Una Donna - 01

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NOTE DEL TRASCRITTORE
—Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.
—L’indice non è presente nell’opera originale; ne è stato prodotto ed
aggiunto uno a cura del trascrittore.


SIBILLA ALERAMO
UNA DONNA
ROMANZO
Terza edizione-25.º Migliaio
[Illustration: LOGO]
FIRENZE
R. BEMPORAD & FIGLIO, EDITORI
MCMXXI

PROPRIETÀ LETTERARIA
DEGLI EDITORI R. BEMPORAD & FIGLIO
_I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti
i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda._
Copyright 1921 by R. Bemporad & F.
1921-Firenze, Stab. G. Spinelli & C., Via S. Reparata, 89


INDICE

PARTE PRIMA
CAP. PAG.
I. 3
II. 15
III. 29
IV. 48
V. 59
VI. 71
VII. 84
VIII. 91
IX. 107
PARTE SECONDA
X. 121
XI. 131
XII. 143
XIII. 152
XIV. 161
XV. 171
XVI. 180
XVII. 194
XVIII. 210
XIX. 225
PARTE TERZA
XX. 241
XXI. 262
XXII. 281


PARTE PRIMA.


I.

La mia fanciullezza fu libera e gagliarda. Risuscitarla nel ricordo,
farla riscintillare dinanzi alla mia coscienza, è un vano sforzo.
Rivedo la bambina ch’io ero a sei, a dieci anni, ma come se l’avessi
sognata. Un sogno bello, che il menomo richiamo della realtà presente
può far dileguare. Una musica, fors’anche: un’armonia delicata e
vibrante, e una luce che l’avvolge, e la gioia ancora grande nel
ricordo.
Per tanto tempo, nell’epoca buia della mia vita, ho guardato a quella
mia alba come a qualcosa di perfetto, come alla vera felicità. Ora,
cogli occhi meno ansiosi, distinguo anche ne’ miei primissimi anni
qualche ombra vaga e sento che già da bimba non dovetti mai credermi
interamente felice. Non mai disgraziata, neppure; libera e forte, sì,
questo dovevo sentirlo. Ero la figliuola maggiore, esercitavo senza
timori la mia prepotenza sulle due sorelline e sul fratello: mio padre
dimostrava di preferirmi, e capivo il suo proposito di crescermi
sempre migliore. Io avevo salute, grazia, intelligenza—mi si diceva—e
giocattoli, dolci, libri, e un pezzetto di giardino mio. La mamma non
si opponeva mai a’ miei desiderî. Perfino le amiche mi erano soggette
spontaneamente.
L’amore per mio padre mi dominava unico. Alla mamma volevo bene, ma
per il babbo avevo un’adorazione illimitata; e di questa differenza mi
rendevo conto, senza osare di cercarne le cause. Era lui il luminoso
esemplare per la mia piccola individualità, lui che mi rappresentava la
bellezza della vita: un istinto mi faceva ritenere provvidenziale il
suo fascino. Nessuno gli somigliava: egli sapeva tutto e avea sempre
ragione. Accanto a lui, la mia mano nella sua per ore e ore, noi
due soli camminando per la città o fuori le mura, mi sentivo lieve,
come al disopra di tutto. Egli mi parlava dei nonni, morti poco dopo
la mia nascita, della sua infanzia, delle sue imprese fanciullesche
meravigliose, e dei soldati francesi ch’egli, a otto anni, avea visto
arrivare nella sua Torino, «quando l’Italia non c’era ancora». Un tale
passato aveva del fantastico. Ed egli m’era accanto, con l’alta figura
snella, dai movimenti rapidi, la testa fiera ed eretta, il sorriso
trionfante di giovinezza. In quei momenti il domani mi appariva pieno
di promesse avventurose.
Il babbo dirigeva i miei studi e le mie letture, senza esigere da
me molti sforzi. Le maestre, quando venivano a trovarci a casa,
lo ascoltavano con meraviglia e talvolta, mi pareva, con profonda
deferenza. A scuola ero tra le prime, e spesso avevo il dubbio d’avere
un privilegio. Sin dalle prime classi, notando la differenza dei
vestiti e delle refezioni, m’ero potuto formare un concetto di quel che
dovevano essere molte famiglie delle mie compagne: famiglie d’operai
gravate dalla fatica, o di bottegai grossolani. Rientrando in casa
guardavo sull’uscio la targhetta lucente ove il nome di mio padre era
preceduto da un titolo. Non avevo che cinque anni allorchè il babbo,
che insegnava scienze nella cittaduzza ov’ero nata, s’era dimesso
in un giorno d’irritazione e s’era unito con un cognato di Milano,
proprietario d’una grossa casa commerciale. Io capivo che egli non
doveva sentirsi troppo contento della sua nuova situazione. Quando lo
vedevo, in qualche pomeriggio libero, entrare nello stanzino ov’erano
raccolti un poco in disordine alcuni apparecchi per esperienze di
fisica e di chimica, comprendevo che là soltanto si trovava a suo agio.
E quante cose mi avrebbe insegnato il babbo!
Senz’essere impaziente, la mia curiosità dava un sapore acuto
all’esistenza. Non m’annoiavo mai. Spesso rifiutavo d’accompagnar
la mamma a qualche visita e restavo a casa, sprofondata in un gran
seggiolone, a leggere i libri più disparati, sovente incomprensibili
per me, ma dei quali alcuni mi procuravano una specie d’ebbrezza
dell’immaginazione e mi astraevano completamente da me stessa. Se
m’interrompevo, era per formular pensieri confusi; e lo facevo talora
a voce sommessa, come scandendo dei versi che una voce interiore mi
suggerisse. Arrossivo; come arrossivo di certe pose languide che
assumevo nella stessa poltrona, quando mi accadeva per un attimo
di trasportarmi colla fantasia nei panni d’una bella dama piena di
seduzioni. Potevo distinguere tra affettazione e spontaneità? Mio padre
giudicava con una indifferenza un poco sprezzante ogni manifestazione
di pura poesia: diceva di non capirla: la mamma, sì, ripeteva ogni
tanto qualche strofa carezzevole e nostalgica, o modulava colla voce
appassionata spunti di vecchie romanze; ma sempre quando il babbo non
c’era. E sempre io ero disposta a credere che mio padre avesse ragione
più di lei.
Ciò anche quando egli prorompeva in una di quelle crisi di collera
che ci facevan tremar tutti e mi piombavano in uno stato d’angoscia,
rapido, ma indicibile. La mamma reprimeva le lagrime, si rifugiava in
camera. Sovente, dinanzi al babbo, ella aveva un’espressione umiliata,
leggermente sbigottita: e non solo per me, ma anche pei bambini, tutta
l’idea d’autorità si concentrava nella persona paterna.
Diverbî gravi tuttavia non avvenivano fra loro due in nostra presenza:
qualche parola acre, qualche rimprovero secco, qualche recisa
ingiunzione; al più il babbo si abbandonava al proprio temperamento di
fuoco per qualche disavvedutezza delle persone di servizio, per qualche
capriccio nostro: ma di tutto appariva responsabile la mamma, che
reclinava il capo come se fosse colpita all’improvviso da una grande
stanchezza, o sorrideva, d’un certo sorriso che non potevo sostenere,
perchè deformava la bella bocca rassegnata.
Si rivolgeva ella in quel punto a visioni del passato?
Non rievocava quasi mai davanti a me la sua fanciullezza, la sua
gioventù; dal poco che avevo sentito, però, avevo potuto formarmene
una visione assai meno interessante di quella suscitata dai ricordi di
mio padre. Ella era nata in un ambiente modestissimo d’impiegati, e,
come la mia nonna paterna, sua madre aveva avuto molti figliuoli, di
cui la maggior parte viveva sparsa pel mondo. Doveva esser cresciuta
fra le strettezze, poco amata. Cenerentola della casa. A vent’anni, ad
una festicciola da ballo, s’era incontrata col babbo. Ella mi mostrava
il ritratto del giovinetto imberbe che mio padre era stato allora:
fattezze ancor da fanciullo, dolci, regolari, fra cui gli occhi soli
esprimevano già un’energia ferrea: egli faceva il penultimo anno di
Università. Appena presa la laurea, aveva ottenuto una cattedra e
s’erano sposati.
Quand’io ero nata, l’anno non era ancor compiuto dal dì delle nozze.
La mamma s’illuminava nel volto bianco e puro le rarissime volte che
accennava alle due stanzine coi mobili a nolo dei primi mesi di vita
coniugale. Perchè non era sempre così animata? Perchè era così facile
al pianto, mentre mio padre non poteva sopportare la vista delle
lagrime, e perchè mostrava opinioni diverse tanto spesso da quelle di
lui, quando osava esprimerle? Perchè, anche, era così poco temuta da
noi bambini, e così poco ubbidita? Come il babbo, anch’ella cedeva
talvolta a momenti di collera; ma sembrava, allora, che rompesse in un
singhiozzo troppo a lungo frenato.... Io avevo la sensazione che lo
sfogo, anche eccessivo, di mio padre, fosse naturale sempre, inerente
al suo temperamento; nella mamma invece gli scoppi di malumore contro i
figliuoli o le cameriere contrastavano dolorosamente colla sua natura
dolce; si palesavano come un accesso spasmodico di cui ella stessa
aveva coscienza, nell’atto, e rimorso.
Quante volte ho visto brillare per una lagrima rattenuta i begli occhi
profondi e bruni di mia madre! Saliva in me un disagio invincibile, che
non era pietà, non era dolore neppure, e neppure reale umiliazione,
ma piuttosto un oscuro rancore contro l’impossibilità di reagire, di
far che non avvenisse ciò che avveniva. Che cosa? Non sapevo bene.
Verso gli otto anni avevo come lo strano timore di non possedere una
mamma «vera» una di quelle mamme, dicevano i miei libri di lettura,
che versano sulle figliuolette, col loro amore, una gioia ineffabile,
la certezza della protezione costante. Due, tre anni dopo, a questo
timore succedeva in me la coscienza di non riuscire ad amar mia madre
come il mio cuore avrebbe desiderato. Era questo, certo, che m’impediva
d’indovinare la vera cagione per cui nella nostra casa si proiettava,
perenne, un’ombra indefinibile ad impedire così spesso la libera
fioritura del sorriso. Oh, poter gettarmi una volta al suo collo con
abbandono assoluto, sentirmi capita da lei, anche prometterle il mio
appoggio per quando sarei grande; stringere un patto di tenerezza, come
avevo fatto tacitamente col babbo da tempo immemorabile!
Ella mi ammirava in silenzio, riportando su me un poco dell’orgoglio
già provato per la balda energia dello sposo; ma non approvava il
metodo d’educazione a cui mi assoggettavo con tanto fervore; temeva
per me, immaginando certo che io crescessi senza sentimento, ch’io
fossi destinata a vivere col solo cervello; e non aveva il coraggio di
contrastare apertamente l’opera del babbo.
Ma neppure il babbo cercava di conoscermi per intero. Certe volte
mi sentivo proprio sola. M’avvolgeva allora uno di quegli stupori
meditativi che costituivano il secreto valore della mia esistenza.
Spuntava il pudore dell’anima. Accanto, parallela alla vita esteriore,
una vita occulta a tutti si approfondiva. Ed io avvertivo questo
dualismo. Fin dal primo anno di scuola mi aveva preoccupata il fatto
di due diversi aspetti del mio essere: a scuola tutti mi trovavano
angelica, ed ero buona ed esemplare infatti, col visino tranquillo ove
errava sempre un sorriso timido e vivido insieme; appena fuori, nella
strada, sembrava ch’io aspirassi tutta l’aria intorno, mi mettevo a
saltare, a parlare a vanvera, e in casa entrava con me il terremoto:
i fratellini cessavano dai loro giuochi placidi, pronti a’ miei cenni
d’autocrate ostinata.
Sopraggiunta l’ora di preparar còmpiti e lezioni, mi ritiravo nella
mia stanzetta o in un angolo del giardino, e di nuovo non esistevo
più per gli altri, di nuovo afferrata dal gusto dell’applicazione
intellettuale, pur senza alcuna brama di emular compagne o di meritarmi
premi. Poi, la sera, dopo che la mamma m’aveva fatto recitare nel
nostro caro dialetto due parole di preghiera: «Signore, fatemi
diventare grande e brava, a consolazione dei miei genitori» e m’aveva
lasciata al buio nel letto ove mia sorella già dormiva, io provavo una
sensazione di riposo, di benessere, non soltanto fisico, come se in
quel momento, costretta all’oscurità, al silenzio ed alla immobilità,
fossi più libera che durante tutta la giornata.
Mi piaceva guardar nelle tenebre; non ne avevo paura, perchè il babbo
m’aveva assicurata sin da quando ero piccina che gli orchi e le streghe
delle favole non sono mai esistiti, come non era mai esistito il
«diavolo». Riandavo con la mente i piccoli casi del giorno: rivedevo
il sorriso seduttore del babbo, un gesto di sconforto delle mani
materne, riprovavo qualche stizza per certe goffaggini de’ miei minori,
mi soffermavo alquanto sulle prospettive del domani: esito d’esami,
viaggetti, libri e giuochi nuovi, amiche e maestre da conquistare....
La mamma mi faceva pregare ogni sera. Pregare Dio....
Un giorno, facevo la seconda elementare, avevo udito rivolgere il
titolo di «ebrea», sprezzantemente, ad una piccola compagna silenziosa
e pallida che stava seduta nel banco accanto al mio. Ella era scoppiata
in pianto, e la maestra, saputo il perchè, aveva pronunziato frasi
severe. La cosa mi aveva riempita di stupore, poichè non sapevo nulla
ancora di razze e di religioni diverse. Ma più mi aveva colpita una
parola della maestra: ella aveva detto che tutte le religioni portano
l’uomo dinanzi a Dio, e che tutte perciò son degne di rispetto; che un
solo essere suscita ribrezzo e insieme pietà, ed è l’_ateo_. Mio padre
mi si era allora rizzato davanti alla mente: mio padre era ateo, io ne
ero ben sicura; quella parola egli stesso l’avea pronunciata talora;
egli non andava mai in chiesa.... Dunque mio padre, per la maestra, per
le compagne, per tutta la gente, era una creatura disprezzabile?
Tre, quattro anni dopo, nel silenzio della mia stanzetta, io mi
rivolgevo ancora questa stessa domanda. Ora il babbo mi parlava più
spesso di quella ch’egli riteneva una menzogna secolare, mi diceva che
prima degli uomini vi erano sulla terra degli animali quasi simili
a noi, che prima di essi e delle piante la terra era deserta, e che
questa terra è nello spazio un piccolo punto come sembrano a noi le
stelle nel cielo, e le stelle altrettanti mondi, forse viventi.... Egli
diceva queste cose straordinarie con tanta naturalezza, che io non
potevo metterle in dubbio.
Tuttavia, egli non mi spiegava—nè io ardivo mai domandargliene—perchè
noi siamo in questo mondo. Da questo lato il catechismo della scuola
era forse più soddisfacente: Dio ci ha creati, Dio ci guarda dall’alto,
Dio, se saremo buoni, ci farà andare in Paradiso.... La vita non
sarebbe che un passaggio.
Ma quanta importanza davano tutti a questo passaggio! Mi pareva che
nessuno pensasse sul serio all’inferno, e che tutti avessero invece
paura di farsi del male, d’ammalare, di morire. Per me, ero disposta a
credere col babbo che l’inferno non esistesse: nessun angelo e nessun
tentatore sentivo mai alle mie spalle: quand’ero savia, era perchè lo
volevo; quando, avevo dei rimorsi, ero persuasa d’essere stata proprio
io la colpevole. E allora...? Dal mattino alla sera la mamma, il babbo,
le maestre, gli operai per la strada, tutti, insomma, anche i gran
signori.... chi guadagna soldi, chi li spende: si spende per mangiare;
si mangia per non morire; e passano le settimane, i mesi, gli anni, e
si muore, e io e i fratellini avremmo fatto lo stesso....
La cosa m’infastidiva. Il sonno stava per sopraggiungere, lo sentivo:
l’indomani avrei ripreso l’inutile meditazione. Sapere, sapere! Nel
dormiveglia mi si affollavano al cervello parole piene di mistero:
«eternità», «progresso», «universo», «coscienza».... Danzavano
all’orecchio e ne smarrivo perfino il suono. E ancora, rivedevo
l’espressione compunta di qualche maestra, mi chiedevo se la mamma
andava alla messa, la domenica, proprio per suo piacere o per qualche
strano timor della gente, ricordavo la prima ed unica volta che avevo
assistito ad una predica, nel mese di maggio, una sera in cui l’altare,
in una grande chiesa, brillava fra i ceri ed i gigli. Dal pulpito il
frate agitava un braccio con gesto ampio e la voce imperiosa discendeva
sulla folla inginocchiata: raccontava dei miracoli d’un santo, e
pareva che tutti gli credessero: alla fine, l’organo aveva incominciato
a suonare, e dall’alto, invisibile, un coro, una pura onda d’argento,
aveva intonato delle laudi.... Sempre, a quel ricordo, qualcosa in me
tremava come in quel punto: m’assaliva dì repente la tristezza di non
saper pregare nè cantare, e più acuto il senso della mia solitudine.
Poi tutto ciò dileguava. Perchè dolermi? Ero piccola, ma non avrei
voluto essere ingannata: dovevo crescere: avrei saputo, un giorno.
La sorellina, accanto a me, respirava tranquilla. Forse sognava una
casa di cristallo per la sua bambola, una casa che io le avevo promesso
una volta, perchè mi lasciasse maggiore spazio nel nostro letticciuolo.
Non ero punto certa di poter soddisfare l’impegno! Mah.... quando sarei
grande! Allora avrei anche voluto più bene alle bambine e al fratello,
non li avrei più fatti piangere; e avrei vista la mamma finalmente
lieta....
Ora bisognava dormire. Avevo il capo un poco stanco. Desideravo per
un momento di esser trasportata con un soffio su uno di quei pendii
verdi che formavano la mia delizia, l’estate, in campagna. Suonavano da
lontano, mi chiamavano tante campanelle....

II.
Un mattino io mi chiedevo che risoluzione si sarebbe presa circa il
proseguimento dei miei studi, poi che avevo terminata la quinta classe,
quando il babbo rientrò in casa un’ora prima del consueto, seguìto dal
fattorino dell’ufficio che portava una cassetta sulle spalle. Congedato
l’uomo, mio padre mi alzò un istante fra le braccia fino al suo viso,
poi mi posò, e alla mamma che l’interrogava collo sguardo ansioso,
disse: «È finita.... ho troncato tutto. Finalmente respiro!»
Da parecchio tempo i due soci si sopportavano a vicenda con sempre
minor buona volontà. I due temperamenti opposti non riuscivano a
conciliarsi, poichè l’uno provocava iniziative ardite, l’altro badava
a stringere i freni. Il babbo d’altronde si annoiava in quella vita
d’ufficio, metodica, che non gli dava neppure compensi materiali
ragguardevoli. Un piccolo incidente aveva, quel mattino, provocata una
scena vivace fra i due cognati, decisiva.
A trentasei anni mio padre si trovava a ricominciare la vita per
la seconda volta, e ancora per la sua sete di emozioni nuove e di
indipendenza.
Quel mattino stesso usci con me a passeggiare lungamente: ho confusa la
visione dell’immensa Piazza d’Armi che attraversammo sotto una leggera
nebbia autunnale; il babbo parlava, quasi a sè stesso; io sentivo il
mio piccolo essere esaltarsi tacitamente. L’America, l’Australia....
Oh, se veramente il babbo ci portasse pel mondo! Egli accennava anche
a probabilità meno avventurose: tornare all’insegnamento, impiantare
qualche azienda; ma sempre fuori di Milano. La città che fino a quel
giorno avevo amata, pur senza dirmelo, ora mi appariva insopportabile:
chi sa quali altri incanti mi attendevano altrove! E mi sembrava
d’essere all’improvviso cresciuta d’anni e d’importanza. Non mi
prendeva il babbo forse a sua confidente? I progetti sul mio prossimo
avvenire di studentella svaporavano. Forse avrei dovuto lavorare
anch’io, aiutar la famiglia.... Figgevo in viso a mio padre gli occhi,
nei quali doveva correre una fiamma d’entusiasmo.
A casa, la mamma era invece come smarrita, Di che cosa temeva? Era
giovane anch’ella, più giovane del babbo; noi bambini eravamo tutti
sani e forti.... Anche il babbo certo avrebbe voluto vederla più
ardimentosa!
Ella non apparve sollevata neppure qualche settimana dopo, allorchè un
signore che voleva stabilire un’industria chimica in una cittaduzza
di Mezzogiorno, offrì la direzione dell’impresa a mio padre. Certo,
questi osava molto accettando un genere di lavoro al quale era affatto
nuovo. Ma il suo bel sorriso sicuro aveva sedotto il capitalista.
Le condizioni dell’impiego erano ottime; il paese, laggiù, pieno di
sole. Per qualche anno. Mio padre non amava guardare molto innanzi
nell’avvenire. Pel momento si sentiva felice del rischio. E non curando
i timori della mamma, decise la partenza per la primavera.
* * * * *
Sole, sole! Quanto sole abbagliante! Tutto scintillava, nel paese
dove io giungevo: il mare era una grande fascia argentea, il cielo un
infinito riso sul mio capo, un’infinita carezza azzurra allo sguardo
che per la prima volta aveva la rivelazione della bellezza del mondo.
Che cos’erano i prati verdi della Brianza e del Piemonte, le valli e
anche le Alpi intraviste ne’ miei primi anni, e i dolci laghi ed i
bei giardini, in confronto di quella campagna così soffusa di luce,
di quello spazio senza limite sopra e dinanzi a me, di quell’ampio e
portentoso respiro dell’acqua e dell’aria? Entrava ne’ miei polmoni
avidi tutta quella libera aria, quell’alito salso: io correvo sotto
il sole lungo la spiaggia, affrontavo le onde sulla rena, e mi pareva
ad ogni istante di essere per trasformarmi in uno dei grandi uccelli
bianchi che radevano il mare e sparivano all’orizzonte. Non somigliavo
loro?
Oh la perfetta letizia di quell’estate! Oh la mia bella adolescenza
selvaggia!
Avevo dodici anni. Nel paese, che si decorava del nome di città, non
esistevano scuole al disopra delle elementari. Un maestro chiamato a
darmi lezione fu presto congedato perchè incapace d’insegnarmi più di
quel che sapevo. Nelle ore calde del meriggio, sola nella stanzuccia
della vasta casa, che avevo eletta a mio studiolo, gettavo, ma senza
entusiasmo, qualche occhiata sui grossi manuali di fisica e di botanica
e sulle grammatiche straniere datemi dal babbo; uscivo sull’alto
balcone, guardavo giù nella piazza gli sfaccendati presso la farmacia
o dinanzi al caffè, qualche contadina oppressa da pesi inverosimili,
qualche ragazzo sudicio che inveiva contro qualche altro in un
linguaggio sonoro ed incomprensibile. In fondo alla piazza il mare
luceva. Due ore avanti il tramonto si disegnavano, lontane lontane,
le vele delle paranze di ritorno dalla pesca: s’avvicinavano, si
colorivano di rosso e di giallo, arrivavano una dietro l’altra, e il
tumulto delle voci dei pescatori giungeva spesso fino a me; distinguevo
il grido ritmico di quelli che traevano la barca alla riva.
Scendevo, mi recavo nel vasto recinto presso la strada ferrata, dove
lo stabilimento andava sorgendo con rapidità sorprendente e dove il
babbo passava quasi tutte le sue ore. Egli mi dava talvolta dei piccoli
ordini che eseguivo trepidando, con scrupolosa esattezza. «Mi aiuterai
anche più tardi, quando tutto sarà sistemato; sarai la mia segretaria,
vuoi?...» Lottava in me l’antica timidezza con un nuovissimo impulso
di audacia indipendente. Forse il babbo voleva compensarmi dell’aver
troncati gli studi. Una specie d’orgoglio anzi, inavvertito, mi
penetrava, la vaga coscienza di prender contatto colla vita, d’aver
dinanzi uno spettacolo, più vario e più interessante d’ogni libro.
Degli operai, de’ bei contadini abbronzati che venivano dalla campagna
ad offrirsi come manovali, delle ragazze che salivano agili sui ponti
di costruzione coi secchi di calce sul capo, mi sorridevano, ed io
sentivo verso di loro una curiosità piena di simpatia; ne ripetevo ai
fratellini i pittoreschi soprannomi, e mi chiedevo se avrei mai osato
essere per loro una padrona, come ero colla donna di servizio.
Il babbo, sì, si palesava uomo di comando, inflessibile e onnipossente,
meraviglioso d’attività e d’energia. Quando certe sere, dopo il pranzo,
uscivamo un po’ con lui, la mamma e noi figliuoli, per lo stradone
maggiore del paese, la gente ci osservava dalle soglie con un misto
di ammirazione e di timore. Trovavano alla mamma un viso da madonna,
e voci femminili le mormoravan dietro benedizioni per i suoi bambini.
Ella ringraziava col sorriso mite, piccola e fino nel vestito quasi
dimesso. Mi sembrava contenta anche lei, in quei momenti: era ne’ suoi
occhi come una riverenza verso il compagno rivestito così d’un nuovo
fascino.
Ricordo una mia fotografia dell’anno dopo. Ero già in fabbrica come
impiegata regolare. Indossavo un abbigliamento ibrido, una giacchetta
a taglio diritto, con tanti taschini per l’orologio, la matita, il
taccuino, sopra una gonnella corta. Sulla fronte mi si inanellavano,
tagliati corti, i capelli, dando alla fisionomia un’aria di ragazzo.
Avevo sacrificata la mia bella treccia dai riflessi dorati cedendo alla
suggestione del babbo.
Quel mio bizzarro aspetto esprimeva perfettamente la mia condizione
d’allora. Io non mi consideravo più una bimba, nè pensavo di esser già
una donnina: ero un individuo affaccendato e compreso dell’importanza
della mia missione; mi ritenevo utile, e la cosa mi dava una illimitata
compiacenza. In verità, portavo nell’esecuzione dei lavori che il
babbo m’aveva assegnato una lealtà assoluta e una forte passione.
M’interessavo quanto lui alle piccole e grandi vicende dell’azienda,
e mentre non mi annoiavo allineando cifre per ore e ore sui registri,
mi divertivo come ad un giuoco stando fra gli operai, osservandoli
nelle aspre fatiche e chiacchierando con loro durante gl’intervalli
di riposo. Eran molti, più di duecento; una parte, che veniva dal
Piemonte, si alternava ai forni giorno e notte, e gli altri, del paese,
si agitavano continuamente nei vasti cortili e sotto le tettoie. Tutta
quella gente non mi amava forse, ma certo sentiva piacere nel vedermi
comparire all’improvviso col mio piglio un po’ brusco; un piacere che
si traduceva in atteggiamenti più spigliati, più conformi all’ideale
del lavoro giocondamente accettato. Mi trovavano giusta, assai più di
mio padre, e cercavano accaparrarsi la mia benevolenza con ingenue
adulazioni, perchè io influissi a loro vantaggio su l’uomo che li
faceva tutti tremare. Ma io sapevo che inutilmente avrei tentato di
modificare la disciplina ferrea del babbo; ed ero inoltre persuasa
ch’essa fosse necessaria. Non badavo quindi che a render accetto quel
padrone, anche coll’esempio della mia obbedienza. E forse il babbo se
ne avvedeva. Pel breve tratto fra la fabbrica e la nostra casa, egli mi
parlava con un’inflessione di voce ch’io sola gli conoscevo, non dolce,
non tenera, ma esprimente il riposo, l’attimo di sosta e di abbandono.
Mi confidava: «Bisognerà tentare questo e quest’altro.... Allora
potremo aumentare un poco i salarî....» Pareva anche domandare il mio
avviso. Ed io pensavo alla felicità di trovar pur io qualche cosa di
nuovo da suggerirgli. La fabbrica diventava per me, come per lui, un
essere gigantesco che ci strappava ad ogni altra preoccupazione, che
ci teneva perennemente accesa la fantasia e saldi i nervi, e si faceva
amare;—angolo di vita vertiginosa, da cui eravamo soggiogati, mentre
credevamo di esserne i dominatori.
Rientrando in casa provavo, centuplicato, il senso di malessere che
sorgeva già in me da bimba al ritorno dalla scuola. Mi vi sentivo
spostata, e accentuavo con dispetto i segni di quel mio isolamento
morale. Ero simile al giovinetto appena emancipato che si lagna
arrogantemente del servizio domestico; rilevavo con lo stesso tono di
superiorità le negligenze delle sorelline e di mio fratello, la loro
svogliatezza per lo studio, la mancanza nella mamma d’una severità
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