Una Donna - 10

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uomini hanno creduto fino ad oggi a questa immortalità, e non sono
divenuti migliori....»
Gli occhi le si velavano:
«Nessuno più di me desidererebbe il conforto di ritrovare dopo morte
chi ha amato! Io ho sperato per tanti anni che il destino non mi
facesse sopravvivere al mio compagno. Non è stato così.... Ma la
dolcezza della nostra unione mi avvolge ancora tutta nel ricordo, mi
consente di fare questo ultimo tratto di cammino sola.... Io ho avuto
la mia parte di bene. Cara, bisogna far che l’uomo ami la vita in
quanto essa è suscettibile d’esser bella _per tutti_, materna _verso
tutti_. E non è guardando oltre la morte che si può raggiungere questo
scopo».
Io pensavo a tutte le volte che avevo sentito «staccato» dal mondo,
lontano, quell’uomo. Egli non aveva neppure discepoli; nessuno dei
tanti giovani che s’affollavano nelle redazioni delle riviste maggiori,
ed invocavano in versi «l’atteso», aveva l’impulso d’interrogarlo, di
scandagliare il suo segreto.
La vecchia amica si rassegnava:
«Egli è veramente un _esemplare unico_, ed io mi compiaccio certe
volte con uh po’ d’estetismo che mi sia caduto sotto gli occhi. Ne
arrossisco, perchè, in fondo, egli mi desta una gran compassione.... E
tu, piccina, hai subito un poco il suo fascino? Le donne non sono mai
insensibili alle manifestazioni mistiche.... Se potessi mostrarti il
mio esempio, ti direi che io credo nel mistero, che ho anch’io, come
si dice, le finestre aperte sul mistero. Ma non posso stare tutto il
giorno alla finestra, e c’è tanto da fare in casa!»
Ella sorrideva con una ironia che nascondeva un’appassionata tenerezza.
Come delicatamente ella sfiorava le anime! Avrei mai un giorno potuto
espandere intera la mia con lei? Sentivo lento lento un affanno salire.
Per quella nobile creatura la vita era amore: e se l’amore è tutto
nella vita, io non conoscevo ancora la vita....
* * * * *
Si giunse alla fine di febbraio: l’influenza infieriva, mio figlio
s’ammalò, dapprima senza sintomi gravi, indi rapidamente precipitando
verso il pericolo. Mai quella creaturina era stata inferma: qualcosa mi
trascinò fuor di me, in quei giorni di terrore inobliabili, e di cui
pur non conservo un distinto ricordo. Una sola notte rivivo. Alcuni
accessi nervosi violenti, seguiti da vere allucinazioni, da barlumi di
furore,—per cui il caro viso, ove poco tempo innanzi ancora i cinque
anni sorridevano, diventava irriconoscibile, spaventoso,—avevan fatto
spuntare nella mente mia e degli altri presenti un sinistro fantasma:
meningite.... La parola mi danzava nel cervello, lo riempiva. Si
attendeva la dottoressa. Coperta solo di un accappatoio, tremante pel
gelo della notte e per la febbre che da tre giorni serpeggiava anche
nelle mie fibre, mi curvavo sul bimbo che a volte mi respingeva o
mi guardava àtono senza riconoscermi; mi gettavo su una poltrona lì
presso, mi rialzavo. Per un’ora o due, forse, immaginai mio figlio
perduto, mi raccolsi in questo pensiero, sentii le lagrime, sgorgate
irresistibili alla vista degli spasimi infantili, asciugarsi; mi
chiedevo: «Potrò trovar subito un mezzo per morire, o dovrò giuocar
d’astuzia per deludere la sorveglianza di costoro?» Nessun richiamo
mi veniva dalla vita poi che la vita si chiudeva su mio figlio, su
colui pel quale soltanto avevo riaperto con rassegnazione gli occhi in
un’altra tragica notte....
La crisi nervosa fu superata; per quarant’ore circa dalla boccuccia
rossa non era uscita una parola dettata dall’intelligenza o dalla
volontà; una piega ostinata, amara, l’aveva contratta; gli occhi,
più larghi, sembravano interrogare su ciò che avveniva e inquietarsi
di non comprendere.... Non rivedo le fattezze straziate dal male, ma
risento la sofferenza acuta di quella vista. Avevo la febbre, non
potevo percepire ciò che accadeva in me, e impressioni lancinanti si
succedevano, si confondevano. Ricordo il risveglio, invece: un attimo
divino: il sorriso che si abbozzava su quelle povere piccole labbra,
che irraggiava il visino bianco, mentre una vocetta esile, nuova
e insieme antica, rispondeva alla dottoressa che gli domandava il
nome.... Oh, nome, nome di mio figlio che da quell’ora mi divenisti
parola di vita!
Il male seguì il suo corso regolare: il piccino era docile, quasi
preoccupato lui stesso di guarire; non v’era da lottare per compiere le
prescrizioni mediche. Nei momenti di maggior sollievo, quando la febbre
gli dava requie, egli mi chiedeva: «Che avevo, mamma, l’altra notte?...
Vedevo rosso.... tu non c’eri, tu non c’eri....» E una manina saliva a
carezzarmi il viso. Nella piccola stanza una luce violacea penetrava
mentre i pomeriggi di marzo, di là dalla terrazza, inondavano il cielo
di nubi dorate. Poi, l’ombra subentrava, e le lunghe ore notturne
sfilavano. Io rimanevo sola a vegliare, fin verso l’alba.
La figura di mio marito si disegnava talora torbida nella notte, mentre
restavo con lo sguardo avvinto alle linee incerte e dolci della testina
riversa sul guanciale. Durante il periodo acuto della malattia di
nostro figlio l’avevo visto sinceramente commosso. Ciò non mi aveva
dato un solo fremito, chiusa come ero nel tragico cerchio delle mie
sensazioni materne. Come due estranei, avvicinati momentaneamente
dalla sventura, le nostre persone ritte da un lato e dall’altro del
letticciuolo, non avevano avuto neppure per un istante un moto, un
gesto, l’una verso l’altra....
....L’esistenza adorata era salva, rivolta di nuovo verso l’avvenire.
La consideravo ormai con calma, con la stessa sicura energia con cui
avevo considerato la sua possibile fine. Essa era la parte migliore
di me, che riposava e si ritemprava così, la parte vergine, ignara,
possente, quella che avrebbe debellato ogni insidia, come testè la
morte. Ma l’altra parte, la creatura vegliante, agitata da ricordi e da
presentimenti, debole e incerta nella sua dolorosa esperienza? L’altra
viveva d’una vita intensa come non mai, scrutava senza risultato
le tenebre circostanti, temeva, forse per la prima volta con tale
sincerità, di sè stessa e del suo destino....
Perchè avevo pensato tanto naturalmente alla morte quando mio figlio
era in pericolo? Non esistevo io dunque indipendentemente da lui, non
avevo, oltre al dovere di allevarlo, oltre alla gioia di assisterlo,
doveri miei altrettanto imperiosi?
Tre anni quasi erano trascorsi dal mio tentato suicidio. Durante
l’incessante ascesa avevo voluto persuadermi, persuadendo altrui colla
penna e coll’esempio, che la vita va vissuta per un fine più largo
che non sia quello della felicità individuale, che ogni rinuncia è
possibile e divien facile, quando si giunge a sentire la necessità
del legame sociale. Mi ero esaltata tante volte dinanzi a questa
concezione, mista di ascetismo e di paganesimo, glorificante insieme
l’azione e la contemplazione. Senza le lusinghe di una fede pietosa,
avevo sentito crescere in me forze insospettate, che erano state capaci
di attutire le voci del senso e del cuore.
Illusione! Menzogna! Io che predicavo la forza di vivere, io,
poche notti prima, avevo sentito questa forza estinguersi come per
incanto col suono d’una fievole voce infantile. Il mio ideale di
perfezionamento interiore crollava dinanzi alla realtà di questo fatto:
una cosa sola, ora come tre anni prima, era realmente _viva_ in me,
viva e formidabile: il legame della maternità.


XVII.

La convalescenza del piccino fu lunga: al principio di aprile andammo,
noi due soli, a passare alcuni giorni a Nemi: nel verde rinascente dei
boschi la creatura amata riacquistò finalmente tutta la sua vivacità.
Dolcezza ineffabile di quella nostra solitudine dinanzi alla piccola
conca glauca e silenziosa del lago! Gli occhi di mio figlio, dopo la
malattia, parevano ancor più profondi e pensosi; il sorriso esprimeva
una tenerezza più vibrante. Egli era ormai entrato nella fanciullezza,
ormai i ricordi dovevano cominciare ad imprimerglisi nel cuore. Per
lui, per lui!... La coscienza della mia dedizione, ora ben lucida, mi
avrebbe sorretta?
Mi riposi al lavoro. Tutte le mie colleghe mi avevano dimostrato pietà
e cortesia eccezionali, e tanto l’editore quanto la direttrice erano
stati indulgenti per la mia prolungata assenza.
Mi piaceva percorrere ogni giorno, anche col tempo cattivo, come
una qualunque lavoratrice, il breve tratto di strada da casa mia
all’ufficio della rivista, lottando collo scirocco o colla tramontana.
Giungevo in redazione col volto un poco acceso per la corsa. Sedevo;
tagliavo le pagine delle riviste appena arrivate, dei libri nuovi.
Era una piccola ricognizione nel paese della coltura, ove erano
sempre per me regioni inesplorate, qualche mutamento di scena, qualche
rivelazione improvvisa. Notavo quello che mi proponevo di leggere, di
approfondire, o soltanto di sfiorare. E subito desideravo di portar
tutto a casa, di esser sola coi miei tesori sempre rinnovati; ma
l’editore usciva dal suo bugigattolo, sfogliava anch’egli, m’accennava
le «varietà» più insipide, metteva il dito sulle interviste, sulle
cronache del pettegolezzo letterario. La lotta dei romanzieri cattolici
coll’Indice, le conversazioni del Papa, ogni ricevimento intellettuale
della Regina madre: guai a lasciarsi sfuggire qualcosa di tutto ciò.
Facevamo delle distinzioni da causidico fra le redattrici, per poterci
rimbalzare l’una sull’altra questi temi, dei quali i più noiosi erano
talvolta bonariamente assunti dalla direttrice. Ella era talmente ricca
d’immagini e d’aggettivi, che si disimpegnava del lavoro in un attimo.
Dava sempre ragione all’editore: «C’è modo di far passare qualunque
cosa: con un po’ di garbo, caro Perugino, con un po’ di garbo puoi far
l’elogio tanto dello struzzo, provveditore dei cappellini, quanto di
Sant’Antonio, protettore del matrimonio!» E così con una barzelletta
risolveva ogni questione.
Garbo lei ce n’aveva! La disegnatrice norvegese aveva fatto tutta una
serie di caricature sul garbo della direttrice. Buona ragazza! La prima
volta che andai nel suo piccolo studio, sui Parioli, mi pose tra mano,
con un piglio speciale, tutto nordico, misto d’ingenuità e di furberia,
una cartella in cui mi vidi con mia enorme sorpresa disegnata in molti
atteggiamenti, dei quali alcuni mi lusingavano, altri mi stupivano,
molti m’offendevano acutamente nell’intimo. Era come uno specchio,
davanti al quale io non avevo posato e che m’aveva riprodotta quando
meno me l’aspettavo. Credo che per la prima volta mi diedi a riflettere
sull’ironia, questo frutto amaro di terribili delusioni, ch’io non
possedevo nè possederò forse mai, perchè non sarò mai del tutto delusa,
essendo il mio ideale lontano, oltre la mia breve vita.
Quand’ella portò a casa mia alcuni di quei disegni (veniva spesso, dopo
la malattia del mio bambino, per il quale sentiva una vera passione)
mio marito ne rise in modo goffo. Provai un certo dispetto contro
l’amica; ella dovette incominciare a indovinare quali rapporti fossero
tra lui e me.
Per guadagnarsi la mia confidenza mi narrò la sua storia. I suoi
l’avevano data, a sedici anni, a un pastore del suo paese. «Ah che
noia, mia piccola, che noia!» Compresi finalmente il significato vero
di questo ch’era il suo intercalare abituale, sovente impiegato fuor
di proposito. Il vederla raccontare con quella bocca mobilissima,
sempre sorridente,—ma con un sorriso che aveva tutte le sfumature,
dalla letizia al dolore,—col contrasto di quegli occhi d’un azzurro
implacabilmente sereno, la sua vita di cinque anni in casa del suo
santo carceriere, fu per me la rivelazione della grande arte spontanea
e profonda che mi si manifestò di poi nei capolavori nordici.
«Lui mi amava, sai! Eravamo due servi di Dio, e mi amava come una
compagna di servitù. E Dio era sempre presente, in ogni occupazione, a
tutte le ore, in tutti gli angoli della casa. Ah che noia, che noia!»
Un giorno ella gli aveva detto francamente che avrebbe desiderato
«andar lontano da Dio!» Ci fu una disputa. Lui amava prima Dio, poi
lei. Ella gli disse di scegliere....
«Il Dio degli italiani è più divertente—aggiungeva:—si può servirlo
senza stancarsi, perchè in fondo non siamo mica sicuri che lui si
accorga di noi. Quando se n’ha bisogno lo s’invoca, poi lo si saluta e
andiamo pei fatti nostri.»
E se n’era venuta sola in Italia, il paese vagheggiato sin dalla
fanciullezza; aveva fatto l’istitutrice, disegnato per giornali
di mode: l’esito dei primi saggi della sua arte originale l’aveva
incoraggiata a dedicarvisi interamente.
«Certi giorni ha avuto visita da una dama.... _Lady Hunger_, Madonna
Fame—raccontava la coraggiosa.—Era brutta, sai!»
Con lei entrava in casa mia un’onda di gaiezza. Ella riusciva a farmi
ridere come non avevo riso dagli anni infantili; il suo spirito mi
rianimava. Mio marito pure, ascoltandola, smetteva un poco il cipiglio
abituale; l’urtavano in principio quei modi spigliati e inconsciamente
provocanti di una donna artista che conosce la grazia della propria
persona e dei propri atteggiamenti; ma poi quella gioconda vitalità
femminea doveva averlo disarmato, ed anche quell’eleganza originale
degli abiti lunghi, ondeggianti e avvolgenti. Non protestava per
la crescente intimità nostra, ci accompagnava perfino a qualche
spettacolo, quando non era troppo preoccupato per le difficoltà della
sua impresa; ed arrischiava qualche scherzo, che ella accettava per
il suo sapore esotico, ricambiandolo con fini canzonature. Allora mio
marito si eccitava oltre misura. Una volta ch’ella gli fece con pochi
tratti, e ridendo con una punta di sprezzo, una caricatura atroce, egli
mi maltrattò per due giorni, finchè nella seguente visita ella non lo
calmò con alcune parole gentili.
La Rivista festeggiò il suo primo anniversario con un ricevimento. La
disegnatrice aveva allestito una piccola esposizione di bianco e nero,
in cui trionfava una serie di schizzi deliziosi sulla convalescenza
del mio bambino, il quale fu pure ammiratissimo in persona. Io m’ero
lasciata preparare un vestito dall’amica, una semplicissima tunica
bianca che accentuava il mio tipo che dicevano quattrocentesco.
La direttrice passava da un gruppo all’altro, corteggiata dalle
dame. Vedevo per la prima volta da vicino e nei loro parati di
cerimonia le nobili figure che una collega elogiava nella cronaca dei
ricevimenti, delle _garden party_, delle caccie alla volpe: fiori di
serra eccezionalmente curati, alcuni fragili, altri prosperosi, altri
morbosi. Conobbi fra esse due scrittrici, una poetessa che in versi
squisiti esalava una sensualità raffinata e agli spiriti alti quasi
ripugnante; una romanziera cattolica che eccelleva nell’analizzare
degli adulterî di desiderio coronati dal pentimento e dall’elogio
del matrimonio indissolubile. Queste due donne dal temperamento così
somigliante si odiavano e si sorridevano, mentre i loro mariti, due
principi romani militanti l’uno tra i guelfi, l’altro tra i radicali,
si scambiavano dei complimenti freddi.
La disegnatrice, alta, con una clamide di audacissimo giallo, su cui
la testa bionda si ergeva come una spiga, superando colla fronte
quasi tutte le persone nella sala, s’inchinava verso le damine come
su pupattole gentili: pareva appartenere ad un’altra umanità. Le si
avvicinò un momento una robusta matrona, un’attrice tragica quasi
settantenne, appunto mentre un professore, marito di un collega che
si occupava di questioni didattiche, mi chiedeva in tono un po’
pedantesco: «Questo è il regno di _Mulier_ o di _Foemina_?» Io non
potevo rispondere al suo latino, ma indicando verso quelle, gli dissi:
«Ecco due donne!»
Avevo conosciuto l’attrice presso la mia vecchia rivoluzionaria: erano
legate d’intimità da quasi mezzo secolo. Nei loro discorsi passavano
le figure eroiche della indipendenza nazionale. Repubblicana fervente
come il suo grande maestro, Gustavo Modena, l’artista udiva ora
affaticarsi le trombe della fama intorno ad attrici che erano mosse più
dai nervi che dall’anima: ella non aveva mai adulato nè i palchi, nè la
platea e credeva ancora che il teatro fosse una missione.
Accanto a lei tutto il mondo che si agitava in quella sala mi pareva
effimero. Com’erano rare e isolate le vere donne! _Domina_, signora,
m’aveva detto il galante professore. Signora di sè stessa la donna non
era di certo ancora: lo sarebbe mai?
La norvegese mi veniva ora incontro, accompagnata da un giovine alto
come lei, dall’aspetto simpatico di studioso: me lo presentò. Era
un fisiologo già favorevolmente noto. Mi dimostrò subito una grande
cordialità, mentre parevami che la disegnatrice lo incoraggiasse. La
sua simpatia verso di me non era che un riflesso di quella che lo
legava evidentemente all’amica mia: non era difficile, guardandoli
mentre si scambiavano delle osservazioni comuni, sentire che qualcosa
come un intimo consenso li univa nei loro silenzi.
Mio marito restava in un angolo, disorientato, senza saper nascondere
il suo malumore, rasserenandosi soltanto quando la norvegese,
sollecitata da tutte le parti, gli si avvicinava. Gli portai il bimbo,
per dargli modo d’avere un contegno: egli lo respinse: «Vuoi disfartene
per brillare!»
Dolore e sdegnò m’assalirono. Pretestai una indisposizione ed uscimmo.
Nè per istrada nè a casa parlai. A che pro? La sua non era gelosia:
era un livore oscuro, era umiliazione, era manìa d’imporsi, come per
sfida, vedendo affermarsi la possibilità della mia indipendenza. Ed
io non osavo arrestarmi un attimo a considerare l’ironia della mia
condizione!... Perchè avevo quasi terrore che altri lo intuisse? Mi
pareva che una voce dal profondo mi tacciasse d’ipocrita, oltre che di
vile....
* * * * *
L’opera sparsa e faticosa che andavo compiendo non mi confortava
molto delle intime disfatte. Cominciavo a spiegarmi la mancanza in
Italia di un nucleo che disciplinasse i tentativi e le affermazioni
d’indipendenza femminile. La solidarietà femminile laica non esisteva
ancora. Invece il cattolicismo, che aveva sempre imposto alla donna
il sacrificio, consentiva ora ad una certa azione muliebre, ma
sotto la propria sorveglianza. Contro questo nuovo pericolo nessuno
s’agguerriva. Anzi, come ben mi indicava la vecchia amica, i liberi
pensatori di Montecitorio mandavan le loro figlie in istituti retti da
monache, allo stesso modo che quelli del paese laggiù mandavan le mogli
al confessionale.
«Femminismo!—esclamava ella.—Organizzazione d’operaie, legislazione
del lavoro, emancipazione legale, divorzio, voto amministrativo e
politico.... Tutto questo, sì, è un còmpito immenso, eppure non è che
la superficie: bisogna riformare la coscienza dell’uomo, creare quella
della donna!»
E la buona vecchia, la cui energia contrastava vittoriosamente colla
gravezza penosa della persona, mi portava con lei a vedere le sue opere
nuove o rinnovate. «Agire! questa è la vera propaganda!»
Ella aveva aperto da poco, accanto al riparto femminile dell’ospedale
celtico, ove era ispettrice, una specie di scuola per quelle
disgraziate, una sala bianca dove le inferme potevano ricevere un po’
d’istruzione elementare, leggere qualche libro, ascoltar qualche parola
che agitasse in fondo alla loro povera sostanza calpestata una brama
di rinnovamento, di salvezza. Un giorno entrai anche là. Oh, non vi
rievocherò, dolorose sorelle, in queste pagine! Io devo rivedervi, devo
sentirmi rivelare da voi ancor più cose che non potei in quell’unico
e omai lontano incontro. È un voto che non ho ancora sciolto, e che
ho formulato fin d’allora, quando rientrai a casa e mi strinsi al
cuore mio figlio e mi domandai con terrore—la prima volta!—se avrei
potuto custodire illeso quel fiore di vita, avviarlo integro e libero
all’incontro della sua compagna....
Tra le due fasi della vita femminile, tra la vergine e la madre, sta
un essere mostruoso, contro natura, creato da un bestiale egoismo
maschile: e si vendica, inconsapevolmente. Qui è la crisi della lotta
di sesso. La vergine ignara e sognante trova nello sposo un cuore
triste e dei sensi inariditi; fatta donna ed esperta comprende come il
suo amore sia stato prevenuto da una brutale iniziazione. Fra i due
torna spesso l’intrusa, e il solo ricordo avvilisce ogni loro bacio.
Mio figlio! Chi gli avrebbe fatto la sacra rivelazione? Gli avrei mai
potuto dire che egli doveva essere, un giorno, per la sua donna?
V’era nel mondo che si agitava intorno a noi tanto scetticismo, tanta
viltà! Non avevo assistito ad una seduta della Camera dei Deputati,
durante la quale un’interpellanza su la tratta delle bianche era
stata con disinvoltura «liquidata» in cinque minuti da un ministro
che dichiarava esser la legislazione italiana su tale rapporto assai
migliore che in altri paesi, mentre nell’aula quasi spopolata alcuni
onorevoli sbrigavano il loro corriere o chiacchieravano disattenti?
Un deputato clericale gemette lugubremente sulla necessità di questa
«valvola di sicurezza del matrimonio», interrotto dall’interpellante
che chiamava il matrimonio un feticcio a cui si sacrificavano creature
umane. Due sotto-segretari puntavano i binocoli nella tribuna delle
signore pavoneggiandosi: poi si passò ai bilanci....
Mi pareva strano, inconcepibile che le persone colte dessero così poca
importanza al problema sociale dell’amore. Non già che gli uomini
non fossero preoccupati della donna; al contrario, questa pareva la
preoccupazione principale o quasi. Poeti e romanzieri continuavano a
rifare il duetto e il terzetto eterni, con complicazioni sentimentali
e perversioni sensuali. Nessuno però aveva saputo creare una grande
figura di donna.
Questo concetto m’aveva animata a scrivere una lettera aperta ad un
giovane poeta che aveva pubblicato in quei giorni un elogio delle
figure femminili della poesia italiana. Fu un ardimento felice, che
ebbe un’eco notevole nei giornali e fece parlare di _Mulier_ con
visibile soddisfazione dell’editore. Dicevo che quasi tutti i poeti
nostri hanno finora cantato una donna ideale, che Beatrice è un simbolo
e Laura un geroglifico, e che se qualche donna ottenne il canto dei
poeti nostri è quella ch’essi non potettero avere: quella ch’ebbero
e che diede loro dei figli non fu neanche da essi nominata. Perchè
continuare ora a contemplar in versi una donna metafisica e praticare
in prosa con una fantesca anche se avuta in matrimonio legittimo?
Perchè questa innaturale scissione dell’amore? Non dovrebbero i poeti
per primi voler vivere una nobile vita, intera e coerente alla luce del
sole?
Un’altra contraddizione, tutta italiana, era il sentimento quasi
mistico che gli uomini hanno verso la propria madre, mentre così poco
stimano tutte le altre donne.
Questi furono chiamati paradossi da molti giornali, ma alcune lettere
di giovani mi dimostrarono che avevo toccato un tasto vibrante.
Una sera a teatro la vecchia attrice, nel suo palco, aveva avvertito
due lagrime brillarmi negli occhi. Non avevo mai pianto per le finzioni
dell’arte. Sulla scena una povera bambola di sangue e di nervi si
rendeva ragione della propria inconsistenza, e si proponeva di diventar
una creatura umana, partendosene dal marito e dai figli, per cui la
sua presenza non era che un gioco e un diletto. Da vent’anni quella
simbolica favola era uscita da un possente spirito nordico; e ancora
il pubblico, ammirando per tre atti, protestava con candido zelo
all’ultima scena. La verità semplice e splendente nessuno, nessuno
voleva guardarla in faccia!
«Avessi un quarto di secolo di meno!—esclamava la mia grande artista
con la sua voce ancora magica—io l’imporrei!»
Ed ero più che mai persuasa che spetta alla donna di rivendicare sè
stessa, ch’ella sola può rivelar l’essenza vera della propria psiche,
composta, sì, d’amore e di maternità e di pietà, ma anche, anche di
dignità umana!
* * * * *
Venne l’estate; due mesi torridi, incerti nei ricordo. Le amiche, il
«profeta», tutti erano fuori di Roma. Il mio lavoro era cresciuto,
nell’assenza della direttrice, andata in montagna a cercar un po’
d’aria fresca e la trama d’un nuovo romanzo. Trovavo nondimeno un’ora
ogni giorno per rifugiarmi col bimbo a Villa Borghese, e mentre egli,
con la felice facoltà di distrazione della sua età, giocava insieme a
compagni improvvisati, io leggevo, riposando ogni tanto gli occhi su le
linee melodiose dei grandi pini.
Mio marito? Non so, non lo rivedo distintamente: ho solo l’impressione
fastidiosa della sua voce un po’ rauca, pronta in ogni momento a
lagnanze e ad offese, della sua fronte accigliata, in cui una nuova
ruga diritta si approfondiva nel mezzo, mentre l’ira gli accentuava
gli zigomi e le mascelle. Una mal repressa ostilità cresceva in lui,
sempre più. Le notti dovevano essere come sempre; non ricordo; penserei
quasi di non esser stata infastidita se non riflettessi ch’egli non
era capace di rispettar la donna sua neanche quando un malessere o la
stanchezza la prostravano.
In realtà non stavo bene: mi si venivano acuendo, da vario tempo,
certi disturbi che sopportavo fin dai primi tempi della mia maternità,
indici dell’intimo dissesto dell’organismo; e talora mi si affacciava
il dubbio che essi avessero qualche causa più segreta, paurosa.... La
dottoressa mia collega, un giorno, discorrendo, m’aveva detto che pel
mondo sono a centinaia di migliaia le donne che non sanno di essere
debitrici di lenti e oscuri travagli ai loro mariti. Non avevo osato
interrogarla in modo preciso; e non l’osai neppure allorchè, verso la
fine di quell’estate, mi sentii tanto sofferente di dover guardare il
letto per più d’una settimana. Mi rialzai sfinita; con una stanchezza
mortale in tutte le membra.
Giungevano intanto lettere tristi delle mie sorelle. Nostro padre era
in uno stato d’irritazione acuta perchè gli operai, organizzatisi
fortemente, minacciavano scioperi. In casa egli trovava un’atmosfera
altrettanto ostile, che doveva aumentargli l’esasperazione. Anche
mio fratello frequentava ora i socialisti del paese, e insieme alle
sorelle ascoltava con passione le parole dell’ingegnere. Una strana
forza di suggestione era in questo giovane! Le fragili anime de’ miei
minori l’avevan tutte esperimentata, ed il timore del padre era quasi
scomparso nella comunione di quell’infiammato spirito teorico. Da due
anni ormai la fidanzata languiva nella passione contesa. Io pensavo
ai suoi fieri e dolci occhi oscuri che dicevano la malìa del sogno
fioritole in cuore. Felice? Ella lo era, certo, malgrado le lagrime
che le faceva versare l’astio crescente tra il padre e l’innamorato.
Nell’inverno avrebbe compiuto i ventun’anni; avrebbe allora lasciata la
casa per quella dello sposo. Era ben decisa. Ma la preoccupava la sorte
dell’altra bimba: avrebbe potuto il fratello tenerle luogo di tutti gli
affetti che le venivano via via mancando?
E frattanto la situazione in fabbrica diventava insostenibile.
Il babbo sfidava gli operai. Minacciava di abbandonare per sempre
l’impresa a cui da tanti anni dava tutto il vigor suo. Non poteva
ammettere un controllo, una volontà emanante dai subalterni.
La minaccia si effettuò. Al principio dell’autunno egli ruppe il
contratto col proprietario, lasciandogli un mese di tempo per
provvedere a una nuova direzione. Mia sorella me ne informava tutta
angosciata per il timore di dover lasciare il paese avanti le nozze.
Con un sorriso un poco amaro dissi a mio marito:
«Ora, dovrebbero chiamar te.... Accetteresti?»
Lo vidi restar sospeso un istante. Poi rispose un no stanco, e troncò
il discorso.
Il mattino seguente, un telegramma di mia cognata avvertiva che il
proprietario della fabbrica, sceso a patti cogli operai, aveva fatto il
nome di mio marito per il posto di direttore.
Mi par di riudire lo scoppio di risa in cui diedi quando sentii il
contenuto del foglietto giallo. Partire, tornar laggiù, veder mio
marito al posto di mio padre.... Che ironia!
Egli tacque. Era turbato. Lo guardai, e mi parve che il viso gli si
atteggiasse istintivamente a una dignità nuova, come se il fatto
d’esser creduto meritevole d’un incarico importante bastasse a
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