Una Donna - 09

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ultraterrena. Io la rivedo in quell’ultima notte del mio povero amico;
con una mano asciugava il sudore della bella fronte divenuta livida,
coll’altra accostava ogni tratto alla bocca già irrigidita, ove appena
poteva infiltrarsi qualche goccia di cordiale, l’immagine d’un santo.
Così spontaneo e tranquillo quell’atto, che pareva quasi impossibile
anche per noi non attendere il miracolo.
Il rantolo sinistro era incominciato quando entrò il prete per
l’estrema unzione. Volevo assistervi, per deferenza verso la
sventurata; ma vi rinunciai dopo i primi istanti. L’intimo mio essere
si ribellava a quel rito insulso a cui lo spirito omai assente aveva
ripugnato in vita. Mi ritrassi nella stanza accanto, ove si trovavano
mio marito, i medici, qualche amico. Giungevano le voci sommesse
delle donne, un coro indistinto che accompagnava quella monotona
del sacerdote: n’avevo il senso d’un sopruso; pregai mio marito
d’accompagnarmi via, a casa, lontano, poichè nulla più per me v’era, in
quel luogo, della persona cara.
All’alba vennero ad annunziarci la morte. Mio marito si alzò ed uscì
subito. Io avrei voluto piangere e non potevo: il mistero, quel mistero
mostruoso ed augusto della _fine_ mi soggiogava. Solo dopo un’ora,
forse più, vinse l’umile istinto, pensai alla perdita ch’io faceva, e
la pietà di me e di quanti non avrebbero mai più sentita la voce ferma
ed affettuosa, si sciolse in lagrime desolate.
Tra le lagrime pensavo che egli m’era stato accanto dal tempo del mio
matrimonio; sei anni. Ambedue così diversi dall’ambiente, così soli! Un
momento la sua anima s’era tesa verso di me: l’avevo sentito. L’avrei
amato? Perchè nulla ci aveva spinti l’una nelle braccia dell’altro,
aveva unito le nostre due energie che forse nell’intimo non erano
estranee? Forse era mancata una parola, un impulso?
Destino! Egli spariva, pensando forse di portar seco il suo segreto.
Io restavo, più che mai sola, ove diretta? per quale fine superiore
salvaguardato dall’odio e dall’amore?
* * * * *
Non ricordo chiaramente gli ultimi giorni passati laggiù, non rammento
alcun particolare....
Rivedo il mio bambino scoppiare in pianto mentre io gli dico di dare
l’addio alla camera ove egli è nato, e donde i mobili son partiti.
Ho l’impressione della stretta alla gola provata quando, andata in
casa de’ miei per salutar mio padre e strappargli una parola buona,
ricevetti poche frasi aspre troncate all’improvviso da una voltata di
spalle.... Come in una nebbia mi si presenta un’altra scena pungente:
mia cognata che scaglia invettive alle mie sorelle sgomente, venute in
casa sua per abbracciarmi l’ultimo dì; e mia suocera che geme senza
fine....
Un’ultima visita a mia madre: un vano appello al passato, la tortura di
quell’occhio senza sguardo, di quella voce un po’ roca che rideva....
Il mare, la campagna, le strade del borgo, in quella fine di settembre,
dovevano avere una fisionomia dolcemente stanca, mandare la migliore
espressione della loro anima.... Dopo undici anni dacchè li avevo visti
per la prima volta, li lasciavo, movendo incontro all’ignoto. Undici
anni tragici, lungo i quali la mia sostanza si era andata foggiando
di lagrime, lagrime di ribellione, lagrime di sommissione, lagrime di
riconoscenza, anche, al Mistero invincibile.... Li lasciavo senza uno
sguardo, quasi fuggissi, quasi temessi di scorgere un riso ironico
nelle loro penombre, l’avvertimento di non stimarmi troppo presto
liberata.


XV.

Pel cielo glorioso le nuvole andavano, tutte avvolte dal sole, mutevoli
e continue: le piazze, le fontane, le case di pietra e le cupole e il
fiume e le pinete incise sull’orizzonte, e il deserto della campagna
e i monti lontani, tutto pareva seguire il lento viaggio delle nubi,
tutto era com’esse immerso nella luce meravigliosa e com’esse appariva
fluido ed eterno.
Anch’io ero già passata sotto quel cielo che ora riguardavo; ed anche
in quel mio passaggio di adolescente l’anima s’era sentita dilatare
al cospetto dell’infinito azzurro. Non ero la medesima, ancora? Non
cominciava ora la giovinezza? Roma appartiene allo spirito che la
desidera con volontà, e mantiene tutto quanto le si chiede con vigore
d’anima. E forse non era tanto lontano il giorno in cui avrei compreso
in un solo sguardo la città unica, l’avrei sentita tutta nel palpito
del mio cuore.... Frattanto, che ebbrezza e che estasi assistere con
mio figlio ai lunghi tramonti di fiamma dalla terrazza del nostro
quartierino, con dinanzi il fiume e Monte Mario, dopo aver lavorato ore
e ore nel silenzio dell’alto studiolo!
Mi sembra di non poter raccontare quei miei primi mesi di vita
romana, così come non ho potuto raccontare la mia infanzia. Tutto
ciò che è succedersi d’impressioni, vita pulsante per eccitazioni
esteriori, scintillìo di immagini, eco di suoni, non può essere da me
risuscitato,...
Città di esaltamento e di pace!
Riserbandomi di penetrare poco per volta la bellezza e la maestà
dei luoghi sacri, esploravo lietamente le parti moderne, che mi
risuscitavano il senso dell’energia umana avuto nella fanciullezza.
Ma ad ogni tratto, dalla confusione e dal frastuono della vita
febbricitante mi trovavo repentinamente trasportata davanti a quadri
di silenzio e di sogno, lontano, in epoche non conosciute quasi,
fuorchè in leggende. Ed erano anche aspetti improvvisi di civiltà
più prossime e più note al mio spirito, e l’impressione talora della
presenza di grandi anime non ancora estinte, non ancora lontane dalla
terra così improntata di loro. Se ero sola o col piccino soltanto e
nulla d’estraneo mi turbava, l’intensità della commozione mi faceva
qualche volta salire alla gola un singhiozzo. L’avvenire si velava,
s’allontanava: il presente appariva più indecifrabile. Ed io, piccola
accanto al mio piccino, quasi dileguavo alla mia stessa coscienza.
Mi riscuotevano presentimenti vaghi di un’altra parola ancora che la
città doveva dirmi. Intorno ai nuclei di pietra che rappresentavano
memorie grandiose o attualità mediocri, sapevo che esistevano cinture
di miseria, agglomeramenti di esseri che la società fingeva d’ignorare
e nei quali intanto fermentava forse il segreto del domani....
Chi me n’aveva parlato così presto? Oh, foste voi, mamma buona mia e
di quanti avete incontrato nella vita! Eravate, quel primo giorno in
cui v’abbracciai, nel vostro ritiro sul Gianicolo. Le pareti coperte
di ritratti, celebri ed ignoti, di grandi uomini e di bambini. La
scrivania ampia, carica di carte. E voi, con la persona un poco
pingue e curva, con qualcosa di mia madre nei tratti del volto, voi
mi chiamaste figliuola, subito, e vi prendeste sulle ginocchia il
mio bimbo, e ci guardaste a lungo entrambi, coll’espressione un poco
astratta dei vostri dolci occhi, come a strapparci il segreto di quella
nostra fusione per cui pareva che la piccola creatura aderisse ancora
alla mia persona. Che cosa indovinaste? Mai, mai ho sentito, in un
silenzio, tanta improvvisa compenetrazione. E quando incominciaste a
parlare, a dirmi di qualcuna delle opere create in tanti anni dalla
vostra meravigliosa volontà di giustizia, mi parve che un tacito
convegno aveste dato alla mia anima....
Poi.... Poi l’ingranaggio del lavoro m’aveva afferrata. _Mulier_ aveva
i suoi uffici accanto a Piazza di Spagna. Io vi andavo due o tre volte
la settimana, ma, come s’era convenuto, sbrigavo a casa il mio còmpito,
ch’era di riassumere e tradurre articoli dai periodici esteri o di
render conto di qualche libro. L’accoglienza della direttrice era
stata cordiale, con una viva sorpresa per la mia giovinezza. Scrivevo
cose tanto serie «con quel piglio di madonnina»!
Avevo subito capito che il suo nome era per la rivista più che
altro una preziosa insegna, ma che in realtà chi disponeva di tutto
nell’azienda era l’editore, un ometto rosso e vivacissimo. L’illustre
scrittrice, poco più che quarantenne, ancor piacente, divideva il suo
tempo fra i suoi romanzi, la sua famiglia e il suo salotto. La sua
fama era incominciata una quindicina d’anni prima, ed ora ella si
trovava in quel momento critico della carriera in cui si riconosce
che la propria arte sta per essere oltrepassata e si comincia a
temere di venir dimenticati. Forse perciò aveva ritenuto conveniente
di non trascurare quel nuovo mezzo che le si offriva di richiamare
a sè l’attenzione del pubblico. Alcune pagine veramente geniali
d’osservazione e d’espressione costituivano il valore della sua opera,
troppo copiosa e poco meditata. Negli ultimi tempi ella aveva bensì
accolto qualcuna delle idee nuove, ma senza passione. Mancandole
ogni ardore d’apostolato, ella non s’indignava di veder la sua
rivista divenire manifestamente una speculazione commerciale. Dietro
l’indolenza di lei, l’attività dell’editore mi pareva simboleggiasse
tutto un gruppo di interessi minacciati dalle nuove tendenze della
donna. Quel piccolo borghese dall’aspetto quasi misero, dai vestiti
sciupati, sempre tappato in un polveroso bugigattolo accanto al salone
della direttrice, rappresentava i mercanti che si arricchiscono sulla
vanità, sulla futilità femminile: introduceva i loro richiami fra le
creazioni delle donne artiste, fra le perorazioni delle emancipatrici,
fra le esortazioni delle consolatici, delle madri sociali.
Il modello era giunto dalla Francia, come pei cappellini. Il buon
gusto della direttrice e la furberia dell’editore s’accordavano nel
dare un certo nesso alle cose disparate che la rivista conteneva. Così
essa poteva introdursi negli ambienti più opposti; e se ad una donna
di seria coltura non poteva offrire che una mezz’ora di svago, alle
gentili oziose, fra l’una e l’altra curiosità poteva forse insinuare
la nozione vaga di un’esistenza più grave che si svolge parallela alla
loro, e anche il senso oscuro ed inquietante della fermentazione di
tutto un mondo nuovo.
Ciò era ben poco vicino al programma scritto dalla direttrice in un
attimo d’entusiasmo. I primi giorni m’ero sentita umiliata, e soltanto
per la necessità di non provocare i sarcasmi di mio marito, avevo
iniziato di buona volontà il mio lavoro, piuttosto gravoso per una
principiante. Egli non mi perdonava di averlo indotto a gettarsi nel
caos cittadino e s’accingeva fiaccamente alla sua impresa; per tanti
anni abituato ad un lavoro metodico, subalterno, la libertà e la
responsabilità gli erano d’impaccio; non riusciva a formarsi per suo
conto un programma quotidiano e si volgeva astiosamente ad osservarmi,
promettendosi certo di farmi sentire la propria autorità al primo
accenno d’indipendenza.
Il maggior vantaggio del mio nuovo impiego era per me la gran quantità
di pubblicazioni di ogni paese che pervenivano alla redazione e
che potevo portarmi a casa per leggere. In seconda linea mettevo
la possibilità di studiare in quel singolare ambiente qualche tipo
caratteristico di donna: una dottoressa in medicina forniva nozioni
d’igiene, fra cui l’editore inseriva gli indirizzi dei profumieri,
delle bustaie e dei medici della bellezza; una norvegese alta,
biondissima, con un nasino all’insù ed occhi azzurri e calmi,
illustrava le novelle e componeva fiabe figurate pei bambini; ad una
giovane signora le cui condizioni di famiglia non consentivano di far
valere altrimenti il suo titolo di nobiltà e la sua «distinzione» s’era
affidata la cronaca mondana. Nel salotto della direttrice, che mio
marito mi permetteva di frequentare ogni tanto, a patto che evitassi di
annodar relazioni, s’incontravano delle personalità di vario valore. Da
un cantuccio, inosservata, avrei potuto acquistare quel concetto della
realtà che i libri non erano capaci di darmi completamente.
Pochi giorni dopo l’inizio del mio lavoro ero stata a vedere la
tipografia ove la rivista si stampava; l’editore m’aveva fatto da
guida, col sorriso lievemente canzonatorio che errava sempre sulle sue
labbra tumide: un compositore aveva sulla sua cassa una mia cartella:
bisognava aggiungere alcune parole per comodo dell’impaginazione; e lì,
nel frastuono delle grandi macchine, avevo visto l’operaio tradurre
immediatamente in caratteri le parole ancor umide; il mio cuore in
petto batteva e i miei occhi si velavano....
Tornavano dunque i tempi delle buone fatiche, quando tra gli operai
di mio padre lavoravo gaia e trepida? Era stato un sogno il lungo
intervallo, i giorni della reclusione laggiù, in un’afosa camera, sola
col mio bimbo, l’anima gonfia di tragiche fantasie?
L’autunno romano svolgeva intorno la sua magnificenza. Io proseguivo
ne’ miei vagabondaggi assaporando tutto l’incanto misterioso degli
spettacoli che mi si svolgevano dinanzi come altrettanti simboli. E
talora mi passavano accanto rapide al par di fantasmi e mi guardavano
per un attimo figure gravi e singolari, scienziati forse, forse
stranieri a cui il sole d’Italia illuminava verità interiori, forse
utopisti che avevano per patria l’avvenire. Ero ancora una romantica,
ecco, e non me ne dolevo: c’era tanta somma di vicende nel passato di
cui vedevo i vestigi, che potevo bene immaginare nel futuro le più
felici possibilità umane.
Mi rivedo nello studiolo, in un pomeriggio di novembre avanzato, col
sole che mi obbliga a farmi schermo della mano agli occhi. Dinanzi
a me è seduto un uomo pallido, emaciato, in cui brillano due occhi
neri e grandi: tutta la testa è bella, serena e tormentata insieme,
e la parte inferiore esprime una volontà sicura, e l’alta fronte una
sovrana pace. Egli interrompe a ogni tratto il suo dire per chinarsi
verso il bambino steso sul tappeto, ai nostri piedi, e fargli scorrer
sui riccioli la mano delicata, pallida. Alle spalle sento mio marito
che sfoglia distrattamente un libro per darsi un contegno. Colui
che parla m’è stato presentato qualche giorno innanzi dalla buona
vecchia amica. Autore di alcuni opuscoli assai commentati, il suo
pseudonimo suggestivo mi era già noto prima: avevo saputo che celava
un alto funzionario dimessosi dal suo ufficio per poter liberamente
difendere il vero; in dura povertà, egli attendeva ad un grande lavoro
filosofico. Il suo sorriso di simpatia spontanea mi aveva tutta
compiaciuta e m’aveva dato l’ardire d’invitarlo in casa mia malgrado la
diffidenza di mio marito.
Egli mi dice tante cose, con una voce calda a cui l’accento meridionale
dà una velatura di dolcezza. Dice senza enfasi, come ascoltando un
dettame interno: sulla donna, sulle leggi, sul costume, esprime la mia
stessa critica, con la vigorosa semplicità che a me manca; ma intorno
alla scienza, intorno ai sistemi di ricostituzione sociale oggi in
voga, le sue parole diventano singolari per ironia, per disprezzo; mi
esorta a ritenermi fortunata per la mia mancanza di studi; demolisce,
seccamente, la base delle vane ed orgogliose ricerche che l’umanità ha
in corso; e, ad un tratto, alzatosi in piedi, sembra che una visione
immensa si stenda dinanzi alla sua anima, per lui soltanto. E subito
egli non parla già più di errori e di follìe, e neppure di sacrifizî;
accarezza di nuovo il bimbo, accenna alla propria infanzia selvaggia,
mi stende la mano con moto rapido, come segnando un patto. Se ne va,
col suo segreto....
Mio marito tace, esce anch’egli dopo un momento; il piccino mi vede
assorta, continua a guardar le immagini di un grosso libro. Penso a mio
padre, ai brividi che certi suoi accenti mi davano negli anni lontani
in cui assorbivo da lui la vita dello spirito. Fino a quel giorno
nessuno più m’era apparso dinanzi come un’individualità libera, come
un interprete della verità, come un maestro. Credevo che l’èra dei
veggenti fosse chiusa: non era dunque vero?
Una vertigine mi afferra, per un attimo. Indi la calma torna. Non sono
pronta ad affrontare qualunque rivelazione? E prima di riprendere
il mio povero lavoro di giornalista guardo dalla terrazza il disco
abbagliante del sole sopra i cipressi di Monte Mario, e le due fasce
incandescenti che lo attraversano e arrossano l’orizzonte. E mi pare
che quel tramonto si fisserà per sempre nel mio ricordo.


XVI.

Venne Natale, cogli arbusti delle rosse bacche sui gradini della
Trinità dei Monti, coi presepi di Piazza Navona, delizia del mio
piccino; venne la stagione dei teatri e delle conferenze, ed il
febbraio coi primi rami fioriti; per le vie stormi di giovani
straniere, alte, bionde e ridenti, passavano recando sulle braccia le
candide nuvole di petali. Talvolta anch’io e il mio bimbo portavamo a
casa quei tenui annunzi primaverili. Dalle pareti alcune fotografie, le
Sibille della Sistina, il tragico e dolce Guidarello sul suo guanciale
di pietra; un calco dell’Erinni dormente, dono della disegnatrice
norvegese; alcuni ritratti, Leopardi, George Sand coi grappoli di
neri capelli, Emerson, Ibsen, figure di geni e di simboli, sembravano
animarsi nei luminosi riflessi dei fiori, lievemente colorirsi.
Scendeva da essi come un conforto alla fatica e alla speranza. Il bimbo
correva a giocare sul terrazzo. Lavorando, continuavo a sentirmi alitar
nello spirito, in maniera confusa, le idee e le imagini accolte durante
la passeggiata, nei prati di Villa Borghese o sulla deserta duna del
fiume.
La sproporzione fra questi pensieri e il lavoro alquanto meccanico
che compievo era grande. Ma non mi dava pena. Ormai le mie velleità
ambiziose di scrittrice eran lontane: trovavo una certa bellezza
anche nel còmpito oscuro di trascegliere notizie e raccogliere dati
di fatto intorno agli argomenti che più mi premevano. E m’indignavo
vedendo piovere in redazione libri mediocri firmati da donne, vere
parodie di libri maschili più in voga, dettati da una vanità ancor più
sciocca di quella delle pupattole mondane di cui l’editore riproduceva
in fotografia gli appartamenti _modern style_. Come mai tutte quelle
«intellettuali» non comprendevano che la donna non può giustificare
il suo intervento nel campo già troppo folto della letteratura e
dell’arte, se non con opere che portino fortemente la sua propria
impronta?
Esprimevo tali considerazioni alla direttrice, trepidando, per la
mia abitudine al silenzio e per timidezza. La direttrice mi guardava
sorridendo con gli occhi miopi, sospirava, e qualcosa come una leggera
ombra passava in essi. Mi pentivo quasi delle mie osservazioni:
immaginava forse che la piccola sconosciuta ch’io ero, il suo
«Perugino» com’ella mi chiamava, osasse giudicare anche la sua opera?
Di quest’opera ella non era del tutto soddisfatta, lo sapevo: e
neppure di sè, della sua vita intima doveva esser lieta. Suo marito,
giurista di valore, non era il compagno creato per lei, benchè avesse
intelligenza, cultura, gusto fine, e paresse a tutti un marito e un
padre modello. Non aveva mai intralciato in alcun modo le aspirazioni
della moglie. Si stimavano reciprocamente: per le due figliole
restavano uniti e volevano farsi credere felici. Ma la maggiore di
queste, forse, cominciava a indovinar qualcosa: i suoi diciotto anni
rivelavano una personalità già forte, e sotto la bellissima fronte
venata d’azzurro dovevano maturar propositi di fiera coerenza tra la
sua vita e l’ideale. Ella era l’avvenire. Dinanzi a lei avevo sentito
per la prima volta che v’erano esseri più giovani di me, che avrebbero
potuto ereditar da me qualche favilla e tramandarla più alta nel tempo.
Ma sarebbe mai apparso fuor della mia anima un segno dell’interno fuoco?
La stessa domanda mi pareva di leggere qualche volta negli occhi della
buona vecchia mamma dei miseri, quando nel suo ritiro, ai suoi piedi
su uno sgabello, l’ascoltavo parlarmi della sua vita meravigliosa. Se
la figliuola della direttrice mi rappresentava la speranza del domani,
il formarsi di tutta una umanità muliebre più conscia e dignitosa,
questa donna a cui la fronte splendeva sotto i capelli bianchi era
bene l’immagine del genio femminile manifestatosi attraverso i secoli
in qualche rara individualità più forte d’ogni costrizione di legge
o di costume. Mazziniana fervente nella sua prima gioventù, aveva
trasportato presto la sua forza rivoluzionaria nel campo sociale. Il
suo temperamento la spingeva all’azione diretta e non alla propaganda.
Da trent’anni, dacchè era arrivata alla capitale dalla Lombardia e
s’era unita liberamente con uno scultore illustre, il suo lavoro per
redimere sventure era stato incessante, incalcolabile. La sua pazienza
nel perseguire miglioramenti parziali, riforme d’istituti benefici,
aiuti degli enti pubblici, la sua tenacia nel bussare alle porte dei
ricchi per ottenerne la piccola elemosina, contrastavano stranamente
con la sua credenza nella necessità ultima di sconvolgere col fuoco e
col ferro la massa oppressiva delle istituzioni formate dalle classi
superiori. Aveva mai lasciato intravedere questo terribile pensiero a
qualcuno dei giovani operai che la ascoltavano nella Scuola Popolare
da lei fondata? La sua ricca natura univa l’amore pratico per la vita
umana all’indignata rivolta teorica contro i tarlati ordinamenti; e
nessuno come lei sentiva la tragica bellezza della nostra epoca, coi
suoi sparsi tentativi sociali, coi suoi presentimenti di rivelazioni
scientifiche innovatrici e colla ricerca di nuove idealità oltreumane.
In tanti anni, nell’ambiente artistico e cosmopolita del compagno e
in quello popolare ch’ella studiava, aveva conosciuto grandi poeti
ed ex-galeotti, donne sventurate e donne depravate, uomini di Stato
e fanciulli vagabondi. Anche ora nel suo studiolo apparivano donne e
uomini dai più diversi linguaggi, e sembrava che sfilasse così dinanzi
a lei l’umanità, varia e una. Talvolta udivo costoro parlare d’altre
genti ancora, di moltitudini remote che della vita e dell’universo
hanno una concezione per noi incomprensibile. Il pensiero della
nostra civiltà in cammino su una parte così piccola del pianeta mi si
presentava con sgomento. Roma, sì, era il centro ideale, la comune
patria delle stirpi privilegiate. Ripartivano quei pellegrini che
avevano tante, tante aspirazioni comuni e che non potevano contemplare
una comune opera irradiata da questo cuore del mondo, Roma!
Alternative d’entusiasmi e di scoramenti. La prima volta che penetrai
colla vecchia amica in alcune case del quartiere di San Lorenzo,
sentii divampare improvviso, anche nel mio sangue, l’oscuro istinto
della distruzione.... Su la strada il cielo splendeva intenso: i colli
tiburtini, in fondo, sorgevano come un paese di serenità. E negli
ànditi dei portoni già si obliava il sole; si salivano delle scale,
chiazzate d’acqua, buie; e ai lati dei pianerottoli s’aprivano corridoi
neri, e da questi uscivano donne scarmigliate, il seno mal coperto da
camice sudicie, lo sguardo ostile.... Da quali profondità di orrore
sorgevano le tremende apparizioni? E le voci rauche non imploravano
neppure, davano notizie di malattie, di nascite, di scioperi forzati,
di ferimenti, con indifferenza. Scendeva dai piani superiori qualche
bimba bionda, ancora rosea, ancora coll’arco delle labbra aprentesi ad
un sorriso schietto. Scompariva. E dalle stanze spalancate esalavano
odori insopportabili, e dall’intero casamento, in basso, in alto,
uscivano strilli, lamenti, richiami....
Oh quel paese di serenità che si staccava ancora sull’orizzonte,
lontano, quando tornavo su la strada! Rifugiarsi là, tra il verde e le
acque, dimenticare che degli esseri umani, uguali a me, a mio figlio,
a quella santa creatura che mi guidava, vivono fasciati di cenci, col
respiro corto, colle membra fredde, senza saper neppure che cosa li
tien chiusi in quegli antri con mano dì ferro!
Il dovere era là, nella mischia, in faccia a quella realtà
spaventevole. E lì bisognava trascinare tutti quelli che godono
della luce, dell’aria pura, delle cose belle, semplici o raffinate,
necessarie o superflue; tutti quelli che passeggiano sorridendo tra i
palazzi e le fontane, che si affollano agli spettacoli, che si pigiano
al passaggio di qualche principe o all’inaugurazione di qualche statua
vana. Trascinarli. E quando potessero ancora dimenticare, suonasse pure
l’ora della catastrofe!
* * * * *
Un essere solo m’appariva al di sopra di questo dovere e m’afferrava e
teneva sospesa l’anima oltre ogni visione di male e di bene. Era l’uomo
misterioso che sembrava possedere qualche grande segreto sulla vita, il
«profeta» come la direttrice di _Mulier_ sorridendo lo designava. Mio
marito faceva per lui un’eccezione permettendomi di riceverlo; la fama
ascetica dell’uomo lo rassicurava. Ma le sue visite erano rare e brevi.
Qualche volta ci incontravamo in istrada, e m’accompagnava per un
tratto; abitava nello stesso nostro quartiere Flaminio. Il bambino gli
offriva spontaneamente la manina. Che cosa andava unendo a me e a mio
figlio quella creatura solitaria, enigmatica, forse malata? Egli aveva
l’incosciente bisogno, ogni tanto, di parlare, di lasciar intravedere
qualche barlume di quel mondo in cui, tutto solo, si moveva.... E mi
trovava capace di ascoltarlo. Ma non era neppure un barlume ch’io
vedevo: di concreto non sapevo altro se non che nell’opera a cui egli
lavorava doveva esser racchiusa una parola di estremo beneficio per gli
uomini....
La prima volta m’ero domandato con terrore s’egli era un mistico, un
pazzo. Via via l’impressione paurosa era andata dileguando. Io che
non avevo mai osato addentrarmi negli studi psichici pur riconoscendo
ch’era questa una specie di timidità intellettuale, io mi sorprendevo
ora ad accettar quasi l’ipotesi che quest’uomo potesse svelarmi
qualcosa in cui avrei creduto per virtù occulta.
Egli mi parlava del mistero, degli sforzi compiuti dall’umanità per
affermare un’origine e un destino ultraterreni. Un fascino m’avvolgeva,
e mi sentivo quasi arrossire ricordando la facilità con cui avevo
risolto per mio conto la crisi religiosa nell’ora più grave del mio
passato. Quell’uomo mi significava una potenzialità di sofferenza
spirituale, ch’io, dovevo confessare, non possedevo. Sterile
sofferenza, forse. Ma non era in quello spasimo la nobiltà suprema
dell’essere che tende a superare sè stesso?
E fioriva in me per lui un umile sentimento, materno e figliale
insieme, del tutto nuovo nella mia vita. L’austerità della sua
esistenza, e quella forza singolare del carattere per cui egli si
inibiva ogni confidente abbandono, e il suo aspetto, anche, così
gracile e insieme così fiero, mi attraevano. Se ne accorgeva egli? Non
me lo chiedevo. Ad ogni modo non era in me alcuna manifestazione di
fervore, e neanche mio marito commentava i nostri rapporti.
Parlava poco di sè, come se tutti dovessero ignorare la sua vita di
stenti, lo stoico suo distacco da ogni dolcezza. Pareva che tutto ciò
che il destino ancor metteva, di tanto in tanto, a sua portata, sorrisi
di bimbi, devozione di donne, ristoro di sole, egli lo accettasse
come diretto a una parte insignificante del suo essere, capace ancora
d’allietarsi, ma priva di influenza sul suo spirito e sulla sua volontà.
Doveva aver immensamente sofferto, nel passato. Forse aveva trovato un
rimedio nell’analisi, osservandosi; doveva essersi convinto che l’uomo
soffre di cose meschine. Le privazioni materiali e sentimentali, la
mancanza di pane, di benessere, di cure, di affetto, tutto questo fa
soffrire l’uomo. Ma l’uomo grande è quello che si avvezza a far senza
di tutto questo, che può viver solo, nutrirsi di sè stesso, isolarsi
dall’umanità e dalla vita....
A tale stato voleva condurre tutti noi? Non era ammissibile. E allora,
che significava l’oscura esortazione all’attesa che egli mi rinnovava
di tratto in tratto?
Parlavo di lui colla buona vecchia mamma. Ella lo conosceva da
parecchio tempo, aveva per lui una speciale tenerezza. Lo aveva mai
condotto seco a veder qualche miseria mostruosa?
Sì, ed altre volte egli ne aveva osservate, lontano, a Londra, a Nova
York.
«Vedi, figliuola: egli deve dirsi sempre che ogni tentativo di
rinnovamento sociale è puerile, senza il soccorso della nuova fede
ch’egli vuoi dare agli uomini. Egli cerca un assoluto e nulla è
più inutile, anzi nefasto.... che l’assoluto, quando sappiamo che
tutto muta, e che si muore. Egli cerca probabilmente una nuova prova
dell’immortalità dell’anima, poichè le vecchie non reggono più. Ma gli
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