Una Donna - 07

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qualche viaggio, in attesa di giorni più sereni. Giocava col bimbo,
compiacendosi di trovarlo sanissimo e vivace nonostante la mancanza
di grande aria e di moto; e ad ogni visita le sue maniere verso di
me divenivano più affettuose e insieme più riserbate, come se un
senso maggiore di rispetto s’infiltrasse in lui, lo stupisse e gli
riscaldasse l’anima. Glie n’ero grata; la sua presenza mi portava una
nota sommessa del vasto mondo che pensavo morto per me, mi faceva mio
malgrado sentire ch’io aderivo ancora a quel mondo, in cui pure avevo
tanto dolorato.
Da lui seppi che le conseguenze della mia avventura non erano finite.
In verità, pochi in paese avevano creduto all’accusa; la maggioranza
aveva dovuto pensare che trattavasi di una velleità troncata fin
dall’inizio; ma della cosa s’era impadronito il partito avversario. Il
mio onore era in sua balìa: bisognava perciò rivendicarlo.
Ciò toccava, secondo le convenzioni, a mio marito. Ma quell’altro aveva
preso l’attitudine dell’uomo chiamato direttamente in causa, e faceva
di tutto per venir provocato, a fine di mostrare la sua superiorità
di spadaccino, e, senza dubbio, per far credere ch’egli aveva delle
ragioni personali per difendere il mio onore....
Mostruose falsificazioni di ogni senso morale, che non mi avrebbero
colpita profondamente, tanto conoscevo la corruzione e l’ipocrisia
dell’ambiente; se non mi avessero rivelato una nuova piega del
carattere di mio marito. Mi accorsi ch’egli credeva alla necessità di
un duello, non per difendere me, ma se stesso; solo il suo amor proprio
soffriva. E intanto aveva paura!
Il dottore si adoperò in ogni modo per accomodar la faccenda. Dopo
varie trattative, l’avvocato finì per rilasciare ai padrini di mio
marito una dichiarazione ampollosa e ritorta, in cui io ero qualificata
«rispettabilissima». Mio marito si dichiarò soddisfatto, e soddisfatti
apparvero l’uno e l’altro partito che avevan trattata la mia
riputazione come un affare pubblico.
Non volli convenire con me stessa; ma l’esaltamento di sacrificio
era ormai del tutto caduto; finita la voluttà di piegare, finito il
silenzio della coscienza insoddisfatta.
Tutte le umiliazioni inflittemi, tutte le bassezze strisciatemi
accanto, e i compromessi e le menzogne, le avidità della carne e le
viltà dello spirito, episodî ironici ed episodî mostruosi, tornarono a
galla nella memoria atterrita, invano implorante pace, oblio.... E fu
l’ora suprema della lunga giornata d’orrore: il meriggio risplendente
sul campo devastato. Nulla più mi veniva nascosto da veli fallaci.
Umiliandomi, io non potevo neppure avere il conforto di scusare chi mi
opprimeva. Nulla stava sopra di me, condannata a camminare curva. E mio
figlio, mio figlio era un’altra vittima fra due condannati avvinti. Chi
lo avrebbe salvato, condotto lontano, dove alcuno gli trasmettesse la
virtù umana?


XI.

Colla chiusura dell’odiosa vertenza mio marito divenne più calmo,
sospese del tutto le peregrinazioni nel passato. Per qualche tempo
ancora mantenne i suoi divieti, ed io continuai a non uscire, a passare
i pomeriggi chiusa a chiave, ad aver i fogli di carta da lettere
numerati, a non poter vedere che i parenti, il dottore e la domestica,
il tutto sotto l’apparenza della più ampia libertà e con procedimenti
d’un’ingenuità che mi avrebbe divertita se i miei ventun anni prossimi
a scoccare non fossero stati irrimediabilmente chiusi al riso. Badavo
ad evitargli le cause di preoccupazione, a prevenire anzi le sue
esigenze, ma ormai più per la volontà di tutelare la tranquillità mia
e di mio figlio, che per impulso di pietà. Egli, come pel passato,
era ridivenuto ottuso, cieco e tranquillo, Desideroso d’un placido
benessere, finiva per felicitarsi dell’avvenimento che me gli aveva
data nelle mani vinta, rassegnata, passiva. Io osservavo nel rapido
ripristinamento della sua figura normale, senza sdegno. Omai non poteva
più nulla, nè per me nè per lui.
In quei giorni di infinita solitudine, nel silenzio d’ogni richiamo
umano, abbandonata veramente ogni speranza e ogni fede, trovai in un
libro una causa di salvezza.
Era il primo che prendevo tra le mani dopo molti mesi: un invio di
mio padre, che mi vedeva raramente e mi pensava, certo, con amarezza,
vittima silenziosa per non aver accolto il suo invito a rifugiarmi in
casa sua, in quei giorni tragici.
L’autore era un giovane sociologo di cui quel libro, uscito allora,
diffondeva il nome in tutta Europa. Parlava di alcuni suoi viaggi in
paesi giovani, e con una elegante vivacità traeva i profani e gli
scettici a considerare dei problemi gravi che spuntavano dai contrasti
fra due civiltà. Un’acuta facoltà d’intuizione, una vera genialità dì
sintesi, davano una suggestione rara a quell’opera un poco precipitosa
ma gagliardamente pensata, nella quale uno schietto sentimento
d’umanità vivificava ogni pagina.
Forse se invece di quel libro mi fosse capitato in quel punto un poema
vibrante di paganesimo o un saggio di misticismo, il mio destino
sarebbe stato diverso da quello che fu? Forse anche non avrei subìto
influenza di sorta ed io mi sarei affondata in un’atonìa inguaribile.
Non piansi, non mi esaltai, non sentii in me nessuna rivoluzione.
Quelle pagine rispondevano nella sostanza ad un ordine di idee
che in me si svolgeva fin dall’infanzia. Ma appunto perchè non mi
spalancavano abissi ignoti, appunto perchè con un vigore delicato,
quasi inavvertito, mi riconducevano a regioni popolate di pensieri
latenti, come susurrandomi d’una ricchezza troppo a lungo trascurata,
esse mi furono provvidenziali, in quell’ora. Un lento fascino
m’avvolgeva, mentre nella stanza chiusa, accanto al bimbo intento a’
suoi giuochi, io meditavo su le cose lette, ricordavo lontani discorsi
della fanciullezza, aggiungendo osservazioni e riflessioni mie a quelle
dello scrittore, partecipavo inconsciamente all’ideale costruzione
d’un mondo. E quel fascino faceva indietreggiare in silenzio i recenti
fantasmi disperati, rendeva benefica la solitudine, mi difendeva fra le
piccole realtà ostentanti la loro irrimediabile miseria.
Allorquando il buon senso vinceva la gelosia di mio marito e l’induceva
a portarmi a passeggio, provavo un senso indicibile di fastidio per gli
sguardi della gente, e per il timore d’incontrare a faccia a faccia
l’uomo che poteva riaccendere nell’anima di chi mi stava al fianco la
brutalità primitiva. Scorgendo talvolta da lungi la figura nota, sola
o in qualche crocchio, ed evitandola, in mutuo accordo con mio marito
che pur guatava la strada, mi stimavo vile. Perchè non consideravo
l’esistenza di colui come un fatto che non mi riguardava? Non era forse
odio ch’io sentivo per lui, bensì tremavo come si trema al nome d’un
morbo che ha condotto noi o qualche persona cara sull’orlo della tomba.
E quando mi trovavo vicina alle mie sorelle, omai divenute due fiori di
giovinezza, quel terrore mi riassaliva. Avrebbero mai sospettato, esse?
E la calunnia, anche fra molti anni, sarebbe giunta fino a loro?
La maggiore delle due fanciulle era da qualche mese amata da un
giovane ingegnere di un paesello vicino, un’intelligenza fervida in
un temperamento ineguale, nato per la lotta, pieno il capo d’ideali
nuovi. Io avevo indotto mia sorella—diciassettenne—a interrogarsi
profondamente innanzi di togliere ogni speranza al giovine. Ora, dopo
un lungo periodo d’incertezza, la fanciulla aveva dichiarato a nostro
padre di ricambiare quell’amore e di attendere che il fidanzato potesse
consolidare la sua carriera per sposarlo; e poichè il babbo in vista
della dilazione, non aveva messo ostacoli, mostrandosi solo poco
contento, i due si scrivevano, si vedevano a passeggio, si studiavano,
e la passione dell’uno diveniva affetto protettore, la simpatia
dell’altra devozione riconoscente; cementavasi un sentimento comune di
stima per cui l’avvenire si delineava sempre più saldo ai lor occhi
fiduciosi. Così, nella casa rimasta a lungo senza luce, s’insinuava per
virtù d’amore un soffio di vita nuova, più seria e più alta, penetrava
una influenza estranea che sarebbe in breve divenuta imperiosa e
benefica. Allietandomene, io favorivo quell’amore la cui fiamma pareva
quella d’un mio sogno appena abbozzato e non avverato.
Verso la fine dell’estate mio marito risolse di fare un viaggio, per
riposarsi e per distrarsi, riparare le mie forze nervose esauste e
rinvigorire la salute del bimbo. La settimana che passammo a Venezia
fu triste, malgrado l’incantesimo della città, malgrado il languore
dolcissimo ch’essa infiltra nelle vene dei più disperati. Il bimbo
non ci permetteva visite accurate a musei e chiese: d’altronde mio
marito, nell’assenza di gusto innato e nell’ignoranza assoluta di cose
d’arte, non era un compagno dilettevole, sciupandomi spesso anche le
più spontanee sensazioni. Partendo, ci sentimmo come sollevati, ma
nell’angolo remoto del Tirolo dove avevamo scelto d’accamparci la
tristezza non scomparve.
Il sito era meraviglioso, una stretta valle rumoreggiante di cascate,
verde d’abeti e di pini, incorniciata di gigantesche cime candide.
La mia infanzia, la mia infanzia che tornava coi paesaggi severi, coi
profumi selvaggi cogli ampi suoni semplici! Da quanto tempo sepolta
nella memoria? Oh, per esser sola col mio figliuolo fra quei boschi,
educarlo alla scuola della natura, fare che nel lontano avvenire l’onda
dei ricordi infantili non giungesse mai a lui così straziante come a me
in quel punto, che tutta la sua vita si svolgesse armoniosa, quale di
ospite nobile in nobili terre!
Così contento era il piccino esercitando bravamente le sue gambette su
pei viottoli erbosi, salutando le mandre dalle campanelle argentine!
Nell’alberghetto ove si alloggiava egli era il sorriso, il flore
squisito che tutti volevano aspirare con un bacio, e che giungeva da
lontano, da una parte d’Italia che non sapevan bene dove collocare
nella carta geografica, quei fratelli nostalgici, pensosi e un poco
taciturni....
Anche mio marito, nuovo affatto alla montagna, era contento, prodigo di
esclamazioni enfatiche e di osservazioni ingenue, sicuro come sempre
del suo giudizio, superbo di spender i propri risparmi in maniera
raffinata, desideroso della mia riconoscenza espressa. E quando mi
sorprendeva melanconica s’indignava come d’una frode. Che donna ero?
Nulla mi soddisfaceva!
Pentito, mi istigava poi a far qualche progetto pel nostro ritorno a
casa, a tentare di nuovo la distrazione dello scrivere.... Perchè non
cominciavo ad ispirarmi a quel luogo magnifico?
Lo ascoltavo stancamente, come si ascolta un passante che parla della
nostra salute e ci dà consigli senza saper nulla di noi. Io stessa
non sapevo che cosa m’era necessario, in quel punto. Sentivo solo
giganteggiare la mia solitudine, il mio isolamento morale; mentre
ponevo un certo impegno nel partecipare a mio marito le impressioni
che ricevevo, ad essere per lui come un libro aperto, comprendevo
bene che il substrato della mia vita restava inviolabile, che, anche
volendo, non avrei potuto farmi aiutare nell’opera di scandaglio che
continuava in me. E qualcosa come un tremito interiore mi possedeva
incessantemente.... In qual modo ricordare simili periodi? Talvolta, al
mattino, abbiamo la sensazione nitida d’aver passato una notte densa di
sogni e di fantasmi grandiosi, e d’aver vissuto in fuggevoli istanti
di dormiveglia una vita profonda; ma non riusciamo a ricostruire le
visioni nè a rifare i pensieri notturni; e ci accorgiamo poi che ogni
nostra nuova azione veramente essenziale non stupisce noi stessi,
perchè la nostra intima sostanza ne aveva avuto l’avviso.
L’ultimo pomeriggio passato in montagna mi è rimasto impresso
nella memoria visiva in maniera singolare per me che ritengo quasi
esclusivamente i caratteri morali, direi, dei luoghi che percorro; che
ad ogni luogo, cioè, do nel ricordo la fisionomia che la mia anima gli
diede nell’attimo in cui l’accolse in sè, lo sentì cornice ai propri
sentimenti. Mi rivedo per l’ampia strada da cui dovevamo, il mattino
dopo, discendere per ore e ore in diligenza verso la via ferrata, verso
il Benaco. L’atmosfera era grigia ed umida. Tuttavia ogni cosa ed ogni
suono avevano una nitidezza straordinaria; tutto sembrava più vasto,
e formidabile e fisso. Noi che andavam lenti fra tanta aria cinerea,
che cosa eravamo se non dei piccolissimi punti transitori che la Terra
proteggeva con austero amore? Per la prima volta forse in vita mia
abbracciavo questa Terra con pensiero riverente, figliale. Il tempo e
lo spazio mi pareva diventassero fluidi, che mi trasportassero sulla
loro corrente: ero l’Umanità in viaggio, l’Umanità senza mèta e pur
accesa d’ideale: l’Umanità schiava di leggi certe, e pure spinta da
una ribelle volontà a spezzarle, a rifarsi una esistenza superiore a
quelle....
Quel dì appunto avevo terminato di rileggere il libro che m’avevo tanto
afferrata settimane innanzi, e che m’era stato compagno discreto e
costante, per tutto il soggiorno in montagna. Fondevo le due emozioni
successive, quella suscitatami dalle idee svoltesi nella mia mente
intorno a quella lettura, con quella ond’era autrice la Natura che mi
circondava e che stavo per lasciare. Ne emanava un fervore occulto
che conoscono solo i grandi credenti e i grandi innamorati: coloro
che adoravano la Vita fuor di sè stessi. _Io_ scomparivo, con la
mia miseria; davanti ai miei occhi non era più che la bellezza di
quell’umano sforzo ergentesi nella vastità del mondo.
Spettacolo che l’anima gelosamente accoglieva e serbava. Non era
la gran rivelazione: era il lavorìo sotterraneo dei germi che già
sentono il calore del sole vicino e ne temono e ne desiderano il pieno
splendore.
* * * * *
Al ritorno il dottore m’apprese che la moglie di quell’uomo era morta
e ch’egli abbandonando il figliuoletto ai suoceri, era partito per
l’America, da quel cercator di ventura ch’era in essenza; privo d’ogni
progetto ma ben risoluto a non tornare. Fu l’ultima volta che intesi
parlar di colui. Piansi, dopo che il dottore m’ebbe lasciata. Ero
libera, la vita si sarebbe ornai resa più facile, più attiva, pel
bene di mio figlio; restituendo il senso della sicurezza all’uomo
che mi possedeva, riprendevo tutti i miei diritti; non avendo più
dinanzi alcuna immagine del passato, io stessa sarei divenuta serena,
via via, avrei potuto riprender fiducia nelle mie forze.... Perchè
quelle lagrime? Pareva che mi si lacerasse qualche lembo di carne sana
accanto alla piaga da cui mi si liberava: non era morta in me, dunque,
la fede nell’amore, nell’esistenza d’un amore possente e fulgido,
poi che piangevo dando l’estremo addio al fantasma che m’aveva illusa
un attimo? Se ne andava, colui col quale avevo scambiato promesse di
felicità; spariva, in un vortice, per sempre. Sapeva che il suo ricordo
non poteva abbandonarmi poichè il suo rapido passaggio aveva segnato
la mia trasformazione? No certo: e il mio nome pronunciato un giorno
dinanzi a lui, dopo anni e anni, non gli avrebbe risvegliato che un
senso di dispetto.
L’amaro non mi tornava alle labbra, ma il cuore si abbandonava di nuovo
ad una tristezza mortale, alla compiacenza morbosa del buio desolato,
nel vuoto. Per giorni, per settimane. Mio marito, sempre più calmo,
più deciso a star in pace, si preoccupava però dell’invincibile mio
male che mi curvava a terra, insisteva perchè mi dessi allo studio,
perchè scrivessi, magari le mie memorie, la storia del mio errore.
Sì, egli era calmo, si ammirava; la sua bontà gli appariva meritevole
d’esser celebrata in un poema. Mi portò a casa un grosso fascicolo di
carta bianca, che guardai sentendo il rossore salirmi alla fronte.
Fino a quel punto poteva giungere l’incoscienza? Ma qualche giorno
dopo, mentre il bimbo era dalle mie sorelle nel tepido pomeriggio
autunnale, io mi trovai colla penna sospesa in cima alla prima pagina
del quaderno. Oh, dire, dire a qualcuno il mio dolore, la mia miseria;
dirlo a me stessa anzi, solo a me stessa, in una forma nuova, decisa,
che mi rivelasse qualche angolo ancor oscuro del mio destino!
E scrissi, per un’ora, per due, non so. Le parole fluivano, gravi,
quasi solenni: si delineava il mio momento psicologico; chiedevo al
dolore se poteva divenire fecondo; affermavo di ascoltare strani
fermenti nel mio intelletto, come un presagio di una lontana fioritura.
Non mai, in verità, avevo sentito di possedere una forza d’espressione
così risoluta e una così acuta facoltà d’analisi. Che cosa dovevo
attendermi? Dovevo chiamare a raccolta tutte le mie energie, avviarmi
alla conquista della mia pace concorrendo all’opera di umanità che sola
nobilita l’esistenza? O mai più, mai più un sorriso felice m’avrebbe
resa bella dinanzi a mio figlio?
La penna si fermò, io corsi in camera, mi gettai in ginocchio al punto
stesso ove, in una notte omai lontana, avevo susurrato ad una piccola
creatura dormiente il mio proposito di morte. Come fu che mi salì alle
labbra il nome di mia madre con un singhiozzo? Come fu che un bisogno
m’invase, lancinante, di pregare, d’invocare la Potenza occulta a
cui doveva aver ricorso tante volte il cuore di mia madre quand’era
gonfio di pena? Non so. Fu l’unica volta in vita mia ch’io aspirai
alla Fede in una Volontà divina, ch’io l’attesi a mani giunte. E in
quell’appello era tutta la disperazione d’uno spirito che si sente
debole, esausto, nel momento stesso in cui ha intravveduto una lunga
via da percorrere.... Mi umiliavo, irresistibilmente ma consciamente:
era timore di una nuova, diversa e più crudele illusione del mio cuore
infiammato di ideale? Forse. Chiedendo l’intercessione della mamma,
della mia mamma demente, pareva volessi rinnegare l’orgoglio del mio
passato oltre a quello dell’avvenire; rammentavo a me stessa la fatale
sconfitta di Lei, e l’inanità d’ogni ribellione in creature segnate
come Lei dalla sventura. Ella aveva desiderato che almeno i suoi figli
fossero salvi: a mia volta che cosa avrei chiesto a un Dio che mi fosse
apparso davanti? Di allontanare dal capo del mio bambino il dolore, di
fare ch’io potessi guidarlo per strade luminose... E se neppur io ero
ascoltata? Se la catena doveva svolgersi così, in eterno?
Fui sorpresa genuflessa da mio marito, che veniva qualche volta nella
giornata ad accertarsi che io non abusavo di quel po’ di libertà. Mi
alzai di scatto, con un senso d’onta: ero per lui uno spettacolo di
debolezza! E compresi d’aver soggiaciuto semplicemente ad una crisi
nervosa, da quella povera malata ch’ero ancora.
Egli mi chiedeva ansioso che cosa avessi: lo rassicurai con un gesto,
mentre le lagrime tornavano a sgorgare copiose, liberatrici. Benedette,
benedette! Alfine mi riconquistavo, alfine accettavo nella mia anima il
rude impegno di camminar sola, di lottare sola, di trarre alla luce
tutto quanto in me giaceva di forte, d’incontaminato, di bello; alfine
arrossivo dei miei inutili rimorsi, della mia lunga sofferenza sterile,
dell’abbandono in cui avevo lasciata la mia anima, quasi odiandola.
Alfine risentivo il sapore della vita, come a quindici anni.


XII.

Seguì un intenso, strano periodo, durante il quale non vissi che di
letture, di meditazioni e dell’amore di mio figlio. Ogni altra cosa
m’era divenuta dei tutto indifferente. Avevo solo la sensazione del
riposo che mi procurava quella esistenza così raccolta, uniforme, senza
sotterfugi nè paure.
Un silenzioso istinto mi faceva porre da parte i problemi sentimentali,
mi teneva lontana anche dalle letture romantiche delle quali m’ero
tanto compiaciuta nell’adolescenza. La questione sociale invece non
aveva nulla di pericoloso per la mia fantasia. Io ero passata nella
vita portando meco un’inconcepibile confusione di principii umanitari,
senza aver mai il desiderio di dar loro una qualsiasi giustificazione.
Da bambina avevo nutrito in segreto l’amore dei miseri, pur ascoltando
le teorie autocratiche di mio padre. I miei componimenti contenevano
in proposito degli squarci retorici che mi sorprendevano e mi
lusingavano, e facevano sorridere bonariamente il babbo. Nella mia
educazione era stato uno strano miscuglio. Non s’era coltivato in me
il senso dell’armonia. Nessuna pagina immortale era stata posta sotto
ai miei occhi durante la mia fanciullezza. Il passato non esisteva
quasi per me, non andava oltre i miei nonni, cui sentivo accennar
qualche volta; e la storia che m’insegnavano a scuola mi appariva non
come la mia stessa esistenza prolungata all’indietro indefinitamente,
ma figurava davanti alla mia fantasia come un arazzo, come una
fantasmagoria. Io non poteva quindi, in quel tempo, che riportarmi
alla realtà immediata, e tutto m’era divenuto oggetto d’esame. M’ero
condotta a considerar di mia iniziativa l’essere umano con un’intensità
eccezionale, formandomi con inconsapevoli sforzi un culto dell’umanità
non del tutto teorico. Se le condizioni di famiglia non m’inducevano ad
approfondire il fenomeno delle disuguaglianze sociali, ciò che notavo
incidentalmente a scuola e per via mi metteva nell’animo una volontà
confusa di azione riparatrice.
Partita dalla città, piombata in paese incolto, avevo ben presto,
sotto l’esclusiva influenza di mio padre, smarrito quel senso di
larga fraternità che nei grandi centri è imperioso ed attivo, avevo
concepito il mondo come un gruppo d’intelligenze servito da una
moltitudine fatalmente ignara e pressochè insensibile. Ma anche questa
credenza non aveva tardato a sconvolgersi, per cagione prima, credo,
d’un piccolo episodio avvenuto verso i miei quattordici anni. Era a
colazione da noi il padrone della fabbrica, un blasonato milionario.
Questi aveva sfogliata una rivista alla quale mio padre era abbonato.
La trovava bella, ma «troppo cara». Ciò aveva ai miei occhi innalzato
la mia famiglia di fronte al riccone che possedeva due pariglie e
non aveva una rivista... M’ero troppo incoraggiata a chiacchierare,
perchè parlando del mio ufficio, avevo detto «la nostra fabbrica». E
correggendomi la mamma, il conte aveva soggiunto:
—Lasci! È come il mio cocchiere che dice «i miei cavalli».
La stizza che mi aveva invasa subitamente, aveva anche scossa la mia
concezione della società.
Più tardi il matrimonio aveva prodotto una specie di sosta nel mio
sviluppo spirituale.
Ed ecco che infine penetrava in me il senso di un’esistenza più ampia,
il mio problema interiore diveniva meno oscuro, s’illuminava del
riflesso di altri problemi più vasti, mentre mi giungeva l’eco dei
palpiti e delle aspirazioni degli altri uomini. Mercè i libri io non
ero più sola, ero un essere che intendeva ed assentiva e collaborava
ad uno sforzo collettivo. Sentivo che questa umanità soffriva per
la propria ignoranza e la propria inquietudine: e che gli eletti
erano chiamati a soffrire più degli altri per spingere più innanzi la
conquista.
Un giorno della mia infanzia mio padre mi aveva parlato di Cristo. Mi
aveva detto ch’era stato il migliore degli uomini, il maestro della
sincerità e dell’amore, il martire della propria coscienza. Io avevo
chiuso in petto quel nome, ne avevo fatto l’occulto simbolo della
perfezione, senza adorarlo tuttavia, felice semplicemente di sapere che
un _sommo_ aveva esistito, che l’essere umano poteva, volendo, salire
fino a rappresentare l’ideale della divinità, l’aspirazione all’eterno.
Come mi era parsa puerile la mitologia cristiana! Cristo non era nulla,
se Dio; ma se egli era uomo, diveniva il flore dell’Umanità, non un dio
diminuito, ma l’uomo nella sua maggior potenza. E sempre Gesù, il Gesù
di Genezareth sorridente ai bimbi, il Gesù indulgente verso la pentita,
incapace di rancore, sereno nell’ammonimento come nella profezia, aveva
brillato davanti alla mia anima, figura ideale che mi pareva di veder
offuscarsi di tristezza ogni volta ch’io mi allontanavo dalla bontà e
dalla verità.
Dopo mesi, forse dopo anni di smarrimento, io rivedevo il sorriso
di Cristo su la mia strada, e mi rivolgevo a lui come a una fonte
d’ispirazione. Per alcun tempo vagheggiai una dottrina che unisse la
soavità dei precetti del Galileo, sorti dal grembo della natura, alla
potenza delle teorie moderne emanate dalla scienza e dall’esperienza,
la libertà con la volontà, l’amore con la giustizia. Era come
un’orientazione, come l’affermazione di una armonia.
Attorno a me, frattanto, molte cose prendevano un significato,
attiravano la mia attenzione. Mi accorgevo con lento stupore di non
essermi mai prima chiesta se io avessi qualche responsabilità di quanto
mi urtava o mi impietosiva nel mondo circostante. Avevo mai considerato
seriamente la condizione di quelle centinaia di operai a cui mio padre
dava lavoro, di quelle migliaia di pescatori che vivevano ammucchiati
a pochi passi da casa mia, di quei singoli rappresentanti della
borghesia, del clero, dell’insegnamento, del governo, della nobiltà,
che conoscevo da presso? Tutta questa massa umana non aveva mai
attratto altro che la mia curiosità superficiale; senza esser superba
nè servile, io ero passata fra i due estremi poli dell’organizzazione
sociale sentendomene isolata. Non avevo mai accolta l’idea d’essere una
spostata, a cui l’osservazione del mondo si presentava in circostanze
eccezionalmente favorevoli. Il mio allontanamento dai volumi di scienza
era una colpa assai meno grave di quella che consisteva nell’aver
trascurato di gettar gli occhi sul grande libro della vita.
Ed ora? Non potevo andare fra il popolo, nè rientrare in quell’ambiente
il cui contatto mi era stato fatale; la mia reclusione, per forza
d’abitudine, era diventata ormai così spontanea, che non si sarebbe
potuta rompere senza sommuovere nuovamente l’esistenza della nostra
casa. Dovevo limitarmi a raccogliere l’eco che saliva dalla strada alle
mie stanzette.
Il giovane che mia sorella amava s’era in quell’inverno impegnato
in una lotta che gli aveva alienato del tutto l’animo di mio padre:
organizzava gli operai della fabbrica, li univa per la resistenza; il
socialismo penetrava mercè sua nel paese. Mio padre proibì alle due
ragazze di riceverlo più oltre in casa. La fidanzata era smarrita.
Malgrado la contrarietà di mio marito invitai il giovine ingegnere in
casa mia. Come luccicavano gli occhi della fanciulla la prima volta che
le feci trovar da me, senza preavviso, l’amato! Per lei, per l’altra
bimba, per mio fratello già sedicenne, non poteva far altro, purtroppo,
che assicurare quell’appoggio. Compievo su me uno sforzo riparatore
troppo grande perchè mi avanzasse l’energia di dedicarmi efficacemente
a quei poveri abbandonati del mio sangue.
Dal giovane fui informata con esattezza del movimento che sollevava le
masse lavoratici in tutto il mondo e le opponeva formidabili di fronte
alla classe cui appartenevo.
Egli aveva studiato in Germania, aveva viaggiato, e, tornato nella
sua regione da due anni per dirigere i lavori di un nuovo tronco
ferroviario, aveva sentito il bisogno prepotente di tentare qualcosa
per quelle miserevoli popolazioni, da cui egli era pur germinato.
Mia sorella accettava tutto a priori; le idee vivevano, palpitavano
nel giovane, ed ella non poteva distinguerle da lui. Io discutevo,
m’infervoravo. Lenta nell’espressione, per amor di sincerità e di
esattezza, inesperta nella dialettica, mi provavo poi a riprender la
mia libertà di spirito a tavolino e scrivevo sul quaderno stesso a
cui avevo confidato lo sfogo del mio dolore. Mi compiacevo cedendo
all’impulso, poi arrossivo, assalita dal dubbio di esser vittima d’una
sciocca ambizione incipiente, di _recitare una parte_, come nei tempi
lontani in cui, bimba, mi figuravo davanti allo specchio d’essere una
dama affascinante. Ma continuavo, nondimeno, con impeto.
Pensare, pensare! Come avevo potuto tanto a lungo farne senza? Persone
e cose, libri e paesaggi, tutto mi suggeriva, ormai, riflessioni
interminabili. Talune mi sorprendevano, talaltre, ingenue, mi facevano
sorridere; certe ancora recavano una tale grazia intrinseca, ch’ero
tratta ad ammirarle come se le vedessi espresse in nobili segni,
destinate a commuovere delle moltitudini. La loro varietà era infinita.
Tanta ricchezza era in me? Mi dicevo che probabilmente essa non aveva
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