Una Donna - 03

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Il babbo!... Mille piccoli incidenti mi si illuminarono: non m’era
possibile non prestar fede alla terribile rivelazione.... Mi sentii
curvare a terra, afferrare dalla smania di mordere il suolo, nel dolore
e nella vergogna....
Mio padre, l’esemplare raggiante, si trasformava d’un tratto in
un oggetto d’orrore: egli, che mi aveva cresciuta nel culto della
sincerità, della lealtà, egli nascondeva a mia madre, a noi tutti un
lato della sua vita. Oh babbo, babbo! Dove era la nostra superiorità,
di cui andavo così altera fino a ieri? Mi pareva che piombassimo più
giù di tutte quelle creature intorno, di cui avevo indovinato il lezzo
istintivamente! E i miei fratelli innocenti! E mia madre, mia madre,
sapeva qualcosa? Mi sentivo ora attratta verso la sventurata, col cuore
pieno, fino a scoppiare, pieno di rimorsi e d’ira contro me stessa....
Forse quando ella aveva tentato di morire, mio padre la tradiva
già? Allora io avevo respinto il dubbio con tanta sicura e serena
persuasione! Anche oggi lo respingevo. Era troppo orribile! Ma intanto
l’infermità fisica e morale che teneva la mamma non era una scusa per
mio padre dinanzi a’ miei occhi.
Oh se fosse possibile far rinsavire il babbo, opporre alla sua la mia
volontà audace e fremente, salvare tutti noi dalla rovina!
Ma chi, con perfidia od incoscienza, m’aveva portato il tremendo colpo,
badava ad insinuarmi l’inutilità d’ogni reazione, e a dipingermi
nello stesso tempo un fosco avvenire. Mi prodigava una pietà che in
tutt’altre circostanze m’avrebbe offesa. Non gli badavo: mi sentivo
stringer le mani, accarezzar i capelli, e il mio essere cedeva
inconsapevole alla dolcezza di quel contatto, mentre tremavo d’ira e
di disperazione.
Che cos’era, che cos’era quella forza oscura che mi si rivelava così
d’un tratto, quell’amore di cui le mie letture m’avevan dato un
concetto chimerico? Era dunque una cosa nefasta, degradante, e pur
formidabile se aveva potuto vincere ed avvilire mio padre!
E la vita, che ignoravo, ma in cui avevo sempre creduto fosse riposto
un fine di bontà e di bellezza, m’appariva incomprensibile, deforme....
Quanti giorni vissi con l’atroce tumulto nell’anima? Non so più. So
soltanto che negli istanti di depressione succedenti al parossismo, una
voce calda e giovanile, insistente, al mio fianco, mi sussurrava parole
di ammirazione sempre meno velata. In certi momenti mi sentivo atona,
istupidita, e quell’unica voce continuava, m’investiva coll’accento
della passione. Ed incominciai a rispondere, con una incredulità
che persisteva in me, e insieme una speranza che mi s’imponeva
ardentemente: divenni dolce, remissiva. Non gli dicevo di volergli
bene, non lo dicevo neanche a me stessa, ma c’era un uomo a cui ero
cara.
Come seppe la mamma la sua sventura? Una sera eran venuti a trovare
il babbo dopo cena, non so più per qual motivo, alcuni individui,
fra gli altri un notaio, creatura insignificante e melliflua che mio
padre doveva aver preso a confidente, e il mio compagno d’ufficio: si
chiacchierava. Mia madre scoppiò ad un tratto in una risata convulsa,
domandando al notaio: «È vero, dica, che lei accompagna mio marito a
passeggio la notte dalla parte del fiume? Mi racconti un po’ di che
cosa parlano...!»
Gli uomini si scambiarono un’occhiata, esterrefatti. Pallida, ora, la
mamma s’alzava con un tremito, accusava un malessere, si ritirava.
Rimanemmo in sala il babbo, io e gli ospiti. Vedevo sul volto di mio
padre un’ira repressa, terribile. A voce lenta, quasi mormorando, egli
dichiarò:
«Quella donna impazzisce!»
In un impeto proruppi: «Anch’io impazzirei, papà!» E gli piantai gli
occhi in viso, con disperata ribellione, sentendo montarmi al capo uno
spasimo terribile.
«Taci, tu!» urlò l’uomo colpito a sangue, slanciandosi quasi per
stritolarmi; e indietreggiando d’un subito con un supremo sforzo:
«Esci!»
Non ricordo come passassi quella notte. Il mattino seguente, la mamma
in camera sua con la febbre attendeva invano una visita del marito,
certo per chiedergli perdono; io mi sentii annunciare che alla fine del
mese sarebbe cessato il mio impiego! Era la risposta alla mia frase
della vigilia.
Quando fui nell’ufficio non potei rattenere il pianto: quella vita di
lavoro fra gli operai io l’amavo intensamente, non potevo pensare
di abbandonarla, non ne immaginavo alcun’altra così conforme ai miei
gusti, alla mia natura! Lo dissi al mio compagno, che mi si era
avvicinato.
«E a me non pensa? Che farò io?» mormorò egli. E ritornò al suo tavolo,
nascose la faccia fra le mani, con un sussulto nervoso alle spalle.
Gli andai accanto, dimentica della mia pena; mi afferrò, mi strinse,
piccola, contro il suo petto.
«Com’eri bella, iersera, com’eri fiera, come avrei voluto baciare le
tue ginocchia....»
Chiusi gli occhi. Era vero? Tutta la mia anima voleva una risposta.
Rimasi ferma qualche minuto: le labbra di lui scesero sulle mie. Non
mi svincolai. I miei sensi non fremevano, ancora sopiti; il cuore
attendeva se qualche grande dolcezza stesse per invaderlo.
Un rumore che sopraggiungeva mi fece allontanare bruscamente. Il
giorno dopo, in un istante di solitudine, mi rifugiai di nuovo accanto
al giovine, che mi disse di volermi bene, e m’impedì di parlare,
soffocandomi con brevi baci sulla bocca, sul collo. Mi scostai un
po’ infastidita. Ma nei dì seguenti la compagnia di lui mi parve
necessaria. Dimenticavo in quei momenti il dolore che portavo meco
dalla casa, che mi si incrudeliva ogni volta che incontravo lo sguardo
di mio padre. E non chiedevo altro, paralizzata.
Egli comprendeva la mia incoscienza, constatava la mia ignoranza, la
mia frigidità di bambina quindicenne. Velando con gesti e sorrisi
scherzosi l’orgasmo ond’era posseduto, con lenta progressione mi
accarezzò la persona, si fece restituire carezze e baci, come un debito
di giuoco, come lo svolgimento piacevole d’un prologo alla grande opera
d’amore che la mia immaginazione cominciava a dipingermi dinanzi.
Così, sorridendo puerilmente, accanto allo stipite d’una porta che
divideva lo studio del babbo dall’ufficio comune, un mattino fui
sorpresa da un abbraccio insolito, brutale: delle mani tremanti
frugavano le mie vesti, arrovesciavano il mio corpo fin quasi
a coricarlo attraverso uno sgabello, mentre istintivamente si
divincolava. Soffocavo e diedi un gemito ch’era per finire in urlo,
quando l’uomo, premendomi la bocca, mi respinse lontano. Udii un passo
fuggire e sbattersi l’uscio. Barcollando, mi rifugiai nel piccolo
laboratorio in fondo allo studio. Tentavo ricompormi, mentre mi sentivo
mancare le forze; ma un sospetto oscuro mi si affacciò. Slanciatami
fuor della stanza, vidi colui, che m’interrogava in silenzio, smarrito,
ansante. Dovevo esprimere un immenso orrore, poichè una paura folle gli
apparì sul volto, mentre avanzava verso di me le mani congiunte in atto
supplichevole....

IV.
Appartenevo ad un uomo, dunque?
Lo credetti dopo non so quanti giorni d’uno smarrimento senza nome. Ho
di essi una rimembranza vaga e cupa.
D’improvviso la mia esistenza, già scossa per l’abbandono di mio padre,
veniva sconvolta, tragicamente mutata. Che cos’ero io ora? Che cosa
stavo per diventare? La mia vita di fanciulla era finita.
Il mio orgoglio di creatura libera e riflessiva spasimava; ma non
mi permetteva d’indugiarmi in rimpianti e discolpe, mi spingeva ad
accettar la responsabilità dell’accaduto.
E tentavo giustificare affannosamente ciò che ancora mi riempiva di
stupore. Quell’uomo, da quando lo conoscevo? Da due anni circa. Lo
avevo visto quasi ogni giorno, m’era stato compagno ed aiuto di lavoro.
L’avevo guardato sempre con una franca compiacenza fanciullesca; le
sue goffaggini stesse m’avevano divertita. Poi, un giorno, egli aveva
tranquillamente disonorato ai miei occhi mio padre.... Perchè non avevo
dubitato neppure un istante che mentisse? Io non sapevo nulla della
vita, e subito la sua esperienza m’aveva infuso una specie di rispetto.
E mi sorrideva con pietà. Aveva assistito all’angoscia terribile della
mia anima improvvisamente sperduta. E m’era apparso diverso da quel di
prima, un essere nuovo, dotato di tutto ciò che veniva a mancare a mio
padre. Come lo giudicava con dignità, con sdegno, e com’era commosso
difendendo la mia povera mamma! Un solo momento ne avevo ricevuto
un’impressione fastidiosa: quando, chiestogli se mi avrebbe sostenuta
colla sua testimonianza, allorchè io avessi affrontato mio padre,
m’aveva scongiurata di tacere, di tacere....
E da quel momento m’aveva avviluppata coll’onda delle parole
carezzevoli; il mio cuore s’era intenerito. Non avevo dubitato un solo
istante della sua devozione; avevo accettato, con la superbia non per
anco estinta della mia superiorità.
Sapeva egli della stanchezza che m’avea vinta? M’aveva tenuta fra le
braccia, m’aveva detto di amarmi, ed io avevo ascoltato....
Non potevo concepirmi vittima d’un calcolo. L’amore doveva aver fatto
tutto questo. Ed io com’ero impreparata ad accogliere il misterioso
ospite! Ah, che davvero non sapevo nulla, in fondo, della vita, per
aver troppo ed esclusivamente contemplato mio padre! Non mi ero mai
raffigurato il mio avvenire di donna. E donna, ecco, ero divenuta
subitamente, proprio quando non potevo più confidarmi a mio padre,
quando tutto il nostro passato perdeva ogni valore ai miei occhi,
quando la stessa mamma mia non era più in grado di ascoltarmi e di
illuminarmi.
Neppure un istante ebbi la tentazione di svelare alla disgraziata il
mio terribile segreto. Ella soffriva già abbastanza, chiusa nel suo
dolore!
Mio padre, come lo sentivo lontano, staccato ormai dalla mia vita! E
che strazio aggiunto a strazio, questo di celargli la tempesta che mi
travolgeva!
Sola, in silenzio, mi lasciavo invadere da una specie
d’autosuggestione, di follia lucida. Era l’influsso dell’improvvisa
scossa fisiologica? I ricordi che serbo sono come quelli della
febbre.... Quando mi dissi per la prima volta che dovevo, forse,
ricambiare la passione di quell’uomo, accettar da lui, per tutta
l’esistenza, l’appoggio, il rifugio ch’egli mi offriva, separandomi
da tutto ciò che aveva costituito fin allora la mia vita? Non so, non
vedo più chiaramente. Avevo cominciato a pensare che forse io amavo
il giovane da tanti mesi senza saperlo, che forse qualcosa, sotto le
umili apparenze, m’aveva sedotta, d’inesplicabile. Poi avevo soggiunto
che forse, in quell’avvenire di amore e di dedizione non mai prima
intraveduto, era la salvezza, era la pace, era la gioia. Sua moglie....
Non l’ero di già? Egli m’aveva voluta, egli m’era destinato, tutto
s’era disposto mentre io credevo seguire una ben diversa via.... Quello
sposo delle leggende, che m’era sempre parso un puerile personaggio,
esisteva, era lui!
L’uomo s’accorse subito che la sua causa trionfava, e forse non ne
fu neppure molto sorpreso. Aveva però tremato. Adesso, più sicuro,
pieno di speranza, secondava le effusioni ch’io esalavo in lettere e
in parole alte e puerili insieme, e per arrestarmi sulle labbra ogni
domanda di esplicazioni, ogni interrogazione su l’accaduto, riprendeva
a baciarmi le mani e i capelli, fugacemente, e mi ripeteva con un
poco di solennità che tutta la sua esistenza non sarebbe bastata a
ringraziarmi del dono della mia, e tentava impadronirsi di nuovo della
mia persona. Ma l’iniziazione era stata troppo atroce, e mi rifiutavo.
Come molte fanciulle, alle quali le letture dei romanzi suscitano
immaginazioni informi che nessuno illumina, io supponevo che la realtà
non fosse tutt’intera in quella che mi aveva colpita disgustosamente:
immaginavo un compenso avvenire di ebbrezze ineffabili che avrei goduto
da sposa. Il pudore in me quindicenne era troppo embrionale ancora,
perchè potesse profondamente soffrire; forse anzi un’oscura fierezza mi
spronava e sosteneva, nella volontà d’amore e di dedizione che andavo
coltivando con ostinazione disperata.
Ma il babbo notava le mie distrazioni e i miei turbamenti; d’improvviso
mantenne la parola e m’impose di non tornare in ufficio.
Nella brusca separazione mi esaltai maggiormente e credetti di passare
i giorni più orrendi della mia vita; poi, riuscita a corrispondere
col giovane, fui incitata da lui a dichiarare a mia madre il nostro
amore: e la mamma, triste, affranta, china verso il precipizio della
sua ragione, parve come bere ad una fontana di giovinezza ascoltando
la figliuola innamorata. Erano i suoi vent’anni ch’ella rievocava? Era
la felicità invano sognata per sè che si illudeva di veder risplendere
per la sua creatura? Qualcosa di lei palpitava in me, in quell’ora, per
la prima volta: lo sentiva inconsciamente? La sventurata non poteva
immaginare il dramma che aveva troncata la mia adolescenza; pensò,
anch’ella!, ad un sentimento magicamente sbocciato nel mio cuore per
salvarmi da un’esistenza ibrida; e raccolse tutta l’energia di cui
disponeva perchè le mie lagrime cessassero, perchè il suo sogno di
dolcezza trionfasse una volta nella sua figlia....
Io la osservavo con tenera mestizia, con un senso vago di timore per me
stessa, riconoscendomi fragile come lei, chiedendomi se veramente io
avessi maggior fortuna e non m’illudessi fidando nell’amore, com’ella
s’era illusa.
Quando il babbo seppe, parve non dare importanza, non credere quasi.
Ma, per iscritto e a voce, io e il mio tristo eroe cercammo di
persuaderlo che unico scopo della nostra vita, ormai, era quello
d’unirci. La sua collera scoppiò tremenda. Tuttavia neppure egli
sospettò il vero: come avrebbe pensato alla delittuosa audacia, egli
che si sapeva tanto temuto da chiunque lo avvicinava? L’idea di uno
sciocco infatuamento della figlia preferita, educata a disprezzare ogni
fantasmagoria e a contare su di sè sola per le battaglie della vita,
lo esasperava. Non riconosceva certamente la sua parte di colpa, per
l’attenzione affettuosa che m’era venuta a mancare nell’epoca in cui
più ne avrei avuto bisogno. Soffriva. Complicato e primitivo insieme,
non giungeva a farsi un concetto preciso di quanto avveniva intorno
a sè, nè a porvi rimedio. Comprendeva d’esser solo, a sua volta,
d’essersi alienata l’unica riconoscenza. E dall’addensarsi del biasimo
generale sul suo capo, dal presagio d’imminenti catastrofi, traeva una
disperata smania di tirannia e di vittoria ad ogni costo.
La mamma lo fece stupire insistendo nel difendermi. Dopo quella sera
avevano sempre evitato di parlarsi; ora, l’una sembrava imporre
all’altro, come patto di pace e di acquiescenza, il mio bene. Pareva
dicesse: «Sì, sono vecchia, sarò nonna, la tranquillità entrerà nel
mio spirito se non nel mio povero cuore: troverò ancora la vita un po’
bella, purchè nostra figlia sia contenta e io possa pensare ai suoi
bimbi!...»
Egli non mi parlò. Compresi ch’io ero morta per lui, ch’egli dava
l’addio a tutto il sogno che aveva costruito sul mio capo nel tempo
remoto.
Disse al giovane che non era il caso di pensare al matrimonio, per
allora: avevo quindici anni e mezzo; ne dovevano passare alcuni altri.
Ma egli poteva frequentare la nostra casa, la sera, e accompagnarsi
qualche volta a passeggio con la nostra famiglia. Che cosa contava
fare? Trovarsi un impiego altrove, più conveniente, tentare una
carriera governativa? Lo avvertiva che non m’avrebbe data alcuna dote.
Intanto, continuasse pure a prestar servizio in fabbrica....
Avevo immaginato che colui si sarebbe dimesso, si sarebbe procacciato
subito un altro lavoro, anche fuor del paese. Nulla invece accadde;
egli non pensava affatto che fosse poco dignitoso il restar nella
dipendenza d’un futuro suocero, e d’un uomo di cui egli biasimava la
condotta. Per contro, era ben certo che mio padre doveva darmi un
assegno quando fossi maritata.
Venne dunque da noi alla sera, come un fidanzato regolare. Col babbo
non vi si incontrava mai, poichè quegli usciva senza fallo appena
finito di pranzare. Attorno al tavolo i ragazzi giocavano o leggevano,
la mamma ed io c’indugiavamo in qualche ricamo; e il giovine si
divertiva a farmi indispettire, contraddicendomi sistematicamente nella
conversazione. Ogni tanto mi dava un bacio all’impensata, senza curare
le proteste di mia madre e le risa dei bambini. Allora mi rabbonivo.
Ci lasciavamo verso le dieci, dopo esserci abbracciati nell’anticamera
buia ove io sola l’accompagnavo: a volte, le sue mani mi afferravano,
un po’ febbrili, alle braccia, un istante, risuscitando ne’ miei sensi
il brivido, ormai lontano, di terrore.
Le prime settimane s’era fatto in paese un gran discorrere della nostra
relazione; il mio brusco allontanamento dalla fabbrica era stato
interpretato dai più maligni come la conseguenza di una scoperta da
parte di mio padre. Non avevano, circa un anno prima, le stesse lingue
sussurrato che l’affetto di mio padre per me fosse più che paterno, non
s’erano compiaciute in invenzioni odiose e mostruose? I miei genitori
non sapevano quel che ora si andava dicendo. Dinanzi alla sicurezza
ignara de’ miei, avevo sentito in me crescere un senso di vergogna.
Almeno il mio fidanzato fosse insorto contro i diffamatori! Pareva
invece aver preso un contegno speciale di fronte ai suoi compagni, come
se fosse tutto ad un tratto salito in dignità. Questi lo invidiavano
e insieme sembravano esser contenti che uno del paese avesse umiliato
l’orgogliosa famiglia forestiera. Passando dinanzi al solito circolo,
m’avvedevo dei sogghigni con cui mi guardavano e la mia fierezza non
osava più reagire. Egli rideva, mi dava della sciocca. Rise anche
quando gli riferii una diceria sul suo conto giuntami solo allora
all’orecchio: che egli avesse disonorata la ragazza la quale poi
aveva tentato di uccidersi per lui. E non si curò di difendersi nè di
giustificarsi.
Passando i mesi, anche le chiacchiere cessarono. Io ero del resto ormai
isolata dalla vita paesana: il giovine, geloso, pretendeva da me mille
rinuncio assurde: non dovevo affacciarmi alla finestra, dovevo scappare
in camera mia se qualche uomo capitava in casa, compreso il dottore
della mamma. La mia personalità fin allora così libera, dinanzi alla
memoria del fatto ch’io consideravo irreparabile, insorgeva a tratti,
ma soltanto per farmi più sentire la sconfitta patita.
Pure, scrivevo alle mie amiche che ero felice. Cercavo d’ingannar me
stessa. E riuscivo ad eccitarmi la fantasia fino a provarne una specie
di ebbrezza.
Amarlo, amarlo! Sì, lo volevo tenacemente. E non mi soffermavo su
alcuna delle continue impressioni spiacevoli che il mio fidanzato mi
procurava. Scoprivo in lui una quantità di difetti, prima insospettati:
lo sapevo incolto, ma l’avevo ritenuto più agile di mente: il suo
carattere sopratutto deludeva la mia aspettativa, con qualcosa di
sfuggente, di ambiguo; e la piccola ragionatrice ch’io ero pur sempre
aveva talvolta dei moti di sorpresa non scevri d’indignazione.... Ma
li reprimevo tosto. Io volevo credere alla mia felicità, presente e
avvenire; volevo trovare bello e grande l’amore, quell’amore dei
sedici anni che riassume alla fanciulla la poesia misteriosa della
vita. Nessuno, vicino a me, mi guardava negli occhi, entrava nella mia
anima, mi diceva le parole di verità e di forza ch’io avrei ancora
saputo comprendere.
Il mio volto, impallidito, incorniciato dai capelli che avevo lasciato
di nuovo crescere, perdeva dì espressione e di singolarità. V’era stato
davvero un tempo in cui io potevo recarmi alla spiaggia a mio piacere,
e tuffarmi per ore nell’acqua, e vagar nella campagna, e abbandonarmi a
sogni di lavoro e di bellezza senza fine?
Adesso le giornate scorrevan quasi per intero nel silenzio della mia
stanzetta. Preparavo il corredo, e talora restavo dei lunghi momenti
sospesa guardando le mie mani posate sulla mussolina bianca. Il mio
avvenire di sposa si delineava: il babbo, più facilmente che io non mi
aspettassi, si piegava all’idea di maritarmi entro pochi altri mesi. E
mi pareva d’esser preparata, anche colla visione della vita ristretta
che mi attendeva; e non sentivo distintamente nessuno scrupolo per
l’abbandono dei miei, di mia madre sempre più debole, sempre più
paurosamente smarrita, dei miei fratelli senza guida e senza amore.
E nel mio fidanzato che avveniva? Forse un certo rispetto s’insinuava
nella sua coscienza per la creatura rubata? Forse nel suo amor proprio
s’illudeva di poter farmi felice?
Deciso a non lasciare l’impiego in fabbrica, calcolava su prossimi
miglioramenti e su una futura successione a mio padre. Dibattè a lungo
con lui la questione della dote; alfine si rassegnò ad accettare
soltanto un assegno mensile. Voleva una promessa legale; ma mio padre,
indignato, fu per troncare ogni trattativa. Il mio fidanzato non
disponeva di nulla, appena di che rifornirsi la guardaroba e comperarmi
l’anello matrimoniale. Il babbo diede il denaro per il mobilio. I miei
futuri parenti non intervenivano che per meravigliarsi della poca
larghezza nostra.
La situazione diventava in silenzio sempre più penosa per tutti: a che
prolungarla? La data dello sposalizio si fissò per la fine di gennaio.
Poco meno d’un anno era trascorso dalla tragedia silenziosa, della
quale mai una parola mi era uscita di bocca neppure col colpevole.
I preparativi precipitarono, senza gioia. La vigilia delle nozze
il babbo, in uno di quei momenti di parossismo ch’egli aveva ora
frequentissimi, mi bistrattò acerbamente, per un pretesto....
Alla sera, la mamma venne accanto al mio letto. Tentò parole di
preparazione per quello che m’attendeva l’indomani; l’interruppi tosto
abbracciandola, carezzandole le tempia grigie, mentre dei singhiozzi
soffocati mi scuotevano tutta. E ventiquattr’ore dopo, con mio marito,
guardando dal treno la campagna biancheggiante di neve sotto le
stelle, io pensavo alle due sofferenze diverse che in quel giorno, con
sforzo enorme, si erano celate sotto il sorriso dinanzi a quanti erano
accorsi a bene augurarci.... Piangevano, in quell’ora, i miei genitori,
nelle loro stanze solitarie?


V.

Le finestre della saletta da pranzo del nostro appartamentino davano su
uno stradone, di là dal quale si stendevano alcuni orti; al fondo si
scorgeva un profilo di colline e una striscia di mare. Le altre stanze
guardavano su un giardino piccolo e deserto, corso da malinconiche
spalliere di bosso, e su la linea ferrata. Ogni tanto, di giorno e di
notte, la casa tremava leggermente per il giungere e il partire dei
treni, e nelle stanze si prolungava l’eco dei fischi. Al piano di sotto
v’erano inquilini pressochè invisibili. Quando mio marito e la servente
se ne andavano, io senza accorgermi evitavo di far rumore movendomi.
Le mie vestaglie di flanella mi assicuravano, ad ogni istante, ch’io
ero proprio _una donna maritata_, un personaggio serio, cui l’esistenza
era definitivamente fissata. Quando uscii la prima volta sola a fianco
del mio antico compagno di ufficio, per lo stradone maggiore del
paese, con in capo un cappello piumato che mi pesava orribilmente, e la
persona impacciata entro un vestito all’ultima moda, mi parve che un
abisso di tempo e di cose mi separasse dalla creatura che ero solo un
anno innanzi.
Confusamente sentii la necessità di prendere come la cittadinanza del
luogo, di immedesimarmi cogli usi e coi sentimenti delle persone che
costituivano la mia nuova famiglia, l’ambiente in cui mio marito era
cresciuto e nel quale anche i miei figli si sarebbero educati. Ogni
qualvolta andavo a visitare mia madre, mi si affacciava più nitida la
differenza fra il mondo da cui ero uscita e quello ove penetravo ora. E
quasi un inconfessato rancore me ne veniva per il mio passato: qualcosa
d’istintivo, d’irriflessivo e d’ingiusto, contro la mamma, come contro
le sorelline, contro mio padre e contro le mie «utopie».
La mamma sola se ne accorse, colla sua sensibilità d’inferma: due o
tre volte, in quei primi tempi della mia vita coniugale, ella espresse
senza parlare, nel bianco volto sempre più devastato dalla sofferenza,
la sorpresa dolorosa che le procurava il mio silenzio. Io recavo dal
viaggio di nozze un’impressione confusa, o piuttosto già sbiadita:
nessuna forte compiacenza spirituale, nessuna vibrante rivelazione
dei sensi. Oh l’attesa delle fanciulle! Io non avevo avuto tempo di
foggiarmi nel desiderio tutto un mondo di ebbrezze; ma la delusione
era stata ugualmente amara. Mi rimaneva in mente soltanto un diverbio
scoppiato senza motivo serio il terzo giorno, per cui eravamo rimasti
tutto un pomeriggio all’albergo in un mutismo stizzoso. E perchè
presentando mio marito alle amiche di Milano ed ai parenti m’ero
accorta che temevo di leggere nei loro occhi dello stupore e forse
della disapprovazione?
Non volevo rispondere, non volevo neppure ascoltare in me stessa queste
interrogazioni. Per ciò mi dava disagio la sollecitudine ansiosa di mia
madre: capivo bene ch’ella si aspettava che io le tornassi trasformata,
più sorella che figlia ormai, coll’anima gonfia di emozioni che
dovevano costituire uno dei pochi bagliori luminosi del suo passato.
Ella mi costringeva ad ammettere, anche di fronte a me stessa, che il
_mistero_ non c’era più per me, che non era neanche esistito, che tutto
m’era stato rivelato un anno avanti, in quel fosco mattino che credevo
quasi obliato....
Verso mia suocera non avevo invece alcun debito di confidenze. Soltanto
volevo conquistare lei e i suoi, e non lo credevo difficile. Già mi
pareva che essi mi ritenessero differente, d’un metallo più fine,
prezioso, e la cosa li rendesse intimamente orgogliosi. Ai due vecchi
sembravo una bimba. Mia cognata doveva invece aver l’intuizione d’una
forza celata sotto la mia fragilità, ma una forza probabilmente
incapace di divenire ostile. Per tutta la famiglia, del resto, mio
marito era senza discussione lo sposo ideale, ben degno di avermi
ottenuta.
Trovavo mia suocera, la sera, accoccolata dinanzi al grande camino,
la cui fiamma talora illuminava da sola la buia cucina a pianterreno,
coll’uscio quasi sempre aperto sull’orto. Coi pomelli arrossati, ella
appariva più giovine nei tratti regolari e salienti del volto, e
quasi bella; e mi sorrideva un po’ confusa dandomi del _voi_. Anche
mio suocero non riusciva a dirmi _tu_. Alto, gigantesco anzi, era un
po’ curvo e lento nei movimenti. Al mattino era lui che faceva le
provviste. «È contenta la signora baronessa?» chiedeva alla figliuola.
Questa, una zitellona sui trent’anni, trovava sempre a lagnarsi; aveva
un temperamento imperioso ed egoista, freddo e lunatico insieme, e
dinanzi a lei la madre tremava.
In verità, ella aveva, in paese, una nomèa di virago ch’io ignoravo,
come ignoravo che la famiglia intera non riscuoteva alcuna simpatia.
Mio suocero, molto tempo addietro, aveva subìto un processo e una
condanna, cosa non rara nel paese. Il figlio mi aveva raccontato una
complicata storia di offese e di vendette per dimostrarmi l’innocenza
paterna, e la sua commozione m’aveva persuasa. Ora, nella cucina piena
d’ombre e di riflessi mi pareva in certi momenti di notare nel vecchio
dei gesti impacciati, quasi le pareti si restringessero attorno a lui
sino a diventare una cella, il carcere ove egli era stato per due
anni.... Così mite e guardingo, con rarissimi istanti di una giovialità
che una volta doveva essere stata la sua natura, mi suscitava sempre
una pietà mista a timore.
I rapporti fra i membri della famiglia mi riuscivano strani: a casa
mia tutto era più regolare, più disciplinato, più chiaro. Ma ciò che
mi faceva invece sentire una specie di fascino in quell’ambiente
grossolano era il senso della tradizione, era l’ossequio al costume,
era la volontà tenace che animava quella gente, in certe ore, ad
esaltare il vincolo del loro sangue e del loro nome e della loro
terra. In mille minute cose, dal modo di preparare una vivanda in una
data solennità, sino alla difesa accanita che mia cognata dinanzi
ad estranei faceva del fratello, che poco prima aveva a tu per tu
malmenato, trovavo un’espressione di vita affatto contraria a quella
che aveva foggiato il mio carattere e il mio gusto; contraria, spesso
errata—aggiungeva quasi per forza il mio raziocinio—ma non priva di
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