Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 05 (of 16) - 03

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[38] _Gio. Villani l. IX, c. 98, e 118. — Cortusiorum Histor. l. II,
c. 29, e c. 41. — Albertinus Mussatus Poema; seu de Gestis Ital. l.
IX, X, XI._
[39] _Gio. Villani l. IX, c. 100. — Guglielmi Venturæ Chron. Astense
c. 100, t. XI, p. 258._
[40] _Raynald. Ann. Eccles. 1320 § 10. — Galvan. Flamma Manip.
Florum, c. 359._
La corte d'Avignone non era più diretta da religioso fanatismo, e lo
stesso legato, profanamente ambizioso pensava a tirar profitto dalle
guerre civili per formarsi una sovranità in Italia, non già per
sostenere colle armi la purità della fede, ed una religione
costantemente smentita da' suoi perduti costumi: e s'egli adoperava
contro i nemici le armi ecclesiastiche, lo faceva lusingato di fare
ancora qualche impressione sullo spirito del popolo; ma non ignorava che
i Visconti le avrebbero disprezzate, onde cercava più efficaci sostegni
alle sue sentenze.
Filippo di Valois, figliuolo di quel Carlo che un altro papa aveva
chiamato in Italia per sottomettere i Bianchi di Firenze, aveva
accettato con vivo trasporto una tale missione, mercè la quale sperava
di ottenere facile gloria e grandi ricchezze. Filippo, in allora nipote
del re di Francia al quale doveva in breve succedere, scese in Italia
col magnifico corteggio di sette conti, cento venti alfieri, e circa
seicento cavalli. Mille cinquecento cavalieri lo stavano aspettando in
Asti, ed altri mille mandati da Firenze e da Bologna si avanzavano per
incontrarlo. Carlo di Valois, padre di Filippo, il siniscalco di
Beaucaire, il re di Francia ed il re Roberto facevano pure sfilare
alcuni corpi di truppa verso la Lombardia; ma Filippo pensò che prima
del loro arrivo avrebbe potuto condurre a fine qualche gloriosa impresa,
e con circa due mila cavalli entrò nel paese nemico e s'accampò a
Mortara posta fra Tortona e Novara.
Ma non tardò ad accorgersi dell'imprudente sua marcia, quando per altro
non eragli più permesso di riparare al fallo in cui l'aveva strascinato
la sua presunzione. I due figli del signore di Milano Galeazzo e Marco
Visconti si avanzarono sopra di lui con forze assai maggiori, ed invece
di attaccarlo, gli chiesero un abboccamento. «La vostra posizione è
affatto disperata, essi gli dissero; voi vi trovate chiuso tra due
grandi fiumi, il Po ed il Ticino, circondato da città nemiche, e da
forze molto superiori alle vostre; onde dovete aspettarvi di essere
rotto in battaglia, o di perire di fame; ma noi siamo ben lontani dal
voler approfittare della vostra pericolosa situazione. Nostro padre fu
armato cavaliere dal vostro, onde dev'esservi tra di noi amicizia e
fraternità d'armi: ricevete dunque il pegno di quest'amicizia ereditaria
nei regali che vi offriamo, e più non v'immischiate negli affari
d'Italia.» Filippo accettò in fatti i magnifichi presenti che i Visconti
avevan fatti recare per lui e pei suoi consiglieri; poi parte per timore
ed in parte cedendo alla seduzione, invece di pensare a farsi strada
colla punta della spada, si ritirò vergognosamente in Francia dopo aver
aperti ai Ghibellini alcuni castelli, che Roberto gli aveva affidati. I
corpi d'armata che venivano a raggiugnerlo, rimasero esposti ad essere
separatamente attaccati e distrutti dai Visconti[41].
[41] _Gio. Villani l. IX, c. 107 e 108. — Ann. Mediol. c. 92. —
Chron. Asten. c. 101. — Bonincontri Morigiae Chron. Modetiens. l.
II, c. 26. — Cronica Miscella di Bologna t. XVIII, p. 333._
Dopo la ritirata di Filippo di Valois, Raimondo di Cordone gentiluomo
aragonese, ch'erasi assai distinto nell'assedio di Genova, fu scelto da
Roberto e dal papa per comandare i Guelfi in Italia: ma intanto altre
vittorie dei Ghibellini assicuravano sempre più la potenza de' Visconti;
Vercelli dovette loro arrendersi nel 1321, ed il 5 gennajo del
susseguente anno Galeazzo Visconti entrò in Cremona per la breccia e
l'abbandonò al saccheggio.
Fin a quest'epoca il papa erasi lusingato di approfittare delle guerre
civili di Germania per disoggettare affatto l'Italia dall'impero, e
stabilire sopra di lei colle armi francesi una nuova autorità. Però
erano già otto anni passati da che era incominciato l'interregno di
Germania, ed in questi otto anni di confusione e di guerra civile,
l'autorità del papa invece di consolidarsi in Italia, pareva che andasse
declinando. Giovanni XXII non aveva mai voluto dichiararsi per alcuno
dei due canditati all'impero; sperava che, snervandosi vicendevolmente
colla guerra, avrebbe potuto obbligarli a riconoscersi dipendenti dalla
santa sede; e fors'anche, come ne corse allora la voce, pensava di
allontanarli un giorno ambedue, per disporre a suo arbitrio della corona
imperiale. Ma finalmente le vittorie de' Visconti gli fecero cambiare il
suo sistema di politica. Si volse dunque a Federico d'Austria, sul quale
conosceva di avere maggior credito che sopra Luigi di Baviera. Il
primogenito di Federico aveva sposata una sorella del re Roberto, e la
casa d'Austria erasi piuttosto mostrata favorevole ai Guelfi. Giovanni
XXII del 1322 promise a Federico di dichiararsi pel suo partito,
chiedendogli in contraccambio che facesse una diversione in suo favore.
Federico che sommamente desiderava l'appoggio del papa, spedì suo
fratello Enrico in Italia con mille cinquecento uomini d'armi[42].
Enrico d'Austria entrò in Brescia il giorno 11 d'aprile, ove fu
raggiunto dai fuorusciti delle città vicine, dai Torriani rifugiati in
Venezia, e da circa due mila volontarj.
[42] _Sua lettera presso Raynaldo 1322. § 8._
Il Visconti trovandosi ad un tempo stretto da Raimondo di Cordone e dal
cardinale Bertrando che andava contro di lui rinnovando le scomuniche,
desiderava di evitare una battaglia col nuovo avversario suscitatogli
dal papa in Germania. Fece offrire ad Enrico ragguardevoli donativi
perchè sospendesse la marcia fino all'arrivo de' riscontri che aspettava
da Federico, cui aveva mandati degli ambasciatori. Faceva a questi
rappresentare che senza pretendere di farsi giudice tra i due candidati
all'impero, egli difenderebbe i diritti spettanti al vincitore. Ch'era
pronto a riconoscere Federico come suo superiore, _suzerain_, quando
venisse a prendere la corona a Monza: che allora gli aprirebbe le porte
di Milano, e l'accompagnerebbe co' suoi cavalli per tutta l'Italia: ma
che se egli stesso veniva spogliato dal papa e dal re Roberto, l'impero
più non potrebbe riavere ciò che gli si farebbe perdere; che la nuova
pretensione di Giovanni XXII di dare un vicario all'impero in tempo
dell'interregno, non era meno lesiva dei diritti di Federico, che di
quelli di Luigi; che quand'avrebbe stabilito un eguale diritto sopra
l'Italia, il papa lo stenderebbe subito alla Germania, e con tale
pretesto spoglierebbe in fine i due competitori per giugnere più
direttamente a' segreti suoi fini di dare a Roberto la corona
imperiale[43].
[43] _Tristani Calchi Hist. Patr. l. XXII._
Federico, illuminato da queste considerazioni, scrisse a suo fratello
che lo vedrebbe con piacere ritirarsi dall'Italia, quando potesse farlo
senza vergogna. D'altra parte Enrico, arrivato a Brescia, chiese come
luogotenente del re de' Romani che la città riconoscesse la sua
autorità. Ma quello che comandava a Brescia per parte di Roberto, si
rifiutò, dichiarando che il suo padrone era il solo vicario in tempo
dell'interregno. Enrico offeso da tale rifiuto, e determinato di non
voler combattere per il solo vantaggio di Roberto, si ritirò senza aver
veduti i confini del territorio di Milano. Il 18 maggio del 1322 si pose
in cammino alla volta di Verona, ove fu magnificamente accolto da Cane
della Scala; talchè i capi del partito ghibellino erano sicuri del
favore dei due pretendenti[44].
[44] _Jacob. Malvecius Chr. Brixian. D. IX, c. 58. — Gio. Villani l.
IX, c. 142, 143. — J. D. Olenschlager. Geschichte del Rom. Kay. §
40. — Raynald. Ann. Eccl. 1322, c. 9, 10._
In tal modo i Ghibellini di Lombardia attaccati nel loro proprio paese
dalla contraria fazione che aveva eguali forze, mentre lottavano al di
fuori colla superiore potenza del re di Napoli e colle ricchezze del
papa, riuscivano a far ritirare due ragguardevoli armate, venute dalla
Francia e dalla Germania per unirsi ai loro nemici: onde quando la loro
condizione sembrava peggiorare, acquistavano maggiore opinione con
inaspettate vittorie. Ma queste costanti prosperità erano in ispecial
modo dovute a Matteo Visconti, e dovevano avere con lui fine. Matteo,
chiamato il Grande, epiteto di cui il quattordicesimo secolo fu a molti
liberale, può risguardarsi come il più perfetto modello dei principi
d'Italia. Valoroso senza ostentazione, buon capitano senza per altro
aver talenti militari superiori al suo secolo, egli s'innalzò al di
sopra di tutti i principi suoi coetanei coi suoi talenti politici, colla
profonda conoscenza del cuore umano, degl'interessi e delle passioni di
tutti coloro ch'egli voleva maneggiare, colla sua calma in mezzo alle
agitazioni, colla sua prontezza nel risolvere e colla costanza nel tener
dietro al suo scopo, colla sua destrezza nel fingere, talvolta
nell'ingannare, col suo talento di saper predominare gli opposti
caratteri e gli spiriti indomabili. Nella prima epoca della sua
grandezza, avanti la fine del secolo terzo decimo, erasi imprudentemente
abbandonato all'orgoglio che gl'ispirava il sentimento della propria
potenza, aveva offesi i principi suoi vicini, e disgustati i popoli da
lui governati; onde la sua caduta l'anno 1302 fu una conseguenza de'
suoi errori. Ma un esilio e un avvilimento di nove anni avevano
sviluppato in lui tutte le qualità di un capo di parte, e insegnatogli
l'arte di sapersi moderare. Dopo che, l'anno 1311, la venuta d'Enrico
VII in Milano gli aveva dato il modo di riprendere la sovranità, l'aveva
conservata undici anni, senza che i popoli indocili ch'egli si era
assoggettati dassero il più piccolo segno di malcontento per la ruinosa
guerra in cui gli aveva strascinati, senza che gli si ribellasse una
sola delle città conquistate, senza che le scomuniche della chiesa, da
cui era frequentemente colpito, smovessero la coscienza di un solo de'
suoi servitori, senza che andasse a male in sua mano una sola della sue
negoziazioni. Matteo Visconti non era un uomo virtuoso; ma la di lui
riputazione, di cui si prendeva estrema cura, non era macchiata da verun
delitto, da veruna perfidia: non era sensibile, nè generoso, ma non gli
si potevano nemmeno rimproverare crudeltà. I suoi quattro figli, i
migliori capitani de' tempi loro, erano quasi parti di lui medesimo; ne
dirigeva egli stesso tutti i movimenti, e soltanto la sua morte fece
conoscere quali caratteri intolleranti, indomabili aveva saputo piegare
all'ubbidienza. Finalmente Matteo era giunto ad un'avanzata
vecchiaja[45], quando un subito cambiamento del suo carattere fu il
presagio della sua morte e delle rivoluzioni che dovea cagionare.
[45] Il Villani dice novant'anni, _l. IX, c. 144_: però gli storici
milanesi lo fanno morire di settantadue.
Erano omai più di vent'anni che Matteo Visconti trovavasi in guerra
colla chiesa, e doveva in gran parte l'attaccamento de' suoi partigiani
al loro odio per il governo de' preti; era egli stato più volte
scomunicato, e recentemente, il 14 gennajo di questo stesso anno, il
cardinale del Poggetto con tre giudici inquisitori avevalo condannato
come eretico sulla pubblica piazza di Asti, dichiarandolo empio,
colpevole, nemico di Dio e del nome cristiano[46]. Matteo aveva sempre
con dignitosa calma respinti questi violenti attacchi; aveva protestato
essere pura la sua fede, indipendente il suo principato; aveva risposto
che sottometteva la sua coscienza alla chiesa, ma non il suo governo ai
preti, ed aveva mostrato di accarezzare l'opinione de' cattolici nello
stesso tempo che combatteva il papa. Tutt'ad un tratto sorpreso da un
rimorso, si vide con estremo turbamento sull'orlo del sepolcro involto
in una sentenza che condannava la sua anima agli eterni tormenti;
dimenticando l'esperienza che aveva fatto della politica affatto mondana
del papa, e le regole dietro le quali erasi egli stesso condotto, ad
altro più non pensò che ad involarsi all'inferno che sembravagli aprirsi
sotto i suoi passi. Tra i Milanesi più ben affetti alla chiesa scelse
dodici ambasciatori che mandò al legato, per chiedere di trattare con
lui, e per sapere a quali condizioni potrebbe ottenere l'assoluzione de'
suoi peccati, e far levare l'interdetto dagli stati da lui governati. Il
cardinale Bertrando, cui le sofferte sconfitte non avevano niente tolto
della sua arroganza, domandò che i Visconti richiamassero a Milano tutti
gli esiliati, loro restituendo i proprj beni, e rinunciassero alla
sovrana autorità. Matteo esaminò queste proposizioni, che avrebbero
interamente minata la sua famiglia, le comunicò al consiglio della
città, e da tale istante mancò l'incantesimo con cui aveva governato lo
stato; sentì ognuno che le lunghe guerre in cui vedevasi impegnato, che
i pericoli cui esponeva la sua anima e tutti i suoi beni temporali, non
avevano altro oggetto che la difesa di una famiglia ambiziosa ch'erasi
usurpata l'autorità sovrana nella repubblica. Un vivo desiderio della
pace s'impadronì degli spiriti: ma Galeazzo, il figliuolo primogenito di
Matteo, che, avendo avuto sentore di tale trattato, era sollecitamente
ritornato da Piacenza, si oppose con tanta forza alle ruinose
concessioni cui rassegnavasi il padre, che, non potendo Matteo fare
scelta tra gl'interessi di sua famiglia e quelli del cielo, rinunciò la
sovranità in mano del figliuolo, ad altro più non pensando che a rendere
la pace alla sua coscienza; e fu veduto ne' pochi giorni che sopravvisse
frequentare soltanto le chiese, e tra le pratiche divote ripetere il
simbolo della fede, e chiamare i fedeli in testimonio della sua
ortodossia. Essendo stato a visitare la chiesa di Monza, cui aveva reso
il suo tesoro lungo tempo impegnato, cadde infermo, e morì fuori di
Milano (in Crescenzago) il 22 giugno del 1322; ma non si propalò nè la
morte, nè il luogo in cui fu sepolto, perchè non fossero sparse al vento
le sue ceneri, come avealo ordinato il papa[47].
[46] _Trist. Calchi Hist. l. XXII. — An. Eccles. 1322, § 5. — Chron.
Astense, c. 105, p. 260._
[47] _Trist. Calchi Hist. Pat. l. XXII. — Bonincontri Morigiae
Chron. Modoet. l. III, c. 2._
Galeazzo si adoperava per farsi molti partigiani nella città e
nell'armata finchè non si conosceva la morte del padre; e quando non
potè più celarla, trovossi abbastanza forte per prendere egli stesso il
titolo di capitano generale; ed il suo credito venne subito assodato
dalla vittoria che Marco Visconti, suo fratello, riportò il 6 di luglio
al ponte di Basignano sopra Raimondo di Cardone e le truppe della
chiesa[48].
[48] _Gio. Villani l. IX, c. 158. — Bonincontri Morigiae Chron.
Modoet. l. II, c. 27._
Ma gli spiriti ardenti ed inquieti che Matteo Visconti aveva calmati
colla sua destrezza, o compressi coll'autorità, si abbandonarono a tutta
la violenza delle loro passioni. Eravi in Piacenza un gentiluomo
ghibellino detto Vergusio Landi, cui Galeazzo Visconti, avendone sedotta
la consorte, esiliò per non trovarsi esposto alla sua vendetta. Landi
rifugiatosi presso i Guelfi, erasi guadagnata la loro confidenza: ed
avendoli impegnati ad ajutarlo nella sua vendetta, con quattrocento
cavalli che gli affidò il legato, trovò modo d'introdursi in Piacenza il
giorno 9 di ottobre, di far ribellare la città e di riconciliarla colla
chiesa e colla parte guelfa[49]. Nello stesso tempo i negoziatori, che
Matteo Visconti aveva spediti al legato, e che dopo la di lui morte
vedevano perduta ogni speranza di pace, andavano esacerbando il popolo
contro una famiglia che dicevano ambiziosa ed empia, la quale per
conservare la sua tirannide sopra una città libera esponeva ogni giorno
la vita dei cittadini al ferro de' nemici, l'onore delle loro mogli e
de' loro figli alla brutalità de' soldati, i loro beni al saccheggio, le
anime loro ai tormenti dell'inferno. Assicuravano che il papa ed il
legato erano affezionati alla città di Milano, ed altro non desideravano
che di ritornarla libera, essendo disposti ad assecondare gli sforzi che
farebbero i cittadini per ottenere così glorioso intento. Lodrisio
Visconti, parente di Galeazzo, valoroso e caro ai soldati, ma inquieto e
geloso, riscaldava egli stesso i faziosi. La ribellione scoppiò
finalmente in Milano il giorno 8 novembre del 1322, gridandosi per le
strade _pace e viva la chiesa!_ La cavalleria tedesca, cui Galeazzo non
aveva da più mesi pagato il soldo, si unì ai cittadini; e Galeazzo che
in tre diversi quartieri della città volle opporsi ai sediziosi coi
soldati rimasti fedeli, fu tre volte vinto, e per ultimo costretto ad
abbandonare la città in cui aveva regnato[50].
[49] _Gio. Villani l. IX, c. 176. — Chron. Plac. t. XVI, p. 493. —
Chron. Astens. t. XI, c. 109._
[50] _Gio. Villani l. IX, c. 179. — An. Anon. Med. t. XVI, c. 95. —
Galvan. Flamma Manip. Flor. c. 361. — Georgii Merulae Hist. Mediol.
l. I, p. 77, t. XXV, Rer. Ital. — Boninc. Morigiae Chr. Modoet. l.
III, c. 7. — Trist. Calc. l. XXII._ — Colla narrazione di questi
avvenimenti il Calchi termina la sua storia.
Il governo dei Visconti diede luogo ad una nuova repubblica milanese,
non però amministrata dal popolo come ne' gloriosi tempi dell'antica
repubblica; tutto il potere rimase concentrato in pochi nobili, che
avevano preparata la rivoluzione, ed in alcuni capi di truppe mercenarie
i quali avevano tradito il loro antico signore. Gli uni e gli altri
erano da lungo tempo attaccati al partito ghibellino, e non seppero
risolversi ad abbandonarlo interamente; i della Torre non furono
richiamati, ed il governo, incerto tra i Visconti ed il cardinale
legato, non si consolidò. Galeazzo, ch'erasi ritirato a Lodi, ingrossava
la sua truppa; Ladrisio, rimasto nel consiglio di Milano, era già
pentito d'aver abbassata la propria famiglia, e comperava a prezzo d'oro
que' Tedeschi che aveva prima sedotti acciò che abbandonassero Galeazzo,
perchè nuovamente tornassero al suo servigio. Avvisava questi
frequentemente de' progressi che andava facendo, ed il 12 dicembre gli
aprì una delle porte; Galeazzo entrò arditamente nella città dalla quale
era stato scacciato trentaquattro giorni avanti: la scorse da uno
all'altro lato alla testa della sua cavalleria, e fecesi di nuovo
proclamare signore e capitano generale. Coloro che avevano diretta la
rivoluzione, abbandonarono la città, e si recarono presso al legato[51].
[51] _Gio. Villani l. IX, c. 182. — Pauli Jovit. Galeacius I
princeps III. Ap. Graevium t. III, p. 285._
In sul cominciare del 1323 l'armata guelfa che aveva ricevuto rinforzi
da tutte le repubbliche toscane, e dai principi guelfi della Lombardia,
si avanzò per assediare Milano. In due battaglie date una il 23 febbrajo
del 1323 al passaggio dell'Adda, l'altra il 19 aprile a Garazzuolo, fu
disfatto Marco Visconti, il miglior capitano dei fratelli Visconti[52];
le città di Tortona e di Alessandria aprirono le porte al legato, e
riconobbero l'autorità del re Roberto. In pari tempo i Guelfi, assediati
in Genova, sorpresero il 17 febbrajo i Ghibellini ne' sobborghi,
scacciandoli con uccisione di molta gente[53]. Nel mezzodì dell'Italia
gli affari de' Ghibellini erano ancora in peggiore stato, perchè il
conte di Montefeltro che veniva riconosciuto per sovrano in Urbino,
Osimo e Recanati, era stato improvvisamente sorpreso e massacrato col
figliuolo in un ammutinamento del popolo il 26 aprile del precedente
anno[54], i suoi partigiani avviliti affatto, le città d'Assisi, Urbino
ed Osimo cadute in potere de' Guelfi, quella di Recanati abbruciata e
distrutta sotto l'assurdo pretesto che vi si adoravano gl'idoli, e per
ultimo i superstiti figliuoli del conte erano caduti in mano de' loro
nemici, tranne un solo ch'erasi rifugiato a san Marino[55]. Da ogni
banda la sorte della guerra sembrava nemica ai Ghibellini, minacciati
omai d'un totale esterminio, quando tre ambasciatori di Luigi di Baviera
entrarono in Italia. Presentaronsi questi in aprile al legato, che
allora trovavasi a Piacenza, intimandogli di desistere dal recare
molestia al signore della città di Milano il quale era dipendente
soltanto dall'impero[56]. Il legato rinfacciò agli ambasciatori di
prendere le difese di un eretico, e di turbare la chiesa ne' suoi
diritti, e poche settimane dopo incaricò Raimondo di Cardone
dell'assedio di Milano[57]. Ma non tardò a sentire che l'intervento di
un imperatore aveva bastato per restaurare gli affari de' Ghibellini:
gli ambasciatori eransi gettati in Milano con quattrocento cavalli;
dietro loro ordine i signori di Verona, di Mantova, di Ferrara mandarono
ai Visconti cinquecento cavalli; ed inoltre cinquecento Tedeschi che
servivano nell'armata guelfa, vedendo sventolare le bandiere imperiali
sulle mura di Milano, entrarono in città per unirsi ai loro
compatriotti. Raimondo di Cardone indebolito dalla loro diserzione e
dalle malattie che si erano manifestate nel suo campo, il 23 luglio del
1323 abbandonò l'assedio di Milano e si ritirò a Monza[58].
[52] _Gio. Villani l. IX, c. 189 e 197._
[53] _Ivi c. 186._
[54] _Ivi c. 139._
[55] Questo castello fabbricato in cima alla più alta montagna della
Romagna, era già libero, e governavasi a comune, ma era alleato de'
Ghibellini e di Speranza di Montefeltro, cui diede asilo. _Mel.
Delfico Mem. Stor. della repub. di san Marino, p. 97._
[56] I conti di Neyssen, Fruhendingen, e Graifspach. _Olenschlager
Geschich. § 44, p. 119._
[57] _Gio. Villani l. IX, c. 194._
[58] _Chron. Asten. c. 112_, ed ultimo. — _Galvan. Flammæ Man.
Flor., c. 362. — Georgii Merulæ Hist. Mediol. l. I, p. 85. —
Bonincontri Morigiæ Chr. Modoetianæ l. III, c. 21._
Luigi di Baviera poteva finalmente pensare alle cose dell'Italia, cui i
due concorrenti all'Impero non avevano fino allora preso parte. Amendue
abbandonati dalla nobiltà che gli aveva eletti, non avevano potuto
commettere la decisione dei loro diritti alla sorte delle armi: e
sebbene del 1315 si fossero trovati a fronte nelle vicinanze di Spira,
eransi separati senza battaglia. La più importante zuffa della guerra
civile in Germania era stata quella degli Svizzeri de' tre primi cantoni
a Morgarten, ove disfecero il duca Leopoldo, fratello di Federico
d'Austria. Nel 1320 la Baviera fu in modo saccheggiata dagli Austriaci,
che Luigi fu in procinto di comperare la pace colla rinuncia
all'Impero[59]. Finalmente il 28 settembre del 1322 i due imperatori
eletti incontraronsi a Muhldorf. Luigi ed il suo alleato il re di Boemia
avevano adunate tutte le loro forze; Federico per lo contrario non aveva
ancora ricevuti i rinforzi che gli conduceva suo fratello Leopoldo dalla
Svevia e dall'alto Reno. La battaglia incominciò al levare del sole, e
durò dieci ore. Siccome le due armate erano quasi composte di sola
cavalleria, si combatteva coll'ordine e la regolarità d'un torneo. Dopo
una carica impetuosa, ogni armata riordinavasi in battaglia per fare
dopo breve intervallo una carica non meno violenta. Ma in questo
terribile torneo che doveva decidere del destino d'un Impero, si sparse
un fiume di sangue, avendovi perduta la vita quattro mila cavalieri.
Finalmente gli Austriaci furono rotti compiutamente, e Federico e suo
fratello Enrico fatti prigionieri. Il primo fu mandato nel forte di
Trausnitz nell'alto Palatinato ed Enrico ceduto al re boemo che col suo
valore aveva decisa la battaglia[60].
[59] _Olenschlager Gesch. des Rom. Kaiserthums § 41, p. 109._
[60] _Gio. Villani l. IX, c. 173. — Epitome Rer. Brem. R. P.
Bohuslao Balbino, l. III, c. 17. — Olenschlager Geschichte des Rom.
Kays. § 42. — Schmidt Hist. des Allem. l. VII, c. 5._
Dopo questo fatto, Luigi di Baviera cominciò a governare l'Impero come
solo legittimo sovrano. In una grande dieta, tenuta a Norimberga
pubblicò una bolla per istabilire la pace, abolì i pedaggi che si
esigevano in tempo della guerra, dispose dei feudi rimasti vacanti,
diede a suo figliuolo il margraviato di Brandeburgo; finalmente volgendo
i suoi sguardi all'Italia, pensò a proteggere in questa contrada coloro
che da lungo tempo eransi eretti campioni dei diritti imperiali.
Luigi di Baviera aveva partecipata la sua vittoria di Muhldorf a
Giovanni XXII, il quale non essendosi fin allora dichiarato a favore
d'alcuno dei due rivali, gli rispose amichevolmente. «Abbiamo ricevuto,
mio caro figlio, le lettere dell'eccellenza tua, le abbiamo
ponderatamente lette, ed uditi ancora i circostanziati racconti fattici
dal portatore. Abbiamo notato con quanta umiltà e prudenza tu
attribuisci al padrone delle battaglie la vittoria di fresco ottenuta
sul tuo competitore. Abbiamo pure osservato che ti sei comportato con
estrema umanità verso di lui nell'istante in cui fu fatto prigioniere e
dopo che tu lo tieni cattivo: noi ti esortiamo a perseverare nella
stessa condotta.... Rispetto al trattato di pace e di concordia fra te e
lui, ci offriamo di occuparcene, e lo faremo ben tosto quando ci avrai
fatte conoscere le tue intenzioni[61].»
[61] Lettera di Giovanni XXII 15 _cal. januarii_. _Raynald. 1322, §
15._
(1323) Ma allorchè il papa venne a sapere che Luigi aveva mandati
soccorsi a Galeazzo Visconti, e costretto Raimondo di Cardone a levare
l'assedio di Milano, si abbandonò alla più violenta collera. Determinato
d'intentare un processo contro il re de' Romani, ricorse per dargli un
titolo alla più strana pretensione. Asserì contro l'evidenza di tutti i
secoli e di tutte le storie, «che la santa sede era amministratrice
dell'Impero in tempo dell'interregno, che il solo papa era giudice tra i
due competitori; che l'esame del candidato, la sua approvazione, la sua
ammissione, o la sua ripulsa e riprovazione, erano di esclusiva
pertinenza della sede apostolica; e che fin tanto che il papa non avesse
approvato o rigettato l'uno o l'altro competitore, non esisteva ancora
verun re de' Romani, e non era altrui permesso di assumerne il
titolo[62]». Onde creò a Luigi di Baviera altrettanti delitti, quanti
erano gli affari da lui trattati come re de' Romani. «Era, diceva egli,
una grave offesa verso Dio, un manifesto ed ingiurioso disprezzo della
chiesa romana l'avere assunta l'amministrazione dell'Impero, l'avere,
sotto titolo reale, ricevuto in Germania ed in alcune parti d'Italia un
giuramento di fedeltà, l'aver disposto delle dignità e degli onori
imperiali, e tra questi del marchesato di Brandeburgo; finalmente
d'avere osato di proteggere e difendere i nemici della chiesa romana,
specialmente Galeazzo Visconti ed i suoi fratelli, sebbene condannati da
giudici competenti per delitti d'eresia con sentenza definitiva[63]».
[62] Sentenza di Giovanni XXII contro Luigi di Baviera. _Raynald.
1323, § 30. — Gio. Villani l. IX, c. 226._
[63] _Raynald. 1323, § 30._
In conseguenza l'otto ottobre del 1323 il papa fece affiggere alle
chiese d'Avignone una sentenza contro Luigi di Baviera, con cui, sotto
pena di scomunica, gli veniva ordinato di dimettersi, entro tre mesi, da
qualsiasi amministrazione dell'Impero: amministrazione che egli non
potrebbe riassumere finchè la sua elezione non fosse approvata dalla
sede apostolica. Gli fu nello stesso tempo ordinato d'annullare, per
quanto da lui dipendeva, tutti gli atti precedentemente fatti come re
de' Romani, e proibito a tutti gli ecclesiastici sotto pena di
sospensione, a tutti i laici sotto pena di scomunica e d'interdetto, di
ajutare in verun modo Luigi di Baviera, o di ubbidirlo nell'esercizio
delle funzioni ch'egli si arrogava come re de' Romani.
Il papa si accontentò di far affiggere tale sentenza alle porte delle
chiese d'Avignone senza farle notificare a colui contro del quale erano
state fatte. Non pertanto se n'ebbe tosto sentore in Germania[64]; e
saputolo Luigi, spedì tre deputati alla santa sede, per sapere i motivi
della sua condanna, e chiedere un più lungo termine dell'accordato.
Intanto il monarca passò a Norimberga, ove alla presenza di notaj e di
testimonj confutò ogni imputazione fattagli dalla corte pontificia.
Dichiarò che dopo essere stato nominato re de' Romani dagli elettori con
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