Una Donna - 06

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con un gesto, di nuovo mi dichiarò che non voleva nulla da me ch’io
non sentissi spontaneamente di concedergli; che gli bastava sapere che
il mio cuore era suo, sentir dalle mie labbra ogni tanto e dalla mia
penna le inebbrianti parole della passione. Mi attrasse di nuovo, e
appoggiata al suo petto, la sua guancia accanto alla mia, provai per
un attimo l’impressione di esser travolta, naufraga, da un naufrago.
D’un tratto le mie mani lo respinsero con violenza. Egli mi stringeva,
mi brancicava.... Un ricordo mi balenò. Anche costui! E fra la nausea
che mi chiudeva la gola scoppiai in un riso convulso.
Si scostò, colpito da stupore. Io spalancai l’uscio e balzai nell’altra
stanza.
Dopo un poco udii chiudere cautamente il portone di strada. Ero di
nuovo sola in casa, sola col bimbo. Il piccino respirava tranquillo,
lieve. Non lo guardai, non lo toccai.... Oh mio solo, mio puro
amore! Mi tolsi febbrilmente i vestiti, e soltanto quando fui sotto
le coperte, tesi le braccia dalla sua parte, mordendo il guanciale,
chiamando sommesso la morte....


IX.

Fino a quel giorno io m’ero creduta in possesso d’una salda morale,
semplice ed evidente, colla quale sarei passata nella vita senza dubbî
e senza prove. Se il perchè dell’esistenza mi sfuggiva, se intorno a
me dalla fanciullezza in avanti avevo visto scemare via via i motivi
di entusiasmo, di commozione, di orgoglio, se la mia individualità era
da me stessa quasi ignorata e perennemente tradita, non m’era però
mai venuta meno la fiducia nella volontà e m’eran riuscite sempre
incomprensibili le disfatte provocate dal sentimento o dal senso, lo
sfacelo d’un’anima. Il primo grande dolore che avevo provato mi era
venuto da mio padre, dalla scoperta della debolezza d’un uomo che m’era
parso un dio. Io avevo bisogno di ammirare innanzi di amare. Accettando
l’unione con un essere che m’aveva oppressa e gettata a terra, piccola
e senza difesa, avevo creduto di ubbidire alla natura, al mio destino
di donna che m’imponesse di riconoscere la mia impotenza a camminar
sola. Ma avevo così anche voluto che la fatalità non fosse più forte di
me, avevo mostrato un volto umano a quel fato.
Avrei ora ammesso nella mia vita miseranda l’intervento ironico d’una
forza estranea e sconosciuta? Mi sarei potuta credere suo ludibrio?
Mi sarei detto ch’io non era che un essere ibrido, incerto, in balìa
dell’ambiente, facile preda alle voglie infami che mi circondavano?
L’invocazione alla morte era stato il primo grido della creatura nella
notte. Ma venne il sonno, e poi il risveglio: la necessità di prender
in braccio il piccino, di preparargli la colazione, di provvedere
all’andamento della casa ove la vita si svolgeva impassibile, ove il
sole e l’aria marina entravano, ove libri e carte parlavano di lotte e
di evoluzioni, ove si affacciava il ricordo de’ rari ma fulgidi istanti
di sconfinata speranza per i miei sogni di donna e di madre.
E i miei vent’anni insorsero.... Perchè non avrei potuto esser felice
un istante, perchè non avrei dovuto incontrare l’amore, un amore più
forte di ogni dovere, di ogni volere? Tutto il mio essere lo chiamava.
Quell’uomo mi aveva soggiogata per tante settimane, aveva saputo
imporsi al mio pensiero.... Perchè? Perchè ero sola, disamata, assetata
ed anelante....
Lui? Era proprio lui, quell’uomo miserevole che m’era apparso, la sera
avanti, spoglio d’ogni poesia e d’ogni illusione, brutale e ridicolo?
E un’ira folle mi prendeva contro me stessa, che cadeva subito per
lasciar posto ad una vergogna profonda. Io avevo rinunciato a me
stessa. Quel poco ch’ero divenuta, quella creatura umile ma splendente
d’una pura maternità, io l’avevo buttata ai piedi d’un essere volgare,
dallo stupido egoismo, che s’affrettava a gualcirmi come un’erba sulla
strada! Ero dunque discesa così in basso? La mia smania di vivere
m’aveva accecata. La vita che cercavo era l’errore, era l’abiezione....
Mi confrontai con mio marito: eravamo allo stesso livello, ed io più
abietta di lui perchè lo sapevo.
Alcuni giorni dopo, ero appena tornata col bimbo dal giardino di mio
padre, una bracciata di fiori era sul tavolo; l’anima interrogava
cupamente il vicino avvenire, senza ricever risposta; quando vidi
entrare il dottore con uno strano viso, il dottore che in quell’ora
doveva compiere il suo consueto giro professionale.
Bastarono poche parole. Egli veniva dalla casa di quell’uomo, a cui
la moglie, il mattino, aveva trovato in tasca una mia lettera. La
sciagurata sospettava da qualche tempo. Ma la verità non l’aveva
atterrata. Si sapeva poco lontana dalla morte e d’altronde non era
quello il primo tradimento del marito, nè il primo giorno in cui ella
aveva sentito d’odiarlo. Voleva vendicarsi prima di morire. Per questo
aveva chiamato il dottore, sapendolo mio amico.
Egli mi porgeva la lettera ch’era riuscito a farsi consegnare insieme
alla promessa del silenzio. E dinanzi al mio volto che si decomponeva
per l’insulto, per lo spasimo, il buon giovane non potè che chiamarmi
per nome tremando....
Ci stringemmo la mano, come trovando un reciproco conforto in quel
patto di silenzio.
Che cosa credeva? Potevo io spiegargli?
Disse quel che gli pareva consigliabile per sfuggire una catastrofe.
Dal canto suo avrebbe vigilato, nulla risparmiato.
—Ma non lo riceverà più, mi promette?
Non risposi. Si alzò; e allora soltanto, afferrandogli di nuovo la
mano, si sciolse il nodo che avevo in gola; un singhiozzo mi troncò la
voce mentre balbettavo che non sentivo di aver perduto la sua stima.
—Lo credo—e mi guardò triste.
Passarono due giorni, in cui continuai a persuader me stessa della
mia umiliazione, mentre, al pensiero che mio marito avrebbe potuto
apprendere e interpretare in modo brutale, ero assalita da una
ribellione sorda e insieme dalla smania di confessare il mio fallito
tentativo di vivere, affinchè mi conoscesse e mi allontanasse dalla
sua casa come una donna che non era sua e che avrebbe potuto esser
d’altri e che lo sarebbe forse un giorno. Nei sentimenti contrarî
che mi combattevano, io sentivo naufragare la mia volontà, la mia
persona, tutto quello che avevo creduto di essere e a cui rinunciavo
desolatamente.
Intanto quella donna non aveva saputo o voluto tacere; s’era sfogata
con un’amica, e la notizia, ghiotta quanto incredibile, aveva
serpeggiato sino a giungere all’orecchio di un caporione della fazione
clericale, chiamato per nomignolo l’avvocatino.
Il dottore alle prime voci venne di nuovo a trovarmi; mi disse che
bisognava negare, negare: nessuno aveva prove: bisognava che tutto
apparisse mera invenzione diffamatoria.
Gli scoprivo una concitazione interna sempre maggiore. Vegliava su
di me. Che cosa io spingeva? Non potevo, non volevo indagare, in
quell’ora fosca.... Ma non riuscivo a scacciar il ricordo del sospetto
balenatomi sui rapporti suoi con mia cognata. Anche lui era isolato
in quell’ambiente ostile: anche lui aveva ceduto, si era umiliato di
fronte a se stesso. Ora riconosceva forse in me un’altra vittima. E
sentivo che il suo spirito m’era vicino come nessun altro mai, tenero e
mesto.
La sera egli tornò, chiese di parlare da solo con mio marito. Posi a
letto il bambino, udendo come trasognata il bisbiglio delle loro voci
nella stanza attigua. Indi fui chiamata; il dottore aveva raccontato
che l’avvocatino si divertiva da qualche giorno a malignare sulle
riunioni serali in casa dell’assessore nostro parente, e sulla recente
festa da ballo: io e un’altra signora della comitiva eravamo sopratutto
bersaglio di quelle chiacchiere infami: all’una si attribuivano
parecchi amanti alla volta, a me uno solo, discretamente e ancor
platonico, poichè si parlava di sole occhiate dalla finestra e di
lettere....
Il dottore era calmo, bonario come il solito, sollecito di
rassicurarmi: aveva consigliato al marito dell’altra signora, ed ora al
mio, che entrambi chiedessero conto al diffamatore delle sue parole:
era l’unico mezzo per rintuzzare una buona volta l’audacia di quel
mascalzone, mostrargli che non lo si temeva.
Mio marito, pallido, si frenava. Rimasti soli, si limitò dapprima a
rimproverarmi la mia leggerezza, la smania nuovissima venutami in
quell’anno di frequentar gente, di mostrarmi elegante e brillante. Per
esser tranquilli in paese non bisognava uscir dal proprio guscio!
Ma il dubbio lavorava nel suo spirito, dava via via alle sue parole
un tono più acre ed imperioso; egli era di coloro che la propria voce
accende ed esalta fino al parossismo, nelle ore di tempesta. Io sapevo
che nulla più ormai l’avrebbe fermato sulla via delle inquisizioni;
sentiva spuntare, annodarsi nel suo cervello i sospetti. Incapace
di padroneggiarsi più oltre, esigeva che negassi quello di cui già
mi insultava, e che protestassi insieme d’amar lui solo. La faccia
convulsa e paonazza, gli occhi fuor della fronte, diventava spaventoso:
ebbi l’improvvisa sensazione d’essere una piccola creatura indifesa
sotto una potenza cieca e bestiale. Rimasi muta, rigida.
Ad un tratto mi risolsi, investita dalla sua medesima esaltazione.
A che mentire? Io avevo chiamato quell’uomo. L’aveva amato forse!
L’avevo anche respinto, come respingevo lui, mio marito, e li odiavo
entrambi.... Mi cacciasse! Mi uccidesse! Sentendo il suo orgoglio
montare implacabile, tutto il mio essere si levava in un impeto....
Egli non interrogava, minacciava, accusava. Non mi credeva: mi ero
data, lo confessassi....
Non ricordo altro. Rivedo me stessa gettata a terra, allontanata col
piede come un oggetto immondo, e risento un flutto di parole infami,
liquido e bollente come piombo fuso. Colla faccia sul pavimento,
un’idea mi balenò. Mi avrebbe uccisa? Con una strana calma mi chiesi se
l’anima mia sarebbe mai stata raggiunta in qualche parte dalle anime di
mia madre e di mio figlio.
Ed ho il confuso senso della disperata ira che mi assalse quando, dopo
una notte inenarrabile in cui il mio viso ricevette a volta a volta
sputi e baci, e il mio corpo divenne null’altro che un povero involucro
inanimato, mi sentii proporre una simulazione di suicidio.... «Bisogna
che io ti faccia morire di mia mano; ma non voglio andar in galera:
devo far credere che ti sei data la morte da te stessa...»
Ira silenziosa e vana, disperazione spasmodica, agonia atroce, ombre
di follia.... Giorni, settimane. Tutto è avvolto di grigio; non
distinguo più la successione delle sofferenze, dei deliri, delle soste
di stupefazione. Mio padre, informato, era riuscito col dottore a
persuadere l’uomo pazzo ed insieme vile a perdonarmi, a credere che
tutto non era se non aberrazione momentanea. Mia cognata, mia suocera,
avevan toccato il tasto dello scandalo: ogni cosa, piuttosto che la
pubblicità di quell’onta! E, insieme, tutta questa gente mi circondava
come in un sogno mostruoso: tutti mi credevano una bestia immonda, e
tutti mi risparmiavano per viltà.
Ogni notte di me si faceva strazio; ogni giorno eran scene di
rimpianto, eran promesse di calma, di oblìo. Mettevo paura?
E intanto la vita esterna doveva apparire immutata. Dovevo uscire a
fianco di mio marito e talvolta fra noi era il bimbo; il dolce fiore
sorrideva fra due che s’odiavano.
La mia riputazione già era divenuta cosa pubblica che i due partiti
dovevano difendere od offendere. I miei partigiani potevano sprezzarmi
in segreto ma dovevano esaltarmi ad alta voce; quelli dell’avvocatino
e dell’arciprete non mi conoscevano per nulla e dovevano proclamarmi
disonesta. In questa odiosa disputa che contegno teneva colui che n’era
causa? Sua moglie, aggravata dal male, era partita, condotta via dai
suoi genitori. Ma erano state notate da più d’uno le passeggiate sotto
le mie finestre. Non era egli capace di assumere la posa di colui che
ha tutte le ragioni per difendere cavallerescamente una donna? Il
dottore me lo lasciava temere.
* * * * *
Un giorno le mie sorelle mi trassero a visitare mia madre. Quattro
anni quasi erano scorsi dalla sua entrata nel tetro luogo. Ella non
ci riconosceva più affatto, non aveva più ricordo, nessuna luce negli
occhi; ripeteva un gesto infantile delle mani per tastare le stoffe, i
nastri e le acconciature nostre; e un linguaggio a monosillabi in una
gola affiochita era tutto ciò che distingueva le sue manifestazioni
da quelle di un bimbo di un anno. Dall’ultima visita era impinguata
ancora, e i tratti del viso minuti, delicatissimi, che sparivano fra le
guance ed il mento, avevan di per se stessi un’espressione straziante,
sembravan vivere, rammentare, chiederci conto della persona sottile e
sensitiva che essi avevano illuminata, un tempo....
Baciai le ciocche grige, e nel punto stesso una voce interna parve
avvertirmi: «....Le tue labbra non toccheranno più questa fronte....»
Più?... Lungo la strada del ritorno, in carrozza, come un’ossessione
mi avvolse: quel mònito mi cantò nel cuore. Intorno, ogni cosa era
fresca e verde; le sorelle scambiavano rade parole, e la vita pareva
sorridesse loro con più soave inconsapevolezza dopo la visione
formidabile.
A casa, il bimbo mi attendeva. Egli aveva due anni, mi amava, oh! mi
amava con tutta la forza del suo cuoricino; era intelligente, forte,
bello, con la dolcezza di mia madre negli occhi. Che cosa mi raccontava
della giornata trascorsa? Il suo babbo era cupo; lo lasciammo solo:
io composi il corpicciuolo fra le lenzuola, rimasi colla mano sulla
piccola tepida guancia fin che sentii il respiro del dormiente, tornai
in sala da pranzo.
Mio marito aveva incontrato quel giorno l’uomo che credeva mio amante,
e gli era parso di scorgere ne’ suoi occhi un lampo di dileggio;
quegli era tra due amici, certo suoi confidenti. Che ne pensavano, che
sapevano? Parlassi, parlassi, per Iddio!
Io restavo in attitudine prostrata, incapace di ogni moto. In verità
quasi non udivo distintamente ciò che mi diceva. Sembrava che la
mia vita mi sfilasse dinanzi, raccolta in pochi episodî, e ch’io la
guardassi da un’altra sponda, con occhi nuovi. Era breve, e non era
bella. Che cosa avrebbe detto un giorno mio figlio conoscendola? Se
egli quella sera stessa avesse potuto comprendere e parlare, mi avrebbe
pregata certo di trarlo in braccio e di andar lontano con lui nella
notte, ad affrontare la miseria, la fame, la morte....
«Tu non parli, non parli! Che cosa mi nascondi, che cosa prepari per
trascinarmi nel fango; di’, di’?...»
E, ancora, mi trovai a terra, ancora sentii il piede colpirmi, due, tre
volte, udii insulti osceni, e, dopo quelli, nuove minacce....
Poi, mentre restavo distesa sul pavimento, trovando una sorta di
refrigerio, come un letargo ad occhi sbarrati, colui uscì sbattendo
l’uscio, con un’ultima bestemmia. Aveva svegliato il bimbo?
No. Quando potei muovermi, mi trascinai accanto al lettino, al buio.
«Figlio mio, figlio mio.... La tua mamma non ti vedrà più.... È
necessario.... Non può vivere, è stanca, e non vuol farti soffrire....
Tu hai il suo sangue, ma sarai più forte, vincerai.... qualcuno ti
dirà un giorno forse che tua madre ti ha amato, che non ha amato che
te sulla terra, che non era cattiva, che ti aveva sognato buono e
grande....»
Tornai in sala. Nella credenza v’era una boccetta di laudano, quasi
piena. La trangugiai per due terzi, fino a che l’amaro non mi chiuse
la gola. Mi stesi sul divano. E rapidamente mi sentii invasa da un
dormiveglia leggero, da un riposo di tutte le membra....
Quando mio marito rientrò, non so se dopo un’ora o poco meno, il mio
sopore dapprima gli parve simulato; e riprese, con minor violenza, ad
insultarmi. La sua voce mi giungeva fiochissima. Dovette cadergli a
un tratto lo sguardo sulla boccetta rimasta sul tavolo. Si chinò su
me, comprese. Afferrò il vetro col resto del veleno e si precipitò
in strada mentre io accoglievo vagamente il pensiero che ogni aiuto
sarebbe stato vano.
Due donne, ecco.... Mia suocera preparava il fuoco, l’acqua tiepida, e
mia cognata m’indirizzava scongiuri.... indi lui che piangeva ai miei
piedi. Io vedevo tutto come attraverso un velo, senza dolore: avevo
quasi il dubbio d’esser già via, fuori, e di assistere con lo spirito
alle ultime convulsioni della mia spoglia.
La donna mi scosse, mi diede l’acqua, che non potei trangugiare. Aveva
preparato un foglio di carta: «Scriverai almeno che sei stata tu,
perchè questo povero cane non abbia anche da passare dei guai!»
Chi sa se il sorriso di compatimento che sentii guizzarmi nell’anima mi
si abbozzò sulle labbra aride? Mi si pose la penna fra le dita, ma non
la tenevo. In quella entrò il dottore. Riuscii ancora a far cenno di
no, mentre mi porgeva un bicchiere: mi lasciasse, mi lasciasse, almeno
lui che sapeva!
Ma la mano ferma ed inflessibile mi resse il capo, mi costrinse.


PARTE SECONDA.


X.

Avevo dato l’addio alla vita semplicemente, fermamente, benchè in
un’ora di smarrimento; come ubbidendo a un comando venuto da lungi più
che alla necessità imperiosa dell’istante. La mia esistenza doveva
finire in quel punto: la donna ch’io ero stata fino a quella notte
doveva morire. Vi sono periodi che non possono risolversi e che sembra
vadano chiusi bruscamente con un pietra sepolcrale.
Da quanto tempo la crisi si svolgeva in me a mia insaputa? Il dì
in cui un informe essere aveva brutalmente interrotto la fioritura
della mia adolescenza, un processo di dissolvimento s’era iniziato
in me. Il lavorio delle influenze deleterie mi penetrava lentamente,
mi corrompeva il corpo e lo spirito. Nulla era pervenuto alla mia
coscienza di questa interiore tragedia, fino alla catastrofe. M’ero
sentita triste, stanca, impaurita.... E la sconfitta era venuta,
inattesa ma logica; nessuna rivolta tardiva l’aveva accolta, neppure
alcun stupore. Un ciclo si chiudeva, l’ordine si ristabiliva.
Da un’altra sponda.... Come nel punto di darmi la morte, io considerai
il mondo e me stessa con occhi affatto nuovi, rinascendo. Dapprima
rivissi l’infanzia; fui come una bimba per alcune settimane. Assaporavo
puerilmente la dolcezza di essere, avevo un sorriso commosso per il
sole, per le cime degli alberi che vedevo dalla mia poltrona, per la
bellezza di mio figlio, per ogni oggetto che splendesse, che fiorisse,
che richiamasse i sensi, attenti all’opera della vita. E lo spirito
era inerte. Sapevo d’aver tentato di morire, sapevo che tutto si
cambiava attorno a me, e ch’io avrei dovuto camminare ancora; vedevo
ombre e luci alternarsi rapide; ma non provavo nè timori, nè speranze,
nè ripulsioni, nè dubbî: al più una vaga fiducia, come un abbandono
timido, quasi inconscio. Sulle labbra conservavo il sapore amarognolo
del veleno, e la testa era di una debolezza straordinaria; ogni leggero
rumore l’intronava, mi toglieva la percezione nitida delle cose.
Tuttavia la scossa fisica non era stata grave; non ero stata costretta
al letto che per pochi giorni. Tutti, anche mio padre, ignoravano
l’accaduto. L’esistenza esteriore continuava il suo giro normale; io
m’applicavo finanche a qualche lavoro casalingo, non lasciavo mancare
nessuna cura al bambino, giungevo talora a notare nello specchio
l’espressione di convalescente che dava al mio viso affinato una grazia
nuova.
Non ricordo distintamente ciò ch’era passato fra me e mio marito nei
primissimi giorni. Dinanzi alla mia tranquilla esecuzione di morte egli
doveva aver sentito uno straordinario sconvolgimento nel cuore e nel
cervello, e n’era rimasto annichilito. Rimorso? Paura? Umiliazione?
Gelosia? Tutto si confondeva per lui in un’unica impressione di dolore:
dolore vero, sofferenza fisica in gran parte, che lo trascinava
dall’estremo abbattimento all’estrema esaltazione.
Il dottore gli aveva forse fatto balenar dinanzi il pericolo ch’io
impazzissi. Doveva essere tratto, dalla visione dello sfacelo che io
avrei lasciato nella sua casa partendo, a riconoscere ch’io avevo
tenuto in essa, fino allora, il posto principale, che ne ero stata
l’anima, che vi avevo silenziosamente segnata una traccia indelebile. E
mi pareva che il lavorìo di riflessione s’iniziasse in lui.... Pensava
egli al poco o nulla che aveva portato nella nostra unione, alle
speranze ch’io avevo veduto cadere in quattro anni, alle esigenze del
mio essere ancora in isviluppo, all’insipienza con cui aveva negletto
ogni mio sintomo di malessere? Percepiva forse la mia superiorità
proprio mentre sentiva l’ira contro quello ch’egli si raffigurava fosse
il mio delitto? Il suo amor proprio spasimava ancora, e frattanto
egli non poteva sottrarsi ad un fascino strano, indefinibile, che gli
veniva dalla mia personalità nuova, tragica e risoluta. Il mio corpo,
lo sentivo rabbrividendo, acquistava su lui un’attrazione più acuta,
dolorosa. Il ricordo della mia invincibile ripugnanza per gli atti
dell’amore non gli richiamava forse alla coscienza lo scempio commesso
su me fanciulla, ma certo doveva suscitargli confusi rimproveri per
non aver avuto un delicato rispetto verso il mio organismo immaturo,
per non aver saputo amorosamente destare in me la donna, avvolgere di
purità l’invito alla sana gioia.
Ed era solo, dinanzi al suo turbamento; sentiva che nessun altro ne
sospettava la profondità e l’estensione, che sua madre lo compiangeva
per una sofferenza assai più semplice, che il dottore lo giudicava con
una indulgenza non scevra di sprezzo. E in certi momenti rompeva in
singhiozzi, confessandosi miserabile.
Non mi aveva più battuta. S’era inginocchiato davanti a me, chiedendomi
perdono di non essere stato generoso, di avermi spinta al passo
disperato. «Vivi! Per nostro figlio!» La supplica assumeva su quelle
labbra così restìe alla dolcezza un accento straziante. E io univo le
mie lagrime alle sue, come il bimbo piange di fronte all’altrui pianto.
Nella mia sensibilità d’inferma ero tratta a considerarlo un povero
compagno di sventura, come me trastullo e vittima di cieche vicende; mi
dicevo vagamente che l’uno aveva bisogno dell’altra, che l’una doveva
appoggiarsi all’altro per rifare un’esistenza comune solo pel bene del
figlio.
Poi una cosa strana avvenne. Mio marito un mattino ricominciò ad
interrogarmi sul fatto che era stato causa ad entrambi di tante
torture. Ripetendo pazientemente il racconto, coi più minuti
particolari, espostogli già tante volte, vidi ch’egli riusciva a
serbarsi calmo, a riflettere, lasciando dietro le mie risposte lunghi
silenzi. Alfine un gran respiro gli sollevò il petto: un misto di gioia
e di orgoglio, malamente contenuto, gli trasparì dagli occhi. Dunque
in tutte le inquisizioni colle quali mi aveva straziata, non aveva
mai compreso, forse non era mai riuscito ad ascoltare sino alla fine,
a frenare l’irruzione d’una gelosia bestiale.... E ora per lui tutto
l’accaduto si riduceva ad un episodio insignificante, trascurabile.
Capii ch’ei si erigeva di fronte a quell’altro, godendo del suo scorno;
che mi era grato, che infine ricominciava in lui la fiducia, la
certezza ch’io gli fossi legata, che io l’amassi, che mi sentissi cosa
sua!
Giugno trionfava sui campi dorati. Il mare doveva essere tutto uno
scintillìo, un sogno abbacinante; io non lo vedevo perchè non uscivo
mai di casa, salvo qualche volta la sera: pochi passi con mio marito
lungo la deserta via ferrata. Nonostante tutto, la gelosia di lui
non era scomparsa; al mattino, in grazia della presenza della donna,
potevo muovermi per la casa, ma non entrare nelle stanze che davano
su strada. Dopo colazione, per tema ch’io ricevessi qualcuno, venivo
chiusa a chiave fino al suo ritorno alle sei, sola col piccino
nell’ambiente caldo ed ingombro della camera da letto prospiciente sul
giardino abbandonato.
Il bimbo dormiva per due o tre ore. Io ricamavo accanto alla finestra
socchiusa, divertendomi talora ad osservare il giuoco delle mani in un
raggio luminoso, magre, traenti con lentezza la gugliata di colore.
Quella reclusione non mi offendeva: provavo una specie di voluttà in
quell’annientamento d’ogni mio senso ribelle, in quella schiavitù
da orientale. Era, in fondo, ancora il riposo, la riparazione delle
forze. Pensavo al mio carceriere con una pietà sempre più larga, con
una rassegnazione quasi serena. Amore? L’avevo lasciato sperare a lui,
che s’era tosto convinto. Fra le sue braccia io m’ero bensì sentita
irrigidire; ma ciò non mi spingeva che a compensare altrimenti colui al
quale non potevo dar intera la mia persona. Certo, io non ero nata per
le gioie, ma per le sofferenze dell’amore....
Egli si mostrava soddisfatto della mia docilità tranquilla. Non
richiamava più il passato, se non per chiedermi che cosa m’era mancato,
per rimproverarsene apertamente. Mi era penoso rispondergli, volevo
risparmiarlo; pure, lo sfogo certe volte avveniva irresistibile. Questo
serviva più di esame a me stessa che a lui. Erano confidenze d’uno
spirito che, tentennando, s’apriva la via, che lentamente riacquistava
il suo vigore e la sua indipendenza. Penose, povere, frammentarie
reminiscenze d’un tempo già avvolto nella nebbia, d’una vita trascorsa,
veramente chiusa. Parlando, sentivo a mano a mano il mio volto perdere
l’espressione di umile dolcezza, comporsi in fredda maschera dagli
aridi occhi fissi in un punto indistinto che era forse il passato,
forse il futuro. E dovevo fare uno sforzo per togliermi da quel
momentaneo e a me stessa ignoto rifugio, per ricondurre a più lievi
pensieri l’uomo che sorprendevo assorto, dal canto suo, in visioni che
gli mettevano una ruga sulla fronte, la ruga dolorosa e puerile di chi
cerca comprendere qualche grande fenomeno e non riesce che a percepire
la propria impotenza diffidente.
Nostro figlio ci scioglieva i cuori, ci faceva credere nelle nostre
vicendevoli promesse di pace. Era ben lui, era ben la sensazione di
possederlo ancora, di averlo lì piccolo e sorridente; era il ricordo
incessante, per quanto non espresso mai, di quell’addio notturno in
cui m’ero rappresentata la creatura del mio sangue sola pel mondo,
ignara del mistero materno; era il pensiero ugualmente perenne della
vigilanza appassionata che per l’innanzi non gli avrei mai tolta, era
ben tutto ciò che fin dai primi giorni mi aveva resa soave la rinnovata
esistenza. Per lui, per lui, per lui.... Vivere tanto da rifarmi
un’anima splendente, da poter essere madre nel più grande significato
della parola: era un sogno? Io mi curvavo sul piccolo letto,
contemplavo il volto addormentato di mio figlio, adorabile nelle linee
pure e già decise, e una calma fiducia entrava nella mia anima. A lui
non potevo chieder perdono che mentalmente; non mi sentivo umiliata in
quell’atto; forse era la coscienza di non avergli mai diminuito il mio
amore, di averlo avuto sempre in cima a’ miei pensieri, anche nelle ore
di follia, che mi faceva sentir sempre degna della sua inconsapevole
benedizione? Forse era soltanto la legge del sangue: quelle membra che
erano uscite di me, io le pensava istintivamente animate dall’identico
mio soffio, allora e sempre; quella creatura mia doveva nella vita
riflettere le mie azioni, lottare con me per l’elevazione.
Per la prima volta percepivo intera l’influenza benefica della
vicinanza di mio figlio; il mio affetto per lui si era approfondito e
insieme semplificato, perdendo quel che poteva avere di fanciullesco e
di morboso. E il suo nome costituiva l’amuleto del presente, il simbolo
del futuro; circoscriveva nelle sue brevi sillabe l’orizzonte nuovo.
Frattanto la vita materiale della casa procedeva impacciata, grigia. Le
mie sorelle, ignare di tutto, erano andate a passar qualche settimana
dagli zii di Torino, ed io restavo confinata, col pretesto di sfuggire
la noia degli sguardi maligni o curiosi. La suocera e la cognata, per
fortuna, stavano lontane. Veniva il dottore, talvolta, al mattino,
per pochi minuti. Era meno loquace di un tempo. Si preoccupava della
mia salute. Se accennavo con un abbozzo di sorriso alla clausura
perdurante, egli crollava il capo, mentre un’ombra gli passava rapida
sui volto; poi, con uno sforzo che non mi sfuggiva, volgeva la cosa
allo scherzo, mi incitava solo a non lasciarmi abbattere, ad esigere
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