Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 05 (of 16) - 02

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alleato del suo rivale; una simile discordia divideva tutte le case dei
principi; tre cappelli elettorali erano contrastati come la corona
imperiale, e le armi dovevano decidere della eredità e dei diritti delle
più potenti famiglie. La stessa eguaglianza de' suffragi e
l'indifferenza de' principi della Germania settentrionale prolungarono
la guerra, soltanto di quando in quando sospesa da reciproco rifinimento
di forze. In tale stato di cose i due rivali non potevano tentare di
farsi riconoscere in Italia senza abbandonare la Germania al nemico;
onde, mentre questa aveva due re de' Romani, l'Italia trovavasi agitata
dagli intrighi degli ambiziosi. Nè andò lungo tempo che la cessazione
d'ogni autorità suprema, che tenne dietro immediatamente alla vigorosa
amministrazione di Enrico VII, produsse tra i Guelfi ed i Ghibellini una
guerra non meno accanita di quella che facevansi in Germania i due
pretendenti al trono. E questa guerra, resa generale da opposti
interessi, da inveterati odj, era cagionata da tante cause diverse
quanti erano i capi che la trattavano.
Il papa ed il re di Napoli uniti dal loro attaccamento alla corte di
Francia, dallo spirito del partito guelfo, e da una comune ambizione,
avevano nemici i nuovi principi Lombardi innalzati di fresco alla
sovranità dall'intrigo e dal valore. Questi erano debitori della loro
potenza alla violenza delle fazioni; ed i Ghibellini avevano comperato
colla perdita della libertà il valore o l'accortezza de' loro capi:
perciò i nuovi principi tenevano vive le burrascose passioni che avevano
sperimentate tanto vantaggiose ai loro interessi; associavansi essi
medesimi ai faziosi, e, quasi la sorte loro fosse attaccata alla difesa
d'un trono ancora vacante, si facevano una feroce ed ostinata guerra.
Regnava ancora Clemente V, quando fu portata alla corte pontificia la
notizia della morte d'Enrico VII. Sembra che questo papa dipendente
dalla Francia, che dimorava ora in una ora in altra provincia di cui non
era sovrano, debole per carattere come per situazione, ed incapace di
meritarsi l'amore o il rispetto de' fedeli, abbia voluto sollevarsi da
questo stato d'avvilimento, manifestando sul primo trono della
cristianità pretensioni sconosciute allo stesso Ildebrando e ad
Innocenzo III. Pubblicò una bolla per annullare la sentenza pronunciata
da Enrico VII contro il re Roberto. «Lo che facciamo, egli diceva, tanto
in virtù della indubitata autorità che noi abbiamo sopra l'impero
romano, quanto pel diritto a noi competente di succedere all'imperatore
nella vacanza dell'impero[6].» In virtù adunque di un tale diritto fin
allora sconosciuto, Clemente accordò subito dopo a Roberto re di Napoli
il titolo provvisorio di vicario imperiale in tutta l'Italia: il quale
vicariato se non veniva rivocato dal sovrano pontefice, durava fino a
due mesi dopo l'elezione del legittimo imperatore[7].
[6] _Lib. VII, decret. Clementina Pastoralem — Olenschlager Gesch.
c. 28._
[7] _Bulla Clementis V, 2 idus martii, ap. Raynad. 1314, §§ 2._ Da
questa concessione fu eccettuata la Liguria.
Furono queste due bolle gli ultimi atti dell'amministrazione di Clemente
V in Italia. Questo pontefice che aveva così vilmente venduti
gl'interessi della santa sede e quelli della propria coscienza a Filippo
il Bello re di Francia, e che gli aveva sagrificato l'ordine de'
Templari, morì a Rochemauri l'anno medesimo della morte di Filippo il 20
aprile del 1314, mentre preparavasi a tornare a Bordò sua patria per
ricuperare col favore dell'aria nativa la mal ferma sua salute[8]. La
terribile citazione d'un templario, che di mezzo alle fiamme aveva
chiamati Clemente e Filippo innanzi al tribunale di Dio, parve in tal
modo compiuta.
[8] _Clementis V vita ex Bernardo Guidonis t. III, p. II._
Clemente V aveva ammassati grandi tesori vendendo i beneficj
ecclesiastici, e facendo altri scandalosi mercati, che lo resero
esecrabile ai suoi contemporanei[9]. Oltre il danaro che teneva ne' suoi
forzieri, aveva arricchiti tutti i suoi parenti e famigliari; ma le sue
generosità non gli avevano guadagnato l'affetto di nessuno: perciocchè,
appena morto, tutti coloro che abitavano nel suo palazzo, si scagliarono
addosso ai suoi tesori; e non vi fu fra tanti neppure un solo servitore
fedele che si prendesse cura del cadavere del suo padrone: onde essendo
caduti alcuni torchi che ardevano intorno al feretro, vi appiccarono il
fuoco, che, comunicatosi ben tosto all'appartamento, obbligò finalmente
i rubatori ad occuparsene, e lo spensero; ma il palazzo e la guardaroba
erano stati talmente spogliati, che non si trovò che un vecchio mantello
per cuoprire il corpo mezzo abbrustolito del più ricco papa che
governasse la chiesa[10].
[9] Il seguente aneddoto riferito da uno de' più religiosi scrittori
italiani può risguardarsi come una prova della pubblica opinione sul
conto di questo pontefice. Spaventato dalla morte di un cardinale
suo nipote, ch'egli molto amava, mostrò grandissimo desiderio di
sapere ciò che accaduto fosse della di lui anima. Uno de' suoi più
fedeli cappellani si lasciò, per compiacerlo, trasportare da un
famoso negromante nell'altro mondo. Questi vide nell'inferno un
palazzo, entro il quale il cardinal nipote giaceva sopra un letto di
fiamme in pena della sua simonia; e di contro a questo palazzo i
demonj ne andavano fabbricando un altro egualmente infiammato.
_Questo_, disse uno di costoro al cappellano, _è destinato pel tuo
padrone_. Il cappellano, tornato dalla sua missione, riferì a
Clemente V la terribile notizia. Il quale spaventato da tale
racconto, più non fu veduto sorridere; ed in breve morì colla
coscienza agitata da così spaventosa predizione. _Villani l. IX, c.
59._
[10] _F. Francisci Pipini Chron. in fine, p. 780._
Ventitre cardinali adunaronsi a Carpentrasso per dare un nuovo capo alla
cristianità. Sebbene gl'Italiani non fossero che sei, siccome la
lontananza del papa dalla greggia di cui era immediato pastore,
risguardavasi come uno scandalo pubblico che aveva eccitate le lagnanze
di tutti i cristiani, i pochi italiani contrappesavano ancora nel
conclave il credito dei Francesi. Ma due parenti del papa defunto
entrarono il 24 luglio con un corpo di truppa in Carpentrasso, e vi
eccitarono la sedizione per isforzare il conclave a nominar papa un
Guascone. Furono incendiate le case dei cardinali italiani e di molti
cortigiani e mercanti della stessa nazione, e minacciati di morte i capi
della chiesa; finalmente il pericolo si fece così urgente, che i
cardinali italiani, chiusi in conclave, fecero atterrare un muro dietro
al palazzo e fuggirono. Questa diserzione costrinse il collegio de'
cardinali a separarsi, e protrasse più di due anni la nomina del nuovo
pontefice[11].
[11] _Bernardi Guidonis, vite Clementis V, p. 464._
Filippo conte di Poitou, che fu poi conosciuto sotto nome di Filippo il
lungo, re di Francia, ottenne di riunire a Lione i dispersi cardinali
l'anno 1316. Per averli presso di lui aveva loro solennemente promesso
di non segregarli in conclave; ma mancò loro di parola[12]. Li fece
entrare nel sacro ricinto il 28 di giugno, di dove non uscirono che dopo
quaranta giorni di lotta, proclamando il 7 agosto Giacomo d'Ossa, nativo
di Cahors, in allora vescovo di Porto, che si fece chiamare Giovanni
XXII. Era il d'Ossa cancelliere di Roberto, re di Napoli, e sua
creatura. Era nato vilmente, ma aveva saputo innalzarsi co' suoi talenti
non meno che coll'intrigo e coll'arditezza. Si dice che in principio
della sua carriera aveva recato a Clemente false commendatizie del re
Roberto, e che con tal mezzo ottenne i vescovadi di Frejus e di
Avignone[13]. Si racconta pure che nel conclave in cui fu creato papa
erano divisi i suffragi; che i Guasconi volevano un papa del loro paese,
e che i Francesi ed i Provenzali si unirono agl'Italiani per riportare
la santa sede a Roma. Allora non potendo i due partiti andare d'accordo,
convennero di porre la nomina del successore di san Pietro in arbitrio
del cardinale d'Ossa, il quale con infinito stupore del sacro collegio
nominò sè stesso[14]. Per altro l'aperta parzialità di Giovanni XXII per
gli oltramontani, la sua vile dipendenza dalle corti di Parigi e di
Napoli, la risoluzione da lui presa di fissare in Provenza la sede
pontificia, ed i mali cagionati all'Italia dalla sua ambizione e dalla
sua venalità, inasprirono in modo gl'Italiani contro di lui, che forse
non meritano intera fede le scandalose voci divulgate da' suoi
contemporanei intorno alla sua promozione.
[12] _Vita Joan. XXII, a Canon. sanct. Victoris t. III, p. II._
[13] _Ferretus Vicentinus l. VII, p. 1168._
[14] _Gio. Villani l. IX, c. 79._
Dopo la morte d'Enrico VII, Roberto re di Napoli era rimasto senza
paragone il più potente sovrano d'Italia. Aveva aggiunto al regno della
Puglia la signoria di molte città del Piemonte e l'alleanza di tutti i
Guelfi dello stato della chiesa, della Toscana, della Lombardia, che in
forza della concessione di Clemente V lo riconoscevano per vicario
imperiale. Era Roberto nello stesso tempo sovrano della Provenza, onde
tenevasi i papi affatto soggetti, ed aveva un illimitato credito alla
corte di Francia. Teneva uniti questi stati l'interesse del partito
guelfo, del quale Roberto prendevasi più cura che di tutt'altro affare;
e preparavasi ad approfittare dell'interregno dell'impero e delle guerre
civili di Germania per ischiacciare affatto il partito ghibellino in
Italia.
Ma questo partito era diretto da capi valorosi ed illuminati, da capi
intrepidi e pieni di zelo, che potevano lungamente resistere ai loro
nemici; da capi strettamente uniti dal timore d'imminente ruina, e che
l'implacabile odio della parte guelfa teneva fermi ne' loro principj.
Questi capi di parte avevano ottenuta la sovranità della loro patria.
Contavansi tra i principali Matteo Visconti signore di Milano e di parte
della Lombardia, Cane della Scala signore di Verona e di parte della
Venezia, Passerino Bonacossi signore di Mantova, Castruccio Castracani
signore di Lucca e capo in Toscana del partito cui aveva formato
Uguccione della Fagiuola, e per ultimo Federico di Montefeltro, signore
d'Urbino, capitano dei Ghibellini della Marca d'Ancona e del ducato di
Spoleto. Altri meno potenti e meno rinomati gentiluomini comandavano in
città di minore importanza, in castelli ed in villaggi fortificati, che
tenevano soggetti alla lega ghibellina.
Come capo di tutti i Ghibellini d'Italia veniva risguardato, non meno
per la sua avanzata età, che per i suoi maturi consigli e per la
superiorità delle sue forze, Matteo Visconti. Perciò contro di lui
diresse Roberto i suoi primi attacchi: Ugo di Baux che comandava per lui
in Piemonte, essendosi alleato colle città di Pavia, Vercelli, Asti ed
Alessandria[15], raccolti i fuorusciti della casa de' Torriani coi loro
seguaci e la maggior parte de' Guelfi della Lombardia, portò la sua
armata a due mila cavalli e dieci mila pedoni. Con queste forze entrò
nella Lumellina; ed il giorno 24 decembre del 1313 incontrò presso di
Abbiate Grasso l'armata de' Visconti e la ruppe[16]. Ma non tardò a
manifestarsi la discordia nel campo di Ugo tra i Provenzali ed i
Lombardi. I contadini abbandonati alle molestie delle truppe unironsi ai
suoi nemici; ed Ugo, sebbene vittorioso, si trovò costretto di
abbandonare vergognosamente il territorio milanese[17].
[15] _Galvan. Flam. Manip. Florum c. 354._
[16] _Alberti Mussati de Gestis Italic. l. I, R. 6._
[17] _Tristani Calchi Hist. Patriæ l. XXI._
Nel susseguente anno 1314 Roberto pose alla testa dei Guelfi di
Lombardia Ugo, Delfino del Viennese; il quale riunì come il suo
predecessore una bell'armata composta delle milizie delle città guelfe e
de' fuorusciti delle ghibelline; ma anche quest'armata non ebbe successi
proporzionati alla sua forza. Dopo avere invano tentato d'impadronirsi
di Piacenza, Ugo si ritirò in disordine ad Alessandria; e l'armata si
dissipò senza avere combattuto[18].
[18] _Alber. Mussati de Gest. Ital. l. III, Rub. 6._
Fu in questo stesso anno che le forze del re Roberto unite a quelle de'
Fiorentini ebbero la terribile disfatta di Montecatini, di cui abbiamo
parlato nel precedente capitolo: come pure appartengono alla stessa
epoca le vittorie riportate da Cane della Scala sopra i Padovani ed i
Guelfi della Marca Trivigiana. Soltanto nel Milanese la vittoria non
erasi dichiarata per verun partito; e nel cominciare della campagna del
1315, Matteo Visconti, stretto dalla banda di Bergamo dai fuorusciti di
questa città[19], e dalla parte del Po dai Guelfi di Pavia, di Vercelli
e di Alessandria[20], fu in pericolo di perdere Bergamo, e costretto ad
abbandonare la Lumellina ai nemici che la saccheggiarono. Ma il
Visconti, che conosceva quanto quella della guerra, l'arte delle
negoziazioni, accordò agli esiliati bergamaschi una pace
vantaggiosa[21], e volgendo tutte le sue forze contro i Pavesi, li ruppe
la prima volta in luglio presso alla Scrivia, e nel susseguente ottobre
s'impadronì per sorpresa della loro città[22]. La morte del conte
Riccardo di Langusco, il capo de' Guelfi pavesi, la prigionia di molti
signori della famiglia della Torre, il saccheggio e la ruina d'una città
che doveva essere considerata come la capitale della parte guelfa in
Lombardia, furono le prime conseguenze di questo avvenimento. Non tardò
il terrore ad impadronirsi de' Guelfi, onde le città di Tortona e
d'Alessandria si diedero volontariamente a Matteo Visconti[23]. Como,
Bergamo e Piacenza erano di già a lui soggette, ed il partito ghibellino
trionfò in quasi tutta la Lombardia.
[19] _Ibid. l. VII, Rub. 3._
[20] _Ibid. Rub. 5._
[21] _Albert. Mussati de Gestis Ital. l. VII. R. 9._
[22] _Ibid. Rub. 11._
[23] _Ibid. Rub. 19. — Tristani Calchi l. XXI._
Tale era lo stato delle fazioni, in Italia, quando venne creato in Lione
papa Giovanni XXII. Roberto che aveva avuto una serie di sventure
durante l'interregno della chiesa, volle allora sperimentare se col
mezzo di un pontefice, che gli era affatto ligio, e coi soccorsi delle
sue armi spirituali potrebbe restaurare quell'equilibrio che i suoi
generali avevano lasciato distruggere. Siccome i capi che combattevano
contro di lui, pretendevano di essere rivestiti dell'autorità imperiale,
pensò di volerneli privare; e Giovanni XXII dichiarò con una bolla
pontificia decaduti, alla morte d'Enrico VII, da' loro diritti quelli
che il defunto monarca aveva nominati suoi vicarj imperiali. «Dio
medesimo, diceva il papa, confidò l'impero della terra come quello del
cielo al sommo pontefice, e durante l'interregno tutti i diritti
dell'imperatore sono devoluti alla chiesa; e quello che, senza averne
chiesta ed ottenuta la permissione dalla sede Apostolica, continua ad
esercitare le funzioni che gli aveva accordate l'imperatore, si rende
colpevole, offendendo la stessa divina maestà[24].»
[24] _Bolla in data dell'undici delle Calende d'aprile 1317. Rayn. §
27._
Non voleva il Visconti apertamente dichiararsi contro la chiesa, ma non
voleva pure lasciarsi spogliare della sua autorità. S'avvide che il
potere confidatogli da Enrico non poteva sopravvivergli, e rinunciò al
titolo di vicario imperiale, ma chiese ai popoli da lui governati che
colla loro approvazione confermassero la sua autorità, ed assunse il
nuovo titolo di capitano e difensore della libertà milanese[25].
[25] _Bonin. Morigiæ Chron. Mediol. l. II, c. 22. — Galv. Flam. Man.
Flor. c. 365. — Trist. Calchi Hist. l. XXI._
Quest'atto di deferenza non salvò il Visconti dalla collera del papa, il
quale lo stesso anno 1317 pronunciò contro di lui sentenza di scomunica,
e pose Milano sotto l'interdetto; ma tutt'ad un tratto le armate
collegate di Roberto, del papa e de' Guelfi s'allontanarono dalla
Lombardia a cagione della rivoluzione scoppiata in Genova; e tutte le
forze delle fazioni si ridussero nella Liguria, in un angusto spazio tra
le montagne ed il mare per decidere del dominio di tutta l'Italia.
Quattro grandi famiglie, i Doria, gli Spinola, i Grimaldi ed i Fieschi
amministravano da lungo tempo la repubblica di Genova: una gioventù
bellicosa, grandi ricchezze, vasti feudi nelle due riviere sparsi di
fortezze assicuravano la loro potenza. Le due prime famiglie erano
ghibelline, guelfe le altre; ed un'impaziente rivalità teneva sempre
divisi coloro, che la stessa fazione avrebbe dovuto conservare uniti. I
Doria e gli Spinola governavano Genova dopo il passaggio d'Enrico VII
fino al presente, ed i Grimaldi ed i Fieschi n'erano sbanditi. Ma i
primi non sapevano frenare la mutua loro gelosia, volendo ogni famiglia
regnar sola; onde, in occasione d'una sommossa nella piccola città di
Rapallo, i Doria attaccarono gli Spinola in febbrajo del 1314[26]. La
guerra civile si prolungò ventiquattro giorni nell'interno della città;
i molti loro palazzi eransi trasformati in fortezze, che venivano a
vicenda attaccate e difese, e la sorte della guerra era sempre
incerta[27]. Intanto i Doria chiamarono in loro soccorso gli esiliati
guelfi, Grimaldi e Fieschi, e costrinsero gli Spinola ad abbandonare la
città.
[26] _Gio. Villani l. IX, c. 56._
[27] _Uberti Folietae Genuens. Hist. l. VI._
Ma i vincitori che volevano attaccare gli Spinola nelle loro rocche,
furono costretti prima di tutto di ricompensare gli alleati da cui erano
stati ajutati; onde divisero il governo dello stato coi Guelfi, e non
tardarono ad accorgersi di non essere i più potenti. Nel 1317 i Guelfi
vollero finalmente ridonare la pace alla città, ed ordinarono ai Doria
di riconciliarsi cogli Spinola; e perchè i primi non ubbidivano,
aprirono le porte agli Spinola. Una strana rivoluzione emerse in allora
da così violenta animosità e dal reciproco timore. Spaventati i Doria
dalla superiorità che acquistavano i loro nemici, uscirono, senza
combattere, dalle mura di Genova; e gli Spinola non meno dei Doria
atterriti nel trovarsi in balìa de' Guelfi che gli avevano chiamati,
abbandonarono ancor essi la città; onde i Grimaldi coi Fieschi si
trovarono soli padroni della repubblica loro abbandonata dalle due
fazioni ghibelline.
Le due famiglie rivali che trovaronsi esiliate assieme dopo avere
volontariamente abbandonata la patria ai loro nemici, non tardarono, nel
comune infortunio, a riconciliarsi. S'impadronirono di Savona e di
Albenga, che fortificarono per servire di centro alle loro forze. I
Ghibellini delle montagne si unirono ai fuorusciti genovesi, cui Matteo
Visconti e Cane della Scala promisero larghi soccorsi[28].
[28] _Georg. Stellae Annal. Gen. t. XVII, p. 1029. — Gio. Villani L.
IX c. 85. — Uberti Folietae Hist. gen. l. VI, p. 414._
In marzo del 1318 Marco Visconti, figliuolo del signore di Milano, passò
le montagne della Bocchetta con un'armata, e si avanzò fino alle porte
di Genova per assediarla. Una flotta ghibellina, equipaggiata a Savona
dagli emigrati, presentossi nello stesso tempo innanzi al porto, e dopo
varie scaramucce s'impadronì della torre del Faro. L'armata del Visconti
si divise ne' sobborghi di san Giovanni e di sant'Agnese, occupando le
valli di Bisagno e della Polsevera[29]. I Grimaldi ed i Fieschi,
vedendosi addosso tutte le forze de' Ghibellini d'Italia, scrissero al
re Roberto di Napoli ed a tutte le città guelfe per avere soccorsi.
[29] _Gio. Villani l. IX, c. 90. — Chron. Asten. t. XI, c. 99, p.
254._
Roberto che fino allora aveva affidato il maneggio della guerra in
Lombardia ed in Toscana ai suoi generali e ai principi del sangue,
credette la difesa di Genova di tale importanza, che volle incaricarsene
egli medesimo. Genova signoreggiava per alcuni rispetti il mar Tirreno,
e teneva aperta la comunicazione tra gli stati di Roberto nella Provenza
e nel regno: e le città che possedeva in Piemonte, e le città guelfe di
Lombardia non potevano difendersi o riconquistarsi che per la via di
Genova. Apparecchiata perciò una flotta di venticinque galere, il re
colla regina sua consorte e due de' suoi fratelli s'imbarcò il 10 luglio
a Napoli, ed entrato il 21 nel porto di Genova, scese all'istante sulla
piazza del palazzo con mille duecento cavalli dichiarando al popolo
adunato ch'era venuto a difenderlo e salvarlo[30].
[30] _Georg. Stellæ Annal. Gen. t. XVII._
L'apparente generosità del re eccitò quella del popolo; il suo discorso
riscosse i più vivi applausi, e per uno spontaneo movimento l'assemblea
accordò per dieci anni a lui ed al papa congiuntamente la signoria dello
stato. I due capitani o capi dello stato abdicarono la loro autorità, e
tutti i cittadini giurarono ubbidienza al re di Napoli. Questo subito
impensato avvenimento fece sospettare agli stessi Guelfi che fosse stato
anticipatamente preparato dai suoi intrighi[31].
[31] _Gio. Villani l. IX, c. 92._
La presenza di Roberto non iscoraggiò gli assedianti, i quali
continuarono i loro attacchi contro il corpo medesimo della piazza, e
s'impadronirono di sant'Agnese, che per mezzo d'un ponte comunicava
colle mura della città. Durante l'autunno e l'inverno ebbero luogo quasi
ogni giorno caldissime zuffe, nelle quali i Ghibellini erano d'ordinario
vincitori[32]. Le due parti che dividevano tutta l'Italia, attaccavano
la maggiore importanza all'assedio di Genova, e pareva che i loro
campioni avessero convenuto di trovarsi tra quelle montagne per
combattere. Si videro arrivare un dopo l'altro al campo ghibellino il
marchese di Monferrato, Castruccio Castracani, signore di Lucca, e le
genti mandate dai Pisani, da Federico, re di Sicilia, e dallo stesso
imperatore di Costantinopoli. Dal canto suo, Roberto riceveva soccorso
dai Fiorentini, dai Bolognesi e dai Guelfi della Romagna. Gli assedianti
avevano mille cinquecento cavalli, gli assediati più di due mila
cinquecento; ma questa greve cavalleria, che in tutt'altri luoghi
decideva la sorte delle battaglie, chiusa in mezzo a selvagge scoscese
montagne, non aveva terreno abbastanza piano per combattere, e languiva
nell'ozio e nelle privazioni senza poter metter fine a questa guerra con
un'azione generale. Roberto, la di cui impazienza veniva accresciuta
dalla superiorità delle forze, aveva più volte tentato d'uscire da
questa specie di prigione; ma soltanto il 5 febbrajo del 1319 gli riuscì
di sbarcare a Sestri di Ponente ottocento cavalli e quindici mila fanti.
Con ciò tagliava la comunicazione tra Savona, ove trovavasi il grosso
degli emigrati, ed il campo degli assedianti; i quali essendo stati
rotti nel voler impedire lo sbarco de' nemici, dovettero, dopo dieci
mesi d'inutili attacchi, levare l'assedio di Genova, abbandonando parte
delle loro salmerie, e ritirarsi in Lombardia, senza che Roberto osasse
d'inseguirli attraverso le gole dell'Appennino[33].
[32] _Georg. Stella Gen. Hist. p. 1033. — Gio. Villani l. IX, c. 93.
— Ubert. Folieta l. VI._
[33] _Georg. Stellæ Ann. Genuens. p. 1034. — Gio. Villani l. IX, c.
95. — Chron. Astense c. 99. — Uberti Folietæ l. VI._
Ma il re volendo consolidare in Genova quell'autorità concessagli dalla
violenza dello spirito di partito, consigliava i Guelfi ad abusare della
vittoria. I magnifici palazzi dei Ghibellini che facevano il principale
ornamento della città, furono dal popolo furibondo incendiati e
distrutti fino ai fondamenti. Furono egualmente distrutte le belle case
di campagna, circondate da deliziosi giardini nelle valle di Bisagno e
della Polsevera: e dopo quest'odioso saccheggiamento, il re, il clero,
ed i cittadini, quasi avessero ottenuta una vittoria contro i barbari e
gl'infedeli, non contro i loro compatriotti, portarono in processione le
reliquie di san Giovanni Battista, e ringraziarono Dio nelle chiese
degli ottenuti vantaggi e del sangue sparso[34].
[34] _Georgii Stellæ Ann. Gen. p. 1091. — Ubertus Folieta Hist.
Genuens. l. VI._
Dopo avere in tal modo celebrata la sua vittoria, Roberto partì dalla
Liguria il giorno 29 d'aprile con parte delle sue truppe e delle sue
galere; e mentre andava in Provenza alla corte del papa, i Ghibellini
riconducevano la loro armata sotto Genova per riprenderne l'assedio.
Fino dal 25 di maggio alcune galere di Savona erano entrate nel porto di
Genova facendovi varie ricche prede, ma l'armata assediante si accampò
presso le mura di Genova soltanto il giorno 27 di luglio; ed il 3 di
agosto Corrado Doria chiuse il porto agli assediati con ventotto galere.
I Ghibellini ripresero nuovamente i sobborghi, e vi rimasero quattro
anni, azzuffandosi frequentemente pel possesso d'ogni ridotto, di ogni
chiesa, di ogni casa che poteva fortificarsi. La medesima guerra
sostenevasi con egual furore nelle due Riviere; ma l'occidentale era
principalmente occupata dai Ghibellini, e l'orientale dai Guelfi. I
Genovesi si andavano cercando per azzuffarsi anche ne' più rimoti mari,
e per fino nelle colonie della Grecia e del Levante[35]. Per altro i
principali capi ghibellini dell'Italia non trovaronsi personalmente al
secondo assedio di Genova, e tennero viva la guerra nelle altre
province.
[35] _Georgii Stellæ Ann. Genuens. p. 1051. — Ubertus Folieta
Genuens. l. VI._
L'anno 1317, Ferrara era stata tolta alla parte guelfa. Questa città,
già da un secolo sottomessa alla casa d'Este, erasi costantemente
mantenuta fedele al partito della chiesa; ma era stata governata ed
oppressa dai Guasconi mandativi dal papa e dal re Roberto, quando nel
1308 approfittando delle guerre civili che dividevano i principi d'Este,
avevano spogliati gli antichi loro alleati della propria sovranità. I
marchesi d'Este rifugiati a Rovigo avevano perciò dovuto cercare
l'alleanza de' Ghibellini per difendersi contro un papa che gli aveva
traditi; ed i Ferraresi dal canto loro accecati da immenso odio
confondevano la chiesa coi Guasconi, alle di cui soverchierie erano
stati dal papa abbandonati. Improvvisamente presero le armi il 4 agosto
1317, scacciarono i Guasconi da Ferrara, che si rifugiarono in castel
Tealdo, ove furono assediati dagl'irritati cittadini, e costretti a
capitolare il giorno 15 dello stesso mese. I marchesi d'Este furono di
nuovo proclamati signori di Ferrara, e si affrettarono di entrare nella
lega ghibellina che sola poteva mantenerli nella loro signoria[36].
[36] _Chron. Est. t. XV, p. 381. — Ann. Casen. t. XIV, p. 1137. —
Joh. de Bazano Chron. Mutin._ _t. XV, p. 579. — Math. de Griffon
Mem. Hist. t. XVIII, p. 138. — Cron. Misc. di Bologna p. 331, libro
del polistore, t. XXIV, c. 9, p. 729._
Questa lega cercava in tal tempo di consolidarsi per mezzo di più
regolare organizzazione. In dicembre del 1318 adunossi in Soncino,
grossa borgata posta sulla riva dell'Oglio, una dieta de' principali
capi, ove Cane della Scala, signore di Verona, cui il valore e la
munificenza avevano fatto dare il nome di Grande, fu di comune
consentimento dichiarato direttore e capitano della lega de' Ghibellini
in Lombardia[37].
[37] _Cortusiorum Hist. l. II, c. 15, t. XII, p. 803. — Tristani
Calchi Hist. Patriae l. XXI, p. 472._
Mentre Cane, per giustificare la confidenza de' suoi alleati, assediava
Padova, che avrebbe espugnata, se, impensatamente attaccato dal conte di
Gorizia, non avesse dovuto ritirarsi[38], e che Marco Visconti
sorprendeva sotto Alessandria Ugo di Baux, che nella totale disfatta
della sua armata perdè la gloria e la vita[39], il papa, trovandosi in
Avignone al sicuro da tutti i rovesci de' suoi alleati, andava cercando
quale nuovo avversario potesse far insorgere contro i Visconti, che
mortalmente odiava. Un prelato, universalmente creduto suo figliuolo,
Bertrando del Poggetto, cardinale di san Marcello, arrivò in Italia
l'anno 1319 col titolo di legato. Egli aveva ordine di perseguitare
acremente i Ghibellini, che la corte d'Avignone non esitava di
risguardare come eretici. Bertrando, appena giunto in Asti, ordinò a
Matteo Visconti di presentarsi entro due mesi alla corte pontificia per
giustificarsi, se lo poteva, dalle accuse d'eresia ond'era aggravato;
gl'ingiungeva pure di richiamare i Milanesi esiliati, di sottomettersi
al re Roberto, vicario imperiale in Italia, e di rinunciare al governo
della sua patria[40].
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