Una Donna - 13

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Perchè nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi
questa inumana idea dell’immolazione materna? Di madre in figlia,
da secoli, si tramanda il servaggio. È una mostruosa catena. Tutte
abbiamo, a un certo punto della vita, la coscienza di quel che fece
pel nostro bene chi ci generò; e con la coscienza il rimorso di non
aver compensato adeguatamente l’olocausto della persona diletta.
Allora riversiamo sui nostri figli quanto non demmo alle madri,
rinnegando noi stesse e offrendo un nuovo esempio di mortificazione,
di annientamento. Se una buona volta la fatale catena si spezzasse,
e una madre non sopprimesse in sè la donna, e un figlio apprendesse
dalla vita di lei un esempio di dignità? Allora si incomincerebbe a
comprendere che il dovere dei genitori s’inizia ben prima della nascita
dei figli, e che la loro responsabilità va sentita _innanzi_, appunto
allora che più la vita egoistica urge imperiosa, seduttrice. Quando
nella coppia umana fosse la umile certezza di possedere tutti gli
elementi necessari alla creazione d’un nuovo essere integro, forte,
degno di vivere, da quel momento, se un debitore v’ha da essere, non
sarebbe questi il figlio?
Per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e più
bella in essi la vita, devono esserci grati i figli, non perchè,
dopo averli ciecamente suscitati dal nulla, rinunziamo ad essere noi
stessi....
* * * * *
Quella notte non dormii. Il confuso problema di coscienza intravisto la
prima volta a Roma, mi si imponeva ora con una lucidità implacabile. E
per giorni, per settimane maturai nello spirito ciò che in quella notte
avevo _veduto_.
Avevo formulata la mia legge. Essa avrebbe agito, mi avrebbe
compenetrata, sarebbe diventata istinto, atto, e un giorno senza sforzo
l’avrei seguita, come la rondine che segue le correnti della primavera.
Esteriormente ero più calma, in certi momenti l’idea si impossessava
tanto di me, che io non la riguardavo più se non in astratto, senza
applicarla al mio caso, tanto era limpida e naturale nella sua verità,
tanto era lontana dalla pratica mia e di tutti.
Nessuno se n’avvedeva. La domestica soltanto, la buona vecchia ormai
da tanto tempo abituata ad osservarmi in silenzio, sorprendeva talora
un’espressione troppo intensa, paurosa per lei, sul mio volto, che
per tutti restava quello d’una bimba savia. E avventurava qualche
consiglio, qualche scongiuro: lavorassi, come a’ bei tempi, sperassi,
avessi fede....
La parola pietosa m’inteneriva. Che strana intuizione era in quella
semplice anima devota? Forse era l’influsso della mia costante
presenza: con la mia taciturnità, la mia inquietudine, con le risonanze
che avevano le parole d’indole famigliare, che dovevo rivolgerle, io
l’affascinavo, la suggestionavo, la portavo nella cerchia oscura delle
mie sensazioni.
Ah poter liberamente influire su tutte le creature avide di riscatto,
poter dare un sorriso, una speranza, un’energia a chi ignora e geme e
muore!
La mia forza d’emozione diventava pura, alata, e s’alzava con le albe
e coi tramonti, coi pensieri nobili e coi versi dei poeti. Erano tuffi
nel sole, scalate a vette sublimi di ghiaccio, raccolte di fiori
ideali; attimi di gioia perfetta, come la sensazione improvvisa d’una
fresca carezza di vento primaverile che ci uguaglia alle frondi
novelle, ci fa come esse fremere del semplice piacere della vita. Mi
si formava la convinzione che il genio è eterno solo in quanto il suo
linguaggio è immancabilmente una testimonianza della umiltà e della
dignità umana. Volgono le epoche, tramontano i sogni e le certezze, si
trasformano le nostre brame; ma immutato resta il potere d’amore e di
dolore nella creatura terrena, immutata la facoltà di esaltarsi sino ad
intendere voci fraterne nello spazio in apparenza deserto.
* * * * *
Sopraggiunto l’autunno, fra mio marito e gli operai, come un anno
avanti fra costoro e mio padre, la scissura si accentuò. Mentre gli
affari della fabbrica continuavano a rendere guadagni considerevoli sui
quali il direttore percepiva un buon interesse, i salari si mantenevano
mediocri e i regolamenti durissimi: la mia equità si rivoltava; una
cupa onta m’invadeva sempre più di esser lì, inerte e inerme. Certe
lavoranti che passavano dinanzi al cancello del giardino, a gruppi,
uscendo dalla fabbrica, con un riso sfacciato e sprezzante, mi
sembravano più di me degne di rispetto. E non osando quasi più uscire
di casa, il grande giardino nella pompa autunnale mi vedeva vagare per
ore come un’ombra. Mia madre!... Non le andavo incontro, non vivevo già
un po’ come lei?...
Un malessere, una spossatezza generale mi assalirono: un dubbio mi
traversò un istante la mente: ch’io stessi di nuovo per divenir madre?
Il terrore onde fui investita mi diede una volta ancora la misura della
mia miseria.
Oh, fuggire, fuggire!
Rinnovai a mio marito una domanda già respinta: mi lasciasse andare
presso mio fratello, a Milano, per qualche settimana.
Quando ottenni il consenso, la paura di una nuova maternità era
svanita. Mio marito aveva pure intuito il mio dubbio, e in pochi giorni
la tensione tra noi si era fatta insostenibile. Ci lasciammo senza una
parola: egli aveva un’aria di sfida minacciosa.
Di nuovo la città mi accolse. Era la città della mia fanciullezza,
questa volta. Pur rinunciando a cercare per le strade e per i giardini
la bimba di quindici anni innanzi, io mi sentivo circondare nelle mie
ricognizioni da un’atmosfera famigliare: i viali immersi nella nebbia,
le piazze dai contorni imprecisi, le file dei fanali, la sera, lungo
il Naviglio deserto, mi mostravano la stessa fisionomia d’un tempo. Lì
avevo ricevuto da mio padre la prima impronta intellettuale, lì avevo
appreso il rispetto, quasi il culto per l’energia umana. Fin da bimba
avevo sentito in modo confuso come nella città l’uomo dia una sfida
incessante e superba alla natura per lui limitata e insufficiente. In
verità, circoscrivendo in certo modo la sua prigione, l’uomo si sente
tra le mura cittadine più libero e possente che sotto l’infinito cielo
stellato, che dinanzi al mare e alla montagna incuranti di lui: ciò
spiega anche l’ostentazione del progresso che le metropoli offrono.
Certo, qui come a Roma, come nel villaggio, quasi sempre il motivo
dello sforzo era egoistico: gli esseri si premevano, correvano e
sembravano indifferenti gli uni agli altri. Ma un sordo agitarsi
di coscienze s’intuiva tra quella rete fitta e tumultuosa, nei
grandi sobborghi operai, nelle scuole, nei comizi: coscienze che si
orientavano verso una visione ancora confusa, che trovavano stimolo al
lavoro in qualcosa di non tangibile, in un sentimento di reciprocità,
di solidarietà col passato e coll’avvenire, in una vera estensione
d’amore nello spazio e nel tempo. E alcuni uomini e alcune donne, con
serena pazienza, promovevano quasi da soli tutta quella germinazione.
Un’ideale corrispondenza era fra essi e la mia vecchia amica di Roma:
già in lei avevo ammirato e invidiato il potere animatore e propulsore
che una forte volontà altruistica può esercitare nella città moderna.
Andavo con mia sorella a visitare i luoghi ove s’iniziavano tentativi
di riforma, ove s’abbozzavano gli schemi della convivenza umana
avvenire, e osservavo trepidamente svilupparsi in lei il desiderio di
partecipare, fosse anche in minima parte, all’azione, di non passare
ignara e sterile accanto alla vita. Dacchè era arrivata a Milano,
aveva condotto un’esistenza malinconica, troppo sola sempre e senza
occupazioni. Il babbo viaggiava quasi sempre, malato d’instabilità,
irrequieto e scontento. Nostro fratello s’era impiegato in una
fabbrica, e sperava poter arrivare presto a provveder da solo a sè
e alla fanciulla: frequentava l’Università Popolare, leggeva molto,
aveva alcuni compagni interessanti; ma capiva di trascurar un poco
la sorellina. «Avrebbe bisogno d’una amica: che cosa posso fare io
per lei?» Ella ascoltava, con i suoi grandi occhi dilatati: dolce
fiore di giovinezza che oscillava in esaltamenti e depressioni per la
mancanza appunto d’uno stimolo continuo, vigoroso e tenero insieme.
Temeva d’esser la vittima estrema dell’errore che aveva unito i nostri
genitori, di portare il loro irrimediabile dissidio nel proprio
carattere. Ripeteva: «Se ti avessi vicina un po’ sovente!» E sembrava
scrutarmi nell’anima, interrogare l’avvenire.
Con gioia e timore insieme rilevavo in lei quest’ansia dello spirito,
principio veramente di una più alta esistenza di cui avevo in parte
la responsabilità. Avrebbe la vittoria coronato lo sforzo suo e del
fratello? Entrambi mi rappresentavano l’uomo e la donna d’oggi alla
soglia della vita, la loro tristezza e la loro speranza. Mentre l’una
deve ancora spezzare vincoli esteriori ed interiori per conquistare
la propria personalità, l’altro ha bisogno d’esser visto, d’esser
guardato negli occhi da lei come da un’anima che sa e vuole. Avrebbe
trovato ciascuno l’essere che poteva accompagnarlo nella vita
partecipando a tutte le gioie e a tutti i dolori? In certi momenti mi
dicevo che mi sarei ritenuta fortunata nella mia sventura se avessi
potuto imbattermi, prima di morire, in qualche umana coppia perfetta.
Ripensavo ai due giovani fidanzati intravisti il giorno della morte
della mia amica, a Roma. Sì, qualcuna già poteva, doveva esistere, e
rapidamente suscitarne altri esemplari intorno. Nella mia fantasia
frattanto erano un tormentoso sconforto alla squallida condizione in
cui giacevo. E mi cantavano nella mente le parole che i poeti non
dicevano ancora.
Intermezzo di vita. Mi sentivo alacre, volonterosa, forte. Tutto
quanto avevo accumulato nella mia anima durante i mesi di solitudine
laggiù, balzava adesso in limpide formule. Quasi una purissima gioia
di creazione m’invadeva quando consideravo dentro di me l’ideale
di creature che non portassero più nelle vene come me, come i miei
fratelli e mio figlio, un sangue di perenne contesa; in cui un’unica
volontà parlasse, nell’esempio e nel ricordo di genitori amanti e
attivi, nella speranza d’una sempre maggiore serenità di vita.
Nel futuro, nel futuro. La certezza d’un tale avvenire mi si era
andata formando inavvertitamente, forse dall’adolescenza, forse prima,
quando l’atmosfera penosa della casa ove due cuori avevano cessato di
comprendersi, mi aveva rivolta l’anima alle indagini appassionate.
Come le aveva perseguite il mio temperamento logico ed assoluto, a
traverso ogni ostacolo! A tratti, un senso di ammirazione quasi di
estranea mi prendeva per il cammino da me percorso; avevo la rapida
intuizione di significare qualcosa di raro nella storia del sentimento
umano, d’essere tra i depositari d’una verità manifestantesi qua e là a
dolorosi privilegiati.... E, pensosa, mi chiedevo se sarei riuscita un
giorno ad esprimere per la salvezza altrui una parola memorabile.


XXI.

Mio marito mi ricevette alla stazione del paese con un certo impaccio:
si occupò specialmente del figlio nel tragitto verso casa. A casa la
domestica mi avvolse in uno sguardo trepidante che mi sorprese. Ma
erano lì anche mia suocera e mia cognata; dovetti comporre il volto
alla calma cortesia che usavo con loro, assistere alle feste ch’esse
prodigavano al bimbo un po’ restìo, un po’ annoiato. Osservavo mio
marito e mi stupivo di trovarlo inverosimilmente invecchiato, con
la traccia d’un guasto interno su la maschera pallida e contratta.
Possibile che poche settimane soltanto fossero scorse dacchè ci eravamo
separati? Anni mi parevano: più ancora: mi pareva di non avergli mai
appartenuto, tanto lo sentivo lontano da me, estraneo.
Quando restammo soli, egli mi disse di una indisposizione avuta durante
la mia assenza. Parlava abbondantemente e confusamente. Si trattava
di cosa leggera, un ritorno, diceva, d’un’infezione avuta molti anni
addietro, da soldato.... Qualcosa mi balenò alla mente, come la confusa
reminiscenza di parole udite, quando? in città? dalla dottoressa?—Roba
da nulla, egli ripeteva, senza conseguenze. Aveva dovuto serbare
l’immobilità per alcuni giorni: ora era guarito, ma il medico avrebbe
voluto che continuasse a riposare, ciò che non era possibile.
La narrazione era intercalata da brevi soffocate bestemmie, espressione
famigliare dei suoi rammarichi. Ascoltavo in silenzio, incapace di
rendermi conto esatto della realtà. Egli si alzò, mi prese tra le
braccia, con una esitanza quasi rispettosa che non gli conoscevo;
cercava le mie labbra; istintivamente piegai il capo: egli mi posò
la bocca a sommo della fronte mormorando: «Sei buona tu.... tanto
buona.... non ti merito....»
Coricati, il suo desiderio alitava caldo intorno alle mie membra....
Una frase remota, il ricordo d’un sorriso amaro sul volto della
dottoressa, un giorno, a Roma, mi lampeggiarono di nuovo alla mente. E
un impeto indomabile, selvaggio, di difesa, m’invase. Egli desistè dopo
un istante, ed io restai fremente a lungo come uscita, da un bagno di
fiamme.
Il dì dopo venne il medico d’un paese vicino; parlò di riposo, di
cure, e se ne andò avvolgendomi in uno sguardo ambiguo.
Anche la domestica aveva uno strano modo di guardarmi, o piuttosto,
di distogliere gli occhi dai miei. Infine si lasciò sfuggire che il
padrone era stato in città alcuni giorni dopo la mia partenza, e che al
ritorno si era ammalato. Benchè non l’interrogassi, aggiunse: «Non mi
fate dir altro....»
Non ce n’era bisogno. La fantasia mi tracciava ora una scena dai
contorni sfuggenti: l’uomo che in un giorno d’irritazione andava a
picchiare a una porta infame.... Vedevo l’onta di colui presso i
famigliari, la sua risoluzione di nascondermi tutto, i sotterfugi....
Che cosa poteva in tutto questo sorprendermi? Nulla: come se un
ritratto, alla cui esecuzione avessi assistito giorno per giorno mi si
mostrasse finalmente completo, perfetto.
E non gli dissi una parola: le mie labbra non avrebbero potuto
disserrarsi, anche se l’avessi voluto. Feci preparare in una camera
accanto a quella del bimbo il letto per me, e la sera, prima ch’egli
uscisse dal suo solito giro in fabbrica, lo avvertii. Egli impallidì
un poco: ma forse era preparato, e mostrò non dar importanza al fatto:
«Questione di giorni!»—brontolò.
Un ribrezzo profondo mi dominava ogni volta che lo vedevo rientrare
in casa. Egli manteneva un’aria di vittima infastidita e pareva non
supporre in me nulla di nuovo. Si compiaceva nell’ascoltare ed
esperimentare i consigli empirici di sua sorella. E allorchè non si
lagnava delle malattie che colpiscono chi men se l’aspetta, dava
sfogo all’acredine contro i socialisti che tendevano in quel tempo
a suscitargli uno sciopero. A volte, sorprendendomi seduta accanto
al bimbo, con il capo appoggiato alla testolina di lui, intenta
a leggergli una storia o a commentargli un’incisione, aveva una
contrazione maligna delle labbra e non reprimeva qualche motteggio.
Volevo fare uno scienziato anche di quel poverino?
Studiava il piccino, adesso, e l’intimità dei nostri cuori pareva
aumentare in quel destarsi della sua intelligenza, in quelle prime
emozioni del pensiero. Mentre egli al tavolino faceva i suoi esercizi,
io scrivevo o leggevo, interrompendomi per rispondere alle sue domande.
Passavano minuti di dolcezza e di pace. Poi, quand’egli mi lasciava per
andare e giocare, un gelo m’invadeva.
Sfogliavo in quei giorni con una strana voluttà il «giornale intimo» di
Amiel. Fantasmi popolavano il mio studio, mi apparivano dinanzi fra le
piante del giardino o in mezzo alle vie maestre o in riva al mare: mia
madre giovane accanto alla culla delle mie sorelle, in atto d’accettare
la sua sorte atroce; questo filosofo ammalato, curvo sulla sua
scrivania ad esprimere il suo dolce pessimismo intessuto di lagrime e
di ruggiti repressi; un famoso scrittore nostro, infine, una delle mie
ammirazioni d’adolescente, a cui poco innanzi il figlio ventenne era
morto, vittima forse del dissidio tra i genitori. Simboli sanguinosi
della vanità del sacrificio, esempî terribili del castigo incombente su
ogni coscienza che si suicida.
Non ero io una di queste coscienze? Non mi era bastato il ragionamento
e l’intima persuasione. Avevo continuato ad appartenere ad un uomo
che disprezzavo e che non mi amava: in faccia al mondo portavo la
maschera di moglie soddisfatta, in certo modo legittimando una ignobile
schiavitù, santificando una mostruosa menzogna. Per mio figlio, per non
correre il rischio d’esser privata di mio figlio.
Ed ora, ultima viltà che ha vinto tante donne, pensavo alla morte come
ad una liberazione: mi riducevo anche a lasciare, per morire, mio
figlio: non avevo il coraggio di perderlo per vivere.
E a tratti come un vento di follia m’investiva. La sera, dopo aver
sopportato la conversazione dei parenti, se restavo sola di fronte
all’uomo che mi avviliva coi suoi sguardi e i suoi tentativi di
riconciliazione, mi lasciavo trarre a lanciar parole taglienti contro
i lagni ch’egli esalava sulla crisi dell’industria e l’atteggiamento
degli operai. La mia voce si faceva acuta, quasi smarrivo il
significato delle mie parole. Allora, una vocina m’interrompeva
d’improvviso: «Mamma!», e dopo un momento: «Vieni, mamma!» Mi
riscotevo, mi recavo al buio nella stanzetta ov’era coricato il bimbo.
Egli vedeva la mia ombra nel vano della porta: mi chiamava di nuovo
più sommesso: «Mamma!» E come mi sentiva presso il letticciuolo,
traeva fuori le braccia, m’afferrava il collo, mi attirava il capo
accanto al suo. In silenzio, mi passava una mano sugli occhi, sulle
guance; sentivo il tremore delle dita tepide e morbide.... Che voleva
la cara anima? Accertarsi ch’io non piangevo, che il papà non mi
faceva piangere.... Mi gettavo traverso il letticciuolo e i singhiozzi
montavano, infrenabili; li soffocavo nelle coltri, sentendo di nuovo la
parola tremante: «Mamma!», e il mio viso era bagnato di lagrime mie,
sue.... Imploravo in cuore: Perdono, perdono, figlio! E a lungo restavo
lì, china, senza parole, attendendo per il piccolo essere il sonno
pietoso, per me l’atonìa che segue la crisi.
* * * * *
Un giorno arrivò un telegramma che m’annunziava le condizioni disperate
di un mio zio di Torino, fratello maggiore di mio padre, che mi aveva
sempre dimostrato il suo affetto attraverso i tempi e le vicende, e
più volte mi aveva beneficata con doni e prestiti di danaro, nei tempi
difficili di Roma specialmente. Egli era l’opposto di mio padre, con
tutte le caratteristiche del borghese lavoratore, limitato nelle idee,
ligio alle usanze, soddisfatto di sè, ma profondamente buono. A lui
riportavo tanti miei ricordi d’infanzia, e, nonostante l’immenso
divario di principii e di sentimenti, m’ero sempre commossa ad ogni
incontro col caro vecchio pingue, roseo e burbero, a cui una ventina di
nipoti, figli de’ vari fratelli e sorelle, facevano corona.
Sarei stata in tempo a rivederlo un’ultima volta? M’avrebbe
riconosciuta?
Mio marito mi fece partire la sera stessa, dopo simulati tentennamenti,
dandomi, riguardo al mio contegno verso il ricco zio e i parenti, delle
raccomandazioni che mi gelarono ogni spontaneità. Così sempre la vita,
dunque?
Al mattino, dopo l’eterno viaggio notturno, trovai ad attendermi sotto
la tettoia fumosa mio padre e una sua sorella. Mi chiedevano del mio
stato, mio padre si lagnava delle ferrovie, la zia rimproverava a lui
di non avermi ancora baciata.... Tanti anni che non sentivo le braccia
paterne attorno al mio collo!
Lo zio era morto nella notte.
Era sparita una creatura del mio passato, forse la sola che avesse
pensato a me come ad una pianta dell’antico ceppo. Avvertivo un vuoto,
e insieme come un senso di liberazione.... Così le nuove generazioni
quando si staccano dalle vecchie soffrono e sognano.
Restai a Torino tre giorni. Attorno al cadavere alitavano le brame
dei nipoti, eredi diretti, e quelle d’altri parenti innumerevoli.
Mi sentivo sollevata quando il babbo mi traeva lungi dal lugubre
spettacolo, a camminare con lui per le care tranquille vie della città
nativa. Egli mi parlava un po’ stancamente, e pareva che entrambi
assistessimo ad un ritorno di tenerezza, con mite stupore, rassegnati a
vederla ben presto dileguare. Eravamo ormai ben autonomi, il babbo ed
io, ognuno nella propria strada errata! Non potevamo scambiarci lamenti
o consigli, nè supporre possibile un futuro aiuto vicendevole in un
giorno di riscatto o di disastro; ci limitavamo ad ascoltare ciò che
restava in noi dei comuni entusiasmi d’un tempo, ad osservare ciò che
ancora avevamo d’identico negli istinti e nelle tendenze.
Fu lui a comunicarmi il contenuto del testamento: a me erano assegnate
venticinquemila lire, a’ miei fratelli solamente cinque. Perchè? Ne
provai un’amarezza fortissima, l’impulso subitaneo a dividere la mia
parte con i meno favoriti. E una torbida sensazione di vergogna si
mescolava a questo dispiacere: quasi venissi un poco diminuita ai miei
occhi dalla possessione di quel danaro non guadagnato col mio lavoro,
da quel privilegio, sia pur minimo, che ricevevo non solo sui miei
consanguinei ma su tanti altri fratelli, proprietari unicamente d’un
paio di braccia e di una volontà attiva.
Nondimeno, sormontata l’acuta e complessa contrarietà, non potei non
pensare all’importanza pratica che il fatto assumeva per la mia vita.
Io acquistavo l’indipendenza materiale: quella somma, poca cosa certo,
sarebbe stata sufficiente però ad assicurare il sostentamento di mio
figlio quand’io dovessi col lavoro provvedere a me stessa.
Una clausola del testamento disponeva che esso venisse eseguito solo
sei mesi dopo.
Informai mio marito, annunziando il mio ritorno. Sentivo di poter
essere ora più esigente di fronte a lui; avrei reclamato delle vacanze,
dei viaggi; avrei potuto comperar libri per me e pel figlio, senza
mendicare sempre il permesso....
Una bizzarra ipotesi s’affacciò tra quei vaghi progetti. Io avevo, in
qualche parte della penisola, un amante; lo raggiungevo di tratto in
tratto, mi dissetavo di passione, di ebbrezze, indi rientravo nella
casa triste a riprender il giogo che il mio cuore di madre non riusciva
a rigettare. Non ingannavo nessuno, perchè mio marito sapeva che lo
disprezzavo. Soddisfacevo a un diritto del mio essere, accumulavo la
forza di resistere, di sopportare....
Pazzia! Potevo ben lasciare la briglia alla fantasia, ma, se non vedevo
chiaro quello che avrei fatto, sapevo troppo lucidamente quello che
non avrei fatto mai; avevo la sensazione che l’avvenire già esistesse
dentro di me: una soluzione, facile o difficile, più o meno lontana, ma
certa, quasi fatale.
* * * * *
Ero arrivata al mattino. Il bimbo giocava con le marionette, ed io lo
assistevo, seduta con lui sul tappeto. Mio marito leggeva i giornali,
taciturno; non ci eravamo scambiato ancora una parola.
Venne mia cognata, ilare, leziosa; attendeva da me delle notizie che
non m’affrettavo a darle, e ad un certo punto non resistette: «Dunque,
dunque, siamo ricchi, eh?»
Tenevo la testa china sulla baracca dei burattini, non la sollevai.
Il bimbo non aveva sentito, intento com’era allo spettacolo; ma la
voce stridula continuava, coprendo le parole che suggerivo ai miei
personaggi. «E il nostro caro figliuolo ora ha una fortuna di più! Ah,
voglio vederlo padrone del paese, un giorno!»
I due cari occhi turchini mi fissarono, ora; dicevano: «Continua,
mamma, non dar retta; io non ascolto che te; la mia vita me la fai tu
sola....»
Avanti, sì. Ma alla notte, stavo per coricarmi affranta, quando l’uomo
entrò nella mia camera. Dopo una lotta atroce, sola nel buio, invocai,
una volta ancora, la morte.
E il mattino seguente lo dissi al bimbo, piano: «Forse morirò, sai? Ma
tu non dovrai piangere, dovrai soltanto ricordarti....»
Morire!
Dentro il mio cervello mi pareva di sentire come un groppo, duro
e pesante, che si rimoveva, si sviluppava.... E un pensiero vi si
illuminò sinistramente. Anche _lui_, mio marito, avrebbe potuto _non
esistere più_.... Gli esseri che si agitano intorno a noi muoiono. È
come un alito: spariscono. E tutti gli altri uomini camminano, vi
guardano in faccia, parlano e non lo nominano più.... È come se non
fosse mai esistito....
Così poteva pure avvenire di me.... Ma, e mio figlio?
Invece, ora, _dopo_.... io e mio figlio, soli.... Ecco; giravo per la
casa, mia: nessuno! Uscivo in giardino, nella via.... Ecco il mare,
i paesi lontani. E in questo mondo immenso, liberi, liberi, io e mio
figlio....
Era un sogno ad occhi aperti. Quando sentii la voce del bimbo che
chiamava la domestica, trasalii. Mi stupii sopratutto di non provare
orrore al pensiero di essermi raffigurata tutto ciò. Sentii aprire la
porta del giardino; mio marito entrò; era il meriggio. Si avvicinò, mi
parve che mi guardasse e tòrsi il viso. Mi occupai del bimbo per tutto
il tempo del pasto, poi, soli un momento, mi rivolsi a lui: sentivo la
mia faccia irrigidirsi:
«Dovrò chiudere la porta della mia stanza!»
Quegli diede un pugno sulla tavola. Poi fece alcune volte il giro per
la sala, e si sedette fremendo.
«Fa quello che vuoi!»
Si rialzò di scatto ed uscì nel giardino. Ma subito rientrò vomitando
un cumulo di parole infami. China, stringendomi il bimbo accanto,
continuavo macchinalmente a segnare col dito le linee del libro che
leggeva. Interruppi le bestemmie guardandolo fermamente in faccia: gli
dissi che c’era un solo rimedio, quello che avevo indicato un anno
prima: separarci.
Quegli s’era fatto più livido. Me ne andassi, me ne andassi, avrebbe
ben trovato un’altra femmina al mio posto!
Calma, proseguii: «Sia pure. Ma non in presenza di mio figlio. Lo
porterò con me, aspetterò in casa di mio padre che la legge regoli il
nuovo stato di cose».
Egli era accanto alla vetrata del giardino: alzò un braccio, poi lo
lasciò ricadere. Il suo volto era gonfio e livido.
«Il figlio?—proruppe.—Pròvati!»
La voce s’era elevata, doveva passar le portiere, giungere in istrada.
Il corpicciuolo infantile accanto a me era scosso da un tremito, si
avvinghiava al mio tra i singhiozzi repressi.
«E tu, àlzati! Vieni con me in fabbrica, su!»
Subito, la vocina tremula oppose:
«Ho da fare il còmpito....»
I puri occhi turchini s’incontrarono con quelli del padre, torbidi,
spaventosi: un momento di silenzio passò. Immobile, non percepivo più
che la pressione di una piccola mano un po’ umida.
Sentii sbattere l’uscio, dei passi sulla ghiaia allontanarsi.
Soli in casa, nel pomeriggio fosco.... Il bambino m’asciugava le
lagrime lente, col suo gesto accorato; e mi chiedeva: «Che cosa voleva,
che cosa aveva papà? Perchè grida così, perchè ti fa sempre piangere,
mamma?»
«Devo andarmene, figliolo mio; vedi, devo partire....»
Che cosa balbettavo? Egli mi pose le mani sulle spalle, con tutta la
violenza del suo piccolo essere in tumulto.
«Mamma, mamma, e io vengo con te, vero? dimmi, dimmi!... Non voglio
restar qui col papà, non voglio lasciarti.... non voglio, mamma! Mi
porti via, di’, via?...»
E mi cadde sul petto, rompendo in un pianto che mi penetrò nella carne,
un pianto di uomo e di neonato insieme, che pareva riassumere tutto il
dolore del mondo.... Figliuolo, figliuolo! Ti strinsi, piansi con te,
così disperatamente, sentendomi fondere teco, come se ti raccogliessi
nel mio grembo e ti lanciassi una seconda volta nella vita in uno
spasimo infinito di sofferenza e di gioia, comprendendo la sovranità
formidabile del legame nostro, eterno....
* * * * *
Scrissi a mio padre per prevenirlo. Poi riaprii il libro che già avevo
consultato a Roma, l’anno avanti, tristamente. Chiaro e semplice il
codice nei suoi versetti.... Io lo conoscevo. Ma solo quando pensai
a me stessa, sentii ch’ero io l’incatenata, che proprio su di me la
legge era come la porta d’un carcere, ne sentii tutta la mostruosità.
È possibile? La legge diceva ch’io non esistevo. Non esistevo se non
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