Una Donna - 04

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suggestione.
Intanto una specie di torpore m’invadeva. Era come un bisogno
d’inazione, di completo abbandono alle cose circostanti. Così
la mia persona piegava al volere del marito. Progressivamente,
delle ripugnanze sorgevano nel mio organismo, ch’io attribuivo ad
esaurimento, a stanchezza. Non cercavo di vincer la frigidezza per cui
egli si stupiva e, talora, si doleva: mi sarebbe parso inconcepibile
un contegno più espansivo. Unica compiacenza sentirmi desiderata: ma
anch’essa spariva dinanzi a rapide visioni disgustose o sotto l’urto di
parole volgari o insensate. Chiudevo gli occhi, m’impedivo di pensare e
restavo come in letargo.
Poi, mi addormentavo. Quanti anni avevo? Non ancora diciassette.... Il
sonno era lungo, tranquillo, di fanciulla.
Alle undici del mattino la donna che veniva per la pulizia della casa
se n’andava. Preparavo da sola il pranzo e la cena, senza svogliatezza,
ma anche senza piacere. E si seguivano le giornate, senza saper
come. Tenevo alcuni libri di contabilità per la fabbrica, un lavoro
che potevo compiere in casa e che il babbo m’aveva concesso perchè
m’illudessi di mantenermi in una certa indipendenza; ma non mi occupava
che per due, tre ore. Abbonata a qualche giornaletto, leggevo un poco;
scrivevo alle amiche ed alle maestre. Il primo mese ebbi la visita di
alcune maggiorenti del paese e la ricambiai, infastidita e insieme
divertita dalla mia nuova parte di signora.
Più soddisfatta ero quando, alla sera, veniva a trovarci qualche amico
di mio marito: dopo aver vantato i pregi della nostra macchinetta pel
caffè, questi passava a far gustare all’ospite certo vino in fiaschi.
Fumavano, bevevano, talvolta uscivano in qualche triviale espressione
paesana, dimenticandomi; quando il discorso cadeva sulla politica,
partecipavo alla discussione, sentendo cadere un poco la mia timidezza;
i contradditori, su per giù, erano tutti all’altezza intellettuale di
mio marito e facili a capitolare davanti alla mia logica.
Qualche altra volta si andava in casa d’un suo parente, capo della
fazione democratica, ove convenivano vari borghesi, alcuni con le
mogli. Le chiacchiere meschine e pettegole delle donne si alternavano
colle discussioni rumorose degli uomini. Mi sentivo guardata dai più
con una specie di diffidenza mal celata, nel ricordo delle eccentricità
di quand’ero ragazzina. Una sola persona, un giovine dottore toscano,
di recente nominato, che viveva a pensione nella casa stessa di quel
nostro parente, avevo sentito dai primi incontri affine a me per lo
spirito meditativo, per la correttezza del linguaggio e, parevami, del
pensiero. Colto e di vivace intelligenza, doveva considerarmi con una
punta di curiosità notando la contraddizione fra la mia vita esteriore
e l’anima che sorprendeva forse talora in una fugace ombra su la mia
fronte infantile.
Avrei voluto interessarmi alle vicende paesane: ma ero priva ormai di
ogni contatto con gli operai, i pescatori, i contadini, e in quanto
all’elemento borghese, esso mi appariva più volgare ancora di quel
che avevo supposto: senza dirmelo, temevo che questa volgarità finisse
per penetrarmi. Già l’inerzia che possedeva tutte le donne del paese
cominciava a parermi, in certo senso, invidiabile. La cura pigra ed
empirica dei figliuoli, la cucina e la chiesa eran tutta la loro
vita. Gli uomini, malgrado l’affettazione di miscredenza, esigevano
da esse le pratiche religiose. Lo stesso desiderio inconfessato era
forse in mio marito. Quello ch’egli non desiderava, invece, erano i
bimbi, e me lo ripeteva spesso. Per egoismo? E io non sentivo ancora
sorgere dal fondo del mio essere la brama d’una esistenza nuova che mi
appartenesse, mi fosse cara, m’illuminasse la vita.
«Gli amici mi vantano il tuo ingegno, mi dicono che ho una sposina
invidiabile....» mi riferiva mio marito. Non ne ero convinta. Avevo
bensì l’impressione d’essere giudicata graziosa, e forse bella; ma
davanti allo specchio non mi riconoscevo tale affatto, mi trovavo
un’aria assonnata, di bimba vecchia. E anche di questo non mi curavo
troppo.
Una sola vampata dell’antica fierezza m’assalì una sera, nei primi
tempi, mentre stavo ponendo assetto in un piccolo cofano ove mio marito
aveva riposto le sue carte, la nostra corrispondenza, qualche ricordo.
Che stupore, quando vidi conservate, accanto alle mie, le lettere che
sei, otto anni avanti gli aveva scritto la sua prima innamorata, la
ragazza, rimasta zitella, di cui incontravo talora per via lo sguardo
scintillante d’odio! Non ne lessi che una, senza ortografia, piena di
frasi da segretario galante. Egli, accanto alla stufa, sorrideva con
una certa fatuità. Continuando a rovistare, altri biglietti più brevi
di donna saltarono fuori. «Sono.... di quand’ero al reggimento, sai,
una figlia di oste....» Ma non gli davo già più retta; leggevo un
telegramma, firmato con un diminutivo femminile; e guardavo la data;
l’estate scorsa, durante il nostro fidanzamento....
Lacerai quelle carte in mille pezzi: egli non osò protestare.
Perchè non gli credevo, mentre mi andava tessendo tutta una storia? E
perchè soffrivo, soffrivo a quel modo? Amavo dunque tanto quell’uomo?
O, veramente, qualcosa crollava, si sfasciava tutto un edifizio, che la
mia buona volontà s’era venuto costruendo?
L’impressione parve dissiparsi in una crisi di lagrime. M’imposi di
dimenticare, di non tormentarmi. Checchè fosse stato, ora egli era il
mio sposo, il mio compagno, colui sul quale doveva agire lentamente ma
sicuramente la mia influenza onesta.
Non vedevo più mio padre, ma me ne parlava mio marito, che lo trovava
sempre troppo esigente ed aspro, e le mie sorelle, e, qualche volta,
la mamma. Egli viveva quasi sempre fuori di casa: della vita dei
figliuoli non s’informava più. La casa era invasa di terrore quando
egli entrava; poi, allorchè richiudeva la porta dietro le sue spalle,
i ragazzi avevano lo spettacolo di mia madre che s’abbatteva in crisi
di pianto e di protesta, obliando la loro presenza. Perfino l’ultima
sorellina non riusciva a calmarla, a richiamarla in sè che a fatica,
col povero sorriso dolente della boccuccia infantile. L’altra sorella,
ormai tredicenne, savia, tranquilla, assumeva quasi senza accorgersene
la direzione della casa. Mio fratello usciva con me in frasi violente
verso il padre, che non lo mandava a proseguire gli studî in città e
l’obbligava ad un lavoro troppo greve in fabbrica. E pareva che tutti
fossero nell’attesa d’uno scioglimento funesto.
Io non mi sentivo l’energia di giudicar mio padre. Talvolta avevo,
rapidissima, l’impressione d’aver contribuito per la mia triste
fatalità a quel naufragio della sua coscienza. Non lo avevo
abbandonato, senza tentare un gesto per ritenerlo nella sua casa,
presso i fanciulli che erano stati un giorno il suo orgoglio? Forse
che a quindici anni avevo il diritto di staccarmi indignata da lui, al
quale riconoscevo di dover tutto quanto in me era di buono?
E una parte di questi rimproveri facevo ricadere sulla mamma. La sua
debolezza, la sua rinuncia alla lotta mi esacerbavano tanto più in
quanto ero costretta a riconoscermi ora dei punti di contatto con lei
nella mia rassegnazione al destino.
Ma la sventurata soffriva atrocemente, e non solo nell’anima. Una
terribile crisi fisiologica la sconvolgeva: coglievo degli accenni
tra i suoi discorsi slegati, che mi facevano sussultare nelle intime
fibre, nella mia sostanza femminile ornai consapevole. E mi pareva che
questo stranamente, ora più che mai, m’impedisse d’essere, per la donna
ch’era mia madre, una consolatrice. Ah, ch’io non era davvero la sposa
innamorata che ella supponeva, la creatura gioiosa, capace di tutta la
pietà per lei che tendeva le mani dietro i beni perduti!
Mio padre.... che cosa provava? Che cosa gli diceva il medico
che somministrava alla malata pozioni deprimenti e s’affannava a
dimostrarle la necessità di mutar vita, di partire, di fidare nelle
risorse del proprio organismo, nel tempo, nei figli? Anch’egli
scongiurava mio padre, come l’infelice stessa, a mentire e aver pietà?
Poichè, io lo comprendevo, a questo si era: ella avrebbe accettato
l’elemosina del suo affetto anche parteggiato con la rivale.
Sentivo che il babbo non sarebbe tornato indietro. Egli era, a
quarantadue anni, al sommo della fortuna materiale, in guerra contro
cose ed uomini, animato come non mai dall’aspra volontà di non
riconoscersi dei torti. Non risaliva certo al passato, non si diceva,
certo, che un tempo egli avrebbe potuto evitare la sciagura....
Soffriva? Aveva qualche lampo di sgomento? Non una parola, non un
gesto di lui che m’illuminasse.
Capivo soltanto che l’ostilità omai aperta di tutto il paese, la
rivolta del sentimento pubblico ispirata dall’arciprete, dai _civili_
invidiosi, da operai scacciati, esasperavano il suo amor proprio, e che
anche il suo atteggiamento di provocazione gli faceva perdere sempre
più il senso della realtà.
E le settimane intanto fuggivano rapide. Era giunta l’estate senza che
quasi me ne accorgessi, torpida qual’ero di membra oltre che d’animo.
Una notte fu bussato alla porta. Era mia madre, sorretta da mio
suocero, disordinata nelle vesti, con lo sguardo immobile ed emettendo
suoni inarticolati. Uscita di casa sua senza che la domestica se ne
avvedesse, aveva errato per le vie, forse a lungo, finalmente s’era
imbattuta nel vecchio che l’aveva condotta da me. Forse aveva ceduto
all’ossessione di andare in cerca di mio padre.
Rimasi come fulminata. Poi immaginai la casa aperta coi piccini
addormentati, ignari. Dinanzi a quella miseria umana che mi ricercava
nel mezzo della notte, ebbi una rivolta selvaggia di tutto l’essere....
Tremavo, in preda anch’io alla febbre.... E lanciai alla sventurata
parole acerbe, folli quasi come le sue.... Oh, mia madre!... E per
l’amore di un uomo che non la meritava più!...
Mi rivedo, semivestita, in piedi accanto al mio letto, mentre ella
appoggiata al muro mi guardava e piangeva sommessa. Il medico,
sopraggiunto, le aveva fatto prendere un forte calmante. Ad un certo
punto chiese di esser ricondotta presso i suoi bambini. Mi ricoricai.
Al buio, nel silenzio, la scena atroce mi si prolungava all’infinito
dinanzi alla mente; e sentivo la febbre aumentare, e con la febbre un
tumultuoso odio per la vita, un disgusto, una stanchezza senza fine....
Tornò il medico. Un germe di vita nuova, non per anco avvertita nel mio
grembo, m’aveva abbandonata.


VI.

Per molti giorni giacqui inerte, ripetendo piano a me stessa la parola:
_mamma_; chiedendomi se avrei amato un essere del mio sangue e sentendo
di non poter piangere con passione quel figlio che non avevo potuto
formare.
E frattanto un rimorso mi pungeva, qualcosa che mi prostrava, che mi
toglieva, ancora una volta, l’amore di me stessa e il gusto della vita.
Pensavo a mia madre, al torrente di parole spietate che era uscito
dalla mia bocca in quella notte atroce, al passato.... Che cos’era
stata ella per me? L’avevo io amata?
Non osavo rispondere, mentre io stessa mi consideravo sotto un nuovo
aspetto, nella desolazione d’un sogno materno balenatomi d’un tratto
e immediatamente svanito. Sentivo di non aver mai contribuito a far
felice mia madre, fuorchè forse al mio primo apparire tra i due sposi
innamorati. Ella, è vero, non entrava come elemento essenziale in
nessuno de’ miei ricordi luminosi; ma bastava questo a spiegare la
indifferenza ch’io avevo avuto nel tempo per la misera anima sofferente?
Tutto il passato, lucidamente, era adesso davanti al mio spirito.
Per diciotto anni l’infelice aveva vissuto nella casa coniugale. Come
moglie, le poche gioie le si erano mutate in infinite pene: come madre
non aveva mai goduto della riconoscenza delle sue creature.
Il suo cuore non aveva mai trovato la via dell’effusione. Era passata
nella vita incompresa da tutti: fanciulla, la sua famiglia la
considerava romantica, esaltata e nello stesso tempo inetta, benchè
fosse la più intelligente e la più seria della numerosa figliuolanza.
Aveva rotto senza rimpianto quasi ogni rapporto con i parenti,
antipatici allo sposo. Credente, forse con un misticismo scoraggiante,
e senza gusto per le pratiche del culto, la religione non l’aveva
sollevata da un solo dolore. Di fantasia viva e calda e di gusto fine,
non però s’era mai applicata a nessuna arte, e nessuna manifestazione
del genio, le aveva suscitato uno speciale fascino traendola fuor di
se stessa per qualche istante. Non una amica, non un consigliere, mai,
sulla sua strada. E una salute incerta, un organismo travagliato da
lenti mali....
Povera, povera anima! Non le erano valse la bellezza, la bontà,
l’intelligenza. La vita le aveva chiesto della forza: non l’aveva.
Amare e sacrificarsi e soccombere! Questo il destino suo e forse di
tutte le donne?
Un mese circa era passato dalla mia malattia. Una volta sola avevo
rivista l’inferma, un giorno in cui ella era calma e nel quale, fra le
altre frasi quasi assennate, m’avea detto, facendomi fremere: «Ah, se
tu avessi avuto un bimbo! Perchè non hai avuto un bimbo?» Ella avea
vagheggiato un nipote, una rinnovata maternità!
Poi il medico m’aveva proibito altre visite. Veniva ogni pomeriggio, un
momento, mio fratello, o la sorella piccola, con l’affanno nella gola
e gli occhi dilatati. La mamma non ascoltava più neppure le loro voci,
alternava stravaganze a minacce d’ogni genere: l’infermiera non era più
sufficiente alla sua sorveglianza. La bimba mi scoppiava a piangere fra
le braccia; il ragazzo si torturava per non esser più grande, capace di
portar lontano la sventurata da colui che non ne aveva alcuna pietà.
Il babbo appariva cupo, impenetrabile, non parlava. E noi tutti
continuavamo ad avere per lui un senso di terrore, che ci paralizzava
e ci avviliva....
I medici, infine, dichiararono necessaria una cura regolare, in una
casa di salute. Non si poteva lasciar oltre la malata accanto ai
ragazzi spauriti.
La partenza di lei per la vicina città fu infatti per i piccoli
infelici, dopo tanti mesi di angoscia, una liberazione. L’immagine
dolce e dolente che avean vista china sui loro letticciuoli negli anni
dell’infanzia, erasi trasformata in una figura spettrale, da cui non
si sentivan più amati e che temevano di non riuscir più ad amare. Oh,
tornasse presto, a cancellare anche l’ombra del sinistro sogno!
Ed io, avrei mai potuto chiederle perdono, dirle la mia pena senza nome
per il ricordo di essere stata così disumana, farle sentire come la
comprendessi finalmente?
No, mai più la mia voce le sarebbe scesa al cuore: io non avrei più
potuto parlare alla mia mamma, lo sentivo, lo sentivo; tutto era
finito! Di lei, di quel ch’ella era stata, non sarebbe rimasto a noi
che la memoria, come un oscuro ammonimento....
* * * * *
Il giro dei giorni e delle settimane ricominciò.
Lentamente mi sollevai dalla prostrazione fisica: l’energia spirituale
pareva estinta. Non avevo nessun lamento. Immaginavo, per la sequela
di casi tragici che s’era abbattuta su la mia vita breve, di possedere
ormai la visione intera del mondo: un carcere strano.... Tutto era
vano, la gioia e il dolore, lo sforzo e la ribellione: unica nobiltà la
rassegnazione.
Non tentavo neppure di dedicarmi alle mie sorelle per attenuare la
loro sventura e dare uno scopo immediato alla mia esistenza. Una
giovine istitutrice, giunta poco dopo la partenza di nostra madre,
cercava di accaparrarsi tutto il loro affetto. Elegante e civettuola,
la vedevo malvolentieri occupare il delicato ufficio e pensavo che
avrei dovuto lottare perchè ella non prendesse troppo ascendente sulle
due fanciulle. Ma invece lasciavo che queste si allontanassero con
insensibile progressione da me. Il babbo mi ricercava ancor meno. Della
assente nessuno pronunciava mai il nome con lui.
Incapace d’ogni indagine, mio marito era soddisfatto della mia
tranquillità esteriore, della trasformazione evidente del mio
carattere, sempre più remissivo. Egli rivestiva l’indefinibile
suo egoismo con una superficie di tenera sollecitudine. Era una
sollecitudine di sole parole, ma serviva ad impedire lo scoppio di
malumori, le spiegazioni franche. Pareva che entrambi temessimo di
approfondire la realtà e che un patto muto mantenesse i rapporti
cordiali e indulgenti. Ma non era propriamente così. Egli credeva
nella persistenza del mio amore e dal suo canto penso m’amasse
un po’ come una cosa sua, una proprietà, o se l’imponesse secondo
un’idea convenzionale del dovere. Io lusingavo il suo amor proprio
colla mia bellezza che rifioriva, colla mia intelligenza, colla calma
e coll’ubbidienza ai suoi capricci gelosi di cui non mi offendevo,
sorridendone. Se una causa di malcontento gli davo, risiedeva nella
insofferenza sempre più acuta dei miei sensi ad ogni tentativo di
perversione. Ignorante più ancor che brutale, egli non si spiegava il
fatto e si tormentava, mentre io non badavo che a difendermi.
E i giorni, le settimane scorrevano. Quel tempo, nonostante i ricordi
emergenti qua e là, resta il più confuso della mia vita, il più
indecifrabile: ho solo precisa la sensazione che qualcosa, non so che
cosa, mi difendesse dalle amarezze e dagli scoramenti irrimediabili,
m’imponesse di continuare a vivere così, automaticamente, con una
oscura alterezza per la mia silenziosa acquiescenza al destino.... La
memoria de’ miei anni infantili era un’oasi cui talora ricorrevo. Ma
dopo quella, sorgeva immancabilmente l’immagine della donna dolorosa
nel tragico asilo, quale l’avevo vista la prima volta, poche settimane
dopo la sua partenza: e provavo un brivido subitaneo, quasi la
sensazione di chi, smarrito su un ghiacciaio, sente le oscillazioni
d’una corda che lo lega ad un compagno precipitato nell’abisso. Oh
la voce di mia madre, già diversa, che diceva cose incoerenti! E
l’immenso casamento dal quale si elevava un brusìo confuso di risa
e di singhiozzi, come l’eco d’una folla in tempesta che un muro
dividesse dal resto del mondo; i vasti corridoi deserti, lungo i quali
strisciavano le infermiere con mazzi di chiavi alla cintola, mentre
agli usci s’affacciavano talora figure fuggevoli dai grandi occhi
sbarrati e dalle bocche sorridenti, fantasmi d’una vita occulta; e
infine la stanza bianca colle sue inferriate, alle quali mia madre
si afferrava chiamando a nome la città che si stendeva lontana e
bellissima nel sole, come un bimbo chiama a sè il lago e il bosco!
Ero uscita dal recinto di dolore con un tremito interno, senza poter
piangere nè parlare, sentendo una sofferenza fisica che mi prostrava
e rivoltava insieme, qualcosa di oscuro e d’inesprimibile, come un
desiderio sconfinato di evasione: evadere dalla vita, smarrire la
strada che conduce al porto della pazzia....
* * * * *
Un anno, così, avvolto di nebbia tetra. Poi.... Poi il palpito in me
d’una nuova vita, e l’attesa ineffabile....
Dapprima era stato un senso di timore, quasi di terrore: il dubbio
inespresso ma tormentoso sull’intima eredità che mio figlio avrebbe
avuto da me e dal mio compagno... E altre preoccupazioni meno profonde
ma pur gravi, sull’avvenire materiale che ci si preparava, sulle mie
attitudini alla maternità....
Questa prima impressione sparì presto. Osai guardare il futuro,
accettarlo con un coraggio tanto più forte in quanto persisteva in me
una malinconia profonda, quale non provai forse mai più in nessun altro
periodo della vita. Lentamente ascoltai in me destarsi gli istinti di
madre; sentii che mi sarei votata a quel piccolo essere che si formava
nel mistero, sentii che l’avrei amato con tutto l’amore che non avevo
dato ancora a creatura. E una gioia silenziosa ed austera mi fiorì
nell’anima, irrorata dalle prime lagrime dolci della mia vita. Avevo,
alfine, uno scopo nell’esistenza, un dovere evidente. Non solo mio
figlio doveva nascere e vivere, ma doveva essere il più sano, il più
bello, il più buono, il più grande, il più felice. Io gli avrei dato
tutto il mio sangue, tutta la mia giovinezza, tutti i miei sogni: per
lui avrei studiato, sarei diventata io stessa la migliore.
Mio marito, dopo un malumore che gli sparì in breve, seguiva il mio
stato con tenerezza. Lo trovavo buono, avvertivo in lui già forte
l’amore di padre, un amore tutto d’istinto, senza preoccupazione veruna
della responsabilità che s’iniziava per entrambi.
Sua madre, per cui le nostre nozze semplicemente civili erano state
come un incubo, mi aveva per prima cosa scongiurato di fare «un
cristiano» del bimbo, ed io glie l’avevo promesso, ricordandomi che a
mia madre era stata fatta dal babbo la stessa concessione. Ma le avevo
anche dichiarato che non avrei potuto tollerare ingerenze sue o di sua
figlia nell’allevamento del bimbo, cui non volevo infliggere certi usi
barbari ancor vigenti nel luogo, nè procurare fin dalla culla amuleti
e fasce e pericolosi impacci protettivi. Al che mi rispondeva con una
baldanza che contrastava colla consueta sua timidezza: «Dieci figliuoli
ho avuto ed allattato io!»
De’ suoi dieci figli, sei erano morti nell’infanzia, e i sopravvissuti
potevano dirsi fortunati. Ella mi sosteneva che i bimbi devono
attraversare cinque o sei malattie, nelle quali Dio spesso se li prende
per formarne degli angeli.
Povera vecchia! Mi aiutava a tagliare e imbastire camiciuole e
corpettini, e godeva in quel lavoro, nella pace della nostra saletta,
un benessere dolce che l’inteneriva e di cui si reputava forse indegna
come tutti coloro che avendo sofferto lungo l’intera vita si son
convinti di non essere stati creati per la felicità. E la sventura
stava per colpirla ancora una volta.
Contemporaneamente si posero a letto mio suocero e mio marito, l’uno
per un reumatismo a lungo trascurato, l’altro per una forte angina.
Benchè il caso del vecchio non apparisse di eccezionale importanza, la
moglie e la figlia furono trattenute al suo capezzale ed io mi trovai
sola ad assistere mio marito, il cui male progrediva rapidamente.
Una notte mi parve che il respiro gli mancasse; il medico accorso
fece un atto disperato: il male aveva assunto tutti i caratteri della
difterite: non seppe nascondermelo, malgrado il mio stato; ma io mi
sentivo animata dalla volontà di non pregiudicare in alcun modo la
vita della creatura che palpitava nel mio grembo. Restai calma, col
cuore fiducioso, lasciando il malato nell’ignoranza della vera sua
condizione, assistendolo senza riposo, come certa che il dovere così
adempiuto non avrebbe potuto essere fatale.
La malattia si risolse in pochi giorni, dopo i quali soltanto il
convalescente apprese il pericolo dal quale era scampato. Non ebbe
tempo di allietarsene. Suo padre s’era aggravato: in capo a due
settimane spirò.
Era la prima volta che la morte passava, portandosi via un’esistenza a
me prossima, ma l’anima mia non fu colpita: forse ero all’estremo delle
mie forze, tutte le facoltà dominanti tese verso l’evento che avrebbe
fissato la mia vita.
Appresi la rettorica del lutto. Mio marito e mia cognata, che non
avevano mai dopo l’infanzia sorriso al loro padre, che non l’avevano
considerato se non come il detentore d’un denaro comune, proclamarono
un dolore atroce, credettero forse per qualche tempo di soffrire
indicibilmente.
Ripensai in quella circostanza ad alcune considerazioni che avevo
ascoltate più volte da mio padre. Nel paese regnava una grande
ipocrisia. In realtà i genitori, sia fra i borghesi, sia fra gli
operai, venivano sfruttati e maltrattati dai figli, tranquillamente;
molte madri sopratutto subivano sevizie in silenzio. Non una moglie
era sincera col marito nel rendiconto delle spese, non un uomo portava
intero a casa il suo guadagno. Poche coppie mantenevano la fedeltà
reciproca, e di parecchi signori s’indicava l’amante in qualche donna
che viveva sola, o con un marito, su cespiti inconfessabili. Poco tempo
prima, un feroce parricidio aveva funestato una casa: il figlio aveva
colto suo padre con la propria moglie. Molte ragazze si vendevano,
senza la costrizione della fame, per la smania di qualche ornamento; a
quattordici anni nessuna rimaneva ancora del tutto ignara. Ma restavano
in casa, ostentando il candore, sfidando il paese a portar prove contro
la loro onestà. L’ipocrisia era stimata una virtù. Guai a parlare
contro la santità del matrimonio e il principio della autorità paterna!
Guai se alcuno si attentava pubblicamente a mostrarsi qual era!
Per questo mio padre era stato condannato selvaggiamente, e odiato da
quel pugno di persone così inferiori a lui. Per questo egli aveva avuto
una ribellione che l’aveva spinto sempre più oltre.
E mio figlio nasceva in quell’ambiente!
Lo attesi in un raccoglimento severo, allontanando con energia
ogni assalto di pessimismo, moltiplicando i preparativi minuziosi,
consapevole e commossa della dignità che rivestivo in quell’ora
suprema. Avevo accanto l’immagine di mia madre costantemente; di mia
madre giovine negli anni lontani ed ignoti della mia prima infanzia:
sentivo nell’anima il calore di quell’affetto che doveva essersi
riversato su me con la stessa forza con cui il mio cuore circondava
amorosamente l’atteso....


VII.

Quando, alla luce incerta di un’alba piovosa d’aprile posi per la prima
volta le labbra sulla testina di mio figlio, mi parve che la vita per
la prima volta assumesse a’ miei occhi un aspetto celestiale, che la
bontà entrasse in me, che io divenissi un atomo dell’Infinito, un
atomo felice, incapace di pensare e di parlare, sciolto dal passato
e dall’avvenire, abbandonato nel Mistero radioso, Due lagrime mi si
fermarono nelle pupille. Io stringevo fra le braccia la mia creatura,
viva, viva, viva! Era il mio sangue in essa, e il mio spirito: ella era
tutta me stessa, di già, e pur mi esigeva tutta, ancora e per sempre:
le donavo una seconda volta la vita colla promessa, coll’offerta della
mia, in quel lungo bacio lieve, come un suggello ideale.
Vidi mio marito lagrimante di gioia, gli sorrisi, m’assopii.... Più
tardi, riposata, composta in lini freschi, ricordo d’aver sorriso alle
mie sorelle accorse, ricordo d’aver gettato uno sguardo sullo specchio
che l’una di esse mi porgeva, e d’avere scorto il roseo delle mie
guancie, lo splendore degli occhi, il candore della fronte; un’immagine
bella di maternità. A mio padre pure sopraggiunto, il medico narrava le
fasi del parto: le prime doglie alle due di notte, il rapido progresso
della crisi, una mezz’ora di sofferenza, l’ultimo spasimo, e infine
il sollievo, il primo vagito del bambino eccezionalmente robusto,
perfetto di forme. Le frasi mi giungevano come il racconto di un fatto
lontano di cui i miei sensi non serbassero che un fievole ricordo.
Sì, il mio corpo era stato avvolto da spire di fuoco, la mia fronte
s’era coperta di un sudore gelato, io era divenuta—per un attimo? per
un’eternità?—un povero essere implorante pietà, dimentico di tutto,
le mani convulsamente aggrappate ad immaginarî sostegni nel vuoto, la
voce cambiata in rantolo; sì, io avevo creduto d’entrare nella morte
nel punto in cui mio figlio entrava nel mondo, avevo gettato un urlo di
rivolta in nome della mia carne lacerata, delle mie viscere divorate,
della mia coscienza naufragante.... Quando tutto questo? Prima, prima!
Prima di sentirmi mamma, prima di veder gli occhi del mio piccino;
ed era come se nulla fosse avvenuto, poichè io avevo ora lì nel mio
letto il tepido corpicciuolo avvolto nelle fasce, poichè mi sentivo un
benessere delizioso per tutte le membra, poichè il domani avrei dato il
seno a quella boccuccia da cui usciva un suono che mi faceva ridere e
piangere....
Avrei potuto allattare la mia creatura? Durante l’intero periodo della
gravidanza era stata questa la mia preoccupazione più insistente;
anche la sera innanzi m’ero detta che avrei voluto soffrire ancora
altri giorni, ma esser certa di poter io allevare il bimbo. Così,
quando scorsi la piccola bocca succhiare avidamente, e ascoltai la
gola ingoiare il liquido che sgorgava dal mio petto, e poi vidi il
viso soddisfatto addormentarmisi sul seno, ebbi una nuova crisi di
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