure di foggiarmi l’immagine nella mente: uno scienziato
genovese, ad esempio, tutto dedito alla propaganda morale fra i
marinai, era riuscito a divenirmi carissimo e oggetto di culto devoto,
senza che pensassi di conoscere nulla della sua vita privata, della sua
età. Di altri, di certi giovani che pubblicavano articoli o versi negli
stessi periodici in cui collaboravo, vedevo invece subito i visi timidi
o fatui. Le donne mi destavano maggior curiosità: le avrei desiderate
tutte belle; talune mi mandarono i loro ritratti, e questi erano
davvero tutti graziosi....
Sorelle?
Chi sa! Qualche rapida delusione mi pose in guardia. Via via
intravvedevo lo stato delle donne intellettuali in Italia, e il
posto che le idee femministe tenevano nel loro spirito. Con stupore
constatavo ch’era quasi insignificante; l’esempio, in verità, veniva
dall’alto, dalle due o tre scrittrici di maggior grido, apertamente
ostili—oh ironia delle contraddizioni!—al movimento per l’elevazione
femminile. Di ideali d’ogni specie, d’altronde, tutta l’opera
letteraria muliebre del paese mi pareva deficiente: grandi frasi vuote,
senza nesso e senza convinzione. E nell’azione anche, com’eran rare le
donne! La maggior parte straniere.
Le giovanissime, provviste di titoli accademici, avevano quasi disdegno
per la conquista dei diritti sociali. Fra queste era la mia nuova amica
di Venezia, singolare ingegno critico. Fra le attempate più d’una mi
lasciò indovinare d’essere stata torturata e logorata dalla vita; e
apertamente mi esortavano a non gettarmi nella mischia, a temperare i
miei entusiasmi, a perseguire qualche puro sogno d’arte se proprio non
mi bastava l’amore del mio bimbo e del mio nido. Sincere, certo. Le
loro lettere mi lasciavano perplessa.
Mio figlio, piccolo psicologo inconsapevole, afferrava sul mio volto
le sfumature della tristezza e della serenità, taceva quando mi vedeva
assorta, corrugava le ciglia allorchè percepiva malumore fra suo
padre e me.... Io gli rappresentavo tutto ciò che di migliore egli
conosceva in fatto d’umanità: ero la più savia, la più buona delle
creature; perfino i miei momenti di collera, quei momenti rari che mi
rimproveravo e che eran provocati dal permanente squilibrio fisico, non
suscitavano il minimo moto di rancore nel piccolo spirito; egli doveva
dirsi sempre che la mamma _aveva ragione_; e quasi sempre mi chiedeva
perdono, tremando non per la punizione ricevuta ma per lo spettacolo
del mio dolore.... Povero figliuolo mio, povero bimbo adorato! Per due
anni la sua infanzia fu veramente radiosa: egli potè accumulare tanto
vigore di vita quale di solito un fanciullo non giunge a possedere. Era
una forza oscura che prevedeva il futuro e preparava in lui nei limiti
del possibile il riparo?
Due anni. Come richiamare in frammenti quel periodo singolare? Io
andavo, col mio bimbo per mano, lungo le deserte strade maestre, tutte
uguali, fiancheggiate di biancospini, fragranti nella primavera,
polverosi l’estate. Lontano emergeva una doppia catena di altezze,
colline dinanzi, dietro gli Appennini. Borgate in cima a qualche
poggio sì sporgevano, evocando il medio evo colle loro cinte merlate,
colle casette brune raggruppate intorno a qualche campanile aguzzo. La
campagna e il mare erano talora abbaglianti, talora cinerei; in certi
giorni il silenzio imperava, strano e dolce, in certi altri sembrava
che ogni filo d’erba, ogni goccia d’acqua affermasse la sua vita con
un susurro, e l’aria popolata di suoni diveniva come sensibile. Le
linee del paesaggio m’erano famigliari da tanti anni: come nell’epoca
della fanciullezza, io non analizzavo ciò che si stendeva dinanzi
agli occhi, non cercavo il segreto dell’armonia che m’inteneriva o
m’esaltava, che mi dava la sensazione del riposo o quello della forza,
che m’identificava a sè. Mi lasciavo avvolgere dal fascino misterioso
e semplice, e una riconoscenza appassionata mi fioriva nel cuore.
Ecco, venivano a me le manifestazioni profonde della vita della terra,
venivano finalmente integre e lucide, capaci di significare il pianto,
il sorriso, l’amore, la morte. Non era troppo tardi.
Il mio passato m’appariva ornai come ordinato da un volere
spietatamente saggio. Tutto non vi sembrava posto, difatti, per la
preparazione dell’avvenire?
Pur non vedevo distintamente quest’avvenire. E senza direzione chiara,
i miei tentativi progredivano disordinati. Che cosa desideravo
diventare? Giornalista, no: cominciavo a sentir la quasi totale
inutilità di quello sparpagliamento di idee incomplete. Artista? Non
osavo neppure pensarci, esagerando la mia incoltura, la mia mancanza di
fantasia, la mia incomprensione della bellezza....
Un libro, _il libro_.... Ah, non vagheggiavo di scriverlo, no! Ma mi
struggevo, certe volte, contemplando nel mio spirito la visione di
quel libro che sentivo necessario, di un libro d’amore e di dolore,
che fosse straziante e insieme fecondo, inesorabile e pietoso, che
mostrasse al mondo intero l’anima femminile moderna, per la prima
volta, e per la prima volta facesse palpitare di rimorso e di desiderio
l’anima dell’uomo, del triste fratello.... Un libro che recasse
tradotte tutte le idee che si agitavano in me caoticamente da due
anni, e portasse l’impronta della passione. Non lo avrebbe mai scritto
nessuno? Nessuna donna v’era al mondo che avesse sofferto quel ch’io
avevo sofferto, che avesse ricevuto dalle cose animate e inanimate
gli ammonimenti ch’io avevo ricevuto, e sapesse trarre da ciò la pura
essenza, il capolavoro equivalente ad una vita?


XIV.

Un pomeriggio vidi rientrare in casa inaspettatamente mio marito
stravolto in viso, brutto a vedersi come diveniva ogniqualvolta gli si
scatenavano nell’animo le sue passioni primitive. Era venuto a diverbio
con mio padre e aveva abbandonato l’ufficio dichiarando che non vi
sarebbe rientrato mai più.
Una visione remota mi si affacciò alla memoria: mio padre, il giorno in
cui aveva lasciato il suo posto a Milano. Com’egli era sereno, quasi
ilare di trovarsi di fronte ad un avvenire ignoto ma libero!
Dalla stessa calma, quasi da letizia, mi sentivo invasa io, adesso,
mentre mio marito mal celava il suo rammarico, non di aver offeso il
padre di sua moglie, l’uomo a cui doveva tutto, ma di essersi rovinata
la situazione.
La cosa era irreparabile. Mio padre non avrebbe certo perdonato.
L’apparente sua indifferenza verso i figli sembrava si trasformasse
da qualche tempo in un rancore più e più amaro, smanioso di sfogo.
Forse era per l’influenza della donna colla quale egli passava la
maggior parte del tempo libero dalle occupazioni della fabbrica.
Forse sospettava che noi ci ritenessimo defraudati del denaro ch’egli
spendeva largamente per quella famiglia. In verità io esitavo ancora
nel giudicarlo: mi dicevo ch’egli doveva soffrire dal suo canto
essendosi lasciato sfuggire per sempre il cuore delle sue creature;
ch’egli non era ancora abbastanza lontano dal suo passato di fervore
intellettuale e di tenerezza per non averne un’istintiva nostalgia.
Certe rare volte, nel suo giardino, per qualche accenno ai miei
articoli, di cui sentiva parlare, si dava a discutere, andando da una
pianta all’altra, e mi suscitava ad istanti il ricordo degli anni
infantili, delle suggestive lezioni tra i fiori e le erbe. Mi guardava
con i piccoli occhi dai bagliori metallici, e pareva domandarmi se non
trovavo in lui ancora qualcosa di superiore a tutto ciò che conoscevo;
e uno struggimento angoscioso, una paura indefinibile mi afferrava....
Che misterioso, imperscrutabile avvertimento la vita di quell’uomo!
Quando mio marito vide che, nè spontaneamente, nè in seguito alle
sue ritrattazioni, mio padre lo richiamava, un’onda di disperazione
lo avvolse. Evidentemente non aveva mai fatta l’ipotesi di un simile
avvenimento.
Mi trovavo dunque ad uno svolto del cammino?
Il problema della sussistenza mi lasciava tranquilla; ero stata
abituata da bimba a pensare che chi ha volontà trova sempre di che
vivere e che qualunque lavoro è dignitoso. Ma l’idea di lasciare il
paese stentava a penetrare in mio marito: egli era senza diplomi, quasi
senza denaro, e non più giovane: malgrado l’alto concetto che sempre
avea dimostrato avere di sè, tremava....
E tuttavia sentivo ch’era inevitabile la mia liberazione da
quell’ambiente. Finita l’acquiescenza, per cui da qualche tempo mi
rimproveravo, allo sfruttamento che mio padre esercitava sugli operai
e che mio marito giustificava! Ora mi pareva di riacquistar dignità:
respiravo più tranquilla sopratutto riguardo a mio figlio. Lontano!
Egli avrebbe potuto dimenticare quel luogo che era stato così nefasto a
sua madre, ove tanti malvagi esempî contrastavano alle mie parole!
Lasciai un giorno intravedere questo mio senso di gioia all’amico
dottore. Egli mi guardò, tacque. Dinanzi a quel silenzio provai una
punta al cuore.
Appariva stanco, sfibrato. In paese serpeggiava il tifo, ed egli
andava, dal mattino alla sera, dall’una all’altra casetta di povera
gente, con la persona un po’ curva; la voce sempre un po’ velata di
tristezza doveva dare agli infermi la speranza, doveva confondersi coi
suoni aleggianti intorno a chi muore o teme di morire. E veniva di rado
a trovarmi.
Per alcune settimane si visse così, incerti. Cercar un impiego in
qualche città pareva a mio marito umiliante. Ci rimaneva l’assegno
di mio padre. Ma col congedo dalla fabbrica restava sospeso pure il
lavoro mio di contabilità e il compenso mensile. Come avrei potuto d’or
innanzi adoperare la mia attività per sostenere il bilancio famigliare?
Cedetti a un’ispirazione improvvisa un mattino che mio figlio,
recandomi la posta, ne aveva estratto un fascicolo e me l’aveva pòrto
prima degli altri, col suo fare di piccolo uomo informato riguardo alle
mie predilezioni.
Era infatti una rivista milanese che amavo. Il direttore, un vecchio
combattente della libertà, aveva «lanciato» generosamente più d’un
giovine ingegno, e a me stessa inviava ogni tanto sollecitazioni
affettuose, perchè mi affermassi con qualche lavoro più solido che non
i brevi articoli ch’egli mi pubblicava con premura.
Gli scrissi esponendo le necessità sopravvenutemi.
Egli mi rispose dopo alcuni giorni che nulla avrei potuto fare a
Milano, ma che aveva scritto subito a un editore di Roma, il quale
aveva fondato di recente un periodico femminile. Ricevetti infatti
ben presto una nuova lettera dalla romanziera che m’aveva scritto
mesi avanti, in cui si diceva molto dolente ch’io non avessi ricevuto
la prima, perchè m’avrebbe allora offerto un posto di redattrice
ch’era ora occupato. Nondimeno ella poteva farmi assegnare un piccolo
stipendio per lavori secondari, i quali richiedevano la mia presenza a
Roma, ma non un orario d’ufficio. Ricevevo insieme i numeri di _Mulier_.
L’aspetto della rivista era simpatico, ma con un’impronta di leggerezza
che mi sconfortò alquanto. Il programma aveva alcuni passi eccellenti:
«Lasciate che finalmente anche le donne dicano qualcosa di sè stesse.
Gli uomini fanno dei panegirici o delle requisitorie. Gli uni, anche
alti intelletti e anime profonde, hanno un astio involontario, perchè
la donna, oggi poco intelligente, non li cerca e non li ammira; gli
altri pretendono conoscere la donna perchè hanno fatto molte esperienze
e molte vittime. Costoro non hanno avuto il tempo di conoscerne anche
una sola: conoscono come si vincono i sensi di molte e come si può
trarre da esse il maggior piacere. Niente altro.
«In realtà _la donna_ è una cosa che esiste solo nella fantasia degli
uomini: ci sono _delle donne_, ecco tutto.»
L’articolo, non firmato, era certo della romanziera illustre, che
non aveva ancora creati dei tipi di donna veramente individuali, ma
che forse avrebbe potuto ritrarne qualcuno dei non rari che oggi
incominciano a farsi notare. Esso concludeva: «Noi non promettiamo
molto più di quello che avete sempre veduto: non domandateci troppo.
L’ideale della donna non lo troverete formato di tutto punto in questa
rivista più che non lo troviate nella vita. Noi vogliamo soltanto
aiutare a trarlo fuor dalle nuvole dell’utopia e metterlo innanzi alle
donne d’oggi».
Ma veramente di questo ideale c’era poco nella rivista. Un articolo
d’arte, il profilo di un’attrice, con varie pose, ritratti di duchesse
scollate, resoconti d’avvenimenti sportivi, di feste benefiche, un
articolo d’igiene. Una rubrica dell’estero era la sola parte del
giornale in cui si discuteva di femminismo.
Parlai dell’offerta, senza entusiasmo, a mio marito. Egli sfogliò
accuratamente i fascicoli, rimase a lungo dubbioso. Non temeva per il
colore della rivista, che gli pareva abbastanza temperato, ma pensava
che ci saremmo trovati troppo in soggezione in quell’ambiente di
mondanità. Si tranquillò soltanto quando gli feci osservare che io
potevo lavorare in casa, rimanere isolata. Occorreva risolvere subito.
Che cosa avrebbe potuto egli fare a Roma? Finì per appigliarsi a un
partito che gli pareva facilmente attuabile. Andò da alcuni proprietari
del luogo ed espose il progetto di avviare il commercio dei loro
prodotti a Roma e all’estero. Aderirono molti. Non occorreva un forte
capitale, qualche migliaio di franchi soltanto, per cominciare. Sua
madre, gemendo, glieli promise.
* * * * *
Proprio il giorno avanti la decisione, il dottore s’era posto a letto.
Lo sapevamo estenuato dalla fatica; credemmo si trattasse di una crisi,
forse benefica, e nessuno si impensierì. Soltanto, io mi dolevo che in
quell’ora grave mi mancasse il suo consiglio. E pensavo che oltre alle
mie sorelle egli era il solo per cui avrei sofferto nella mia partenza
dal paese.
Una settimana dopo egli era morto.
Il meningo-tifo, manifestatosi improvviso e violento, aveva atterrato
l’uomo gracile che pareva covare da alcun tempo la morte. Dall’oggi al
domani l’intelletto s’era oscurato, e il corpo aveva lottato, solo, per
alcuni giorni, contro il progressivo sfacelo.... Nessuno poteva credere
alla realtà. L’agonia durò un giorno e una notte; era al capezzale
la madre settantenne, accorsa quando il male s’era manifestato
invincibile; una donna cui i capelli d’argento davano qualcosa
d’augusto, mentre sulle labbra le errava un sorriso di bimba ingenua.
Tempra eccezionale, ella aveva già composto nell’estremo sonno un
figliuolo di vent’anni, soldato; assisteva costantemente il marito
minacciato da paralisi cardiaca, amministrava il patrimonio complicato
della famiglia dispersa; rappresentava il sacrificio attivo e semplice,
incurante d’ogni critica interiore, pago d’una salda speranza
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