Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 05 (of 16) - 11

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Villani l. XI, c. 19 e 20._ Bonconte Monaldeschi, per altro, non lo
fa montare che a quindici milioni di fiorini.
Alle sue passioni politiche univa Giovanni XXII il gusto delle
discussioni teologiche, ed un grandissimo acume per seguirle. La chiesa
non aveva ancora deciso come un punto di domma quale fosse lo stato
delle anime de' beati dopo la loro morte fino alla fine del mondo.
Giovanni XXII, persuaso che soltanto l'ultimo giudizio doveva aprir loro
le porte della celeste gloria, teneva per indubitato che fino a quel
gran giorno le loro anime non vedrebbero Dio in tutta la sua gloria;
egli incoraggiava i teologi a disaminare tale quistione e ricompensava
coi benefizj coloro che nelle scritture o nelle prediche sostenevano la
sua opinione; ma in breve incontrò una opposizione assai maggiore che
non si aspettava. La sua credenza che sembrava a principio indifferente,
poteva avere sulle entrate della chiesa le più tristi conseguenze:
siccome negava alla Vergine Maria, agli apostoli ed a tutti i santi
l'ingresso in cielo prima della fine del mondo, attaccava i fondamenti
della dottrina delle indulgenze, delle messe per il riposo delle anime,
dell'invocazione e della intercessione dei santi, e per ultimo del fuoco
del purgatorio. I Tedeschi e gl'Italiani si affrettavano di appigliarsi
a questo pretesto per domandare la convocazione di un concilio generale
che avrebbe deposto il papa come colpevole d'eresia, e sottratta ad un
tempo la chiesa all'influenza della Francia[264]. Filippo di Valois, per
prevenire le loro pratiche, credette di costringere egli stesso il papa
a rinunciare alle proprie opinioni. Ottenne perciò una decisione dei
teologi di Parigi e dei cardinali in favore della beatifica visione, che
comunicò al papa, dandogli ad intendere che al bisogno sarebbe stato
costretto ad uniformarvisi[265]. Gli dichiarò inoltre che lo avrebbe
trattato come eretico e fatto bruciare se non si ritrattava[266].
Spaventato il papa da tali minacce, permise che fosse riprovata la sua
opinione, e la vigilia della sua morte pubblicò una dichiarazione con
cui professava la credenza della visione beatifica, che dopo tale epoca
diventò un domma della chiesa[267].
[264] _Olenschlager Geschichte des XIV jahrhund. § 109, p. 252._
[265] _Fleury Storia Eccles. l. XCIV, c. 33._
[266] _Gio. Villani l. X, c. 228. — Memorie per la Vita di Petrarca
del de Sade l. II, t. I._
[267] _Gio. Villani l. XI, c. 19._
I cardinali adunati in Avignone furono subito chiusi in conclave in
numero di ventiquattro; ma divisi in due fazioni non era sperabile che
s'accordassero sollecitamente; però fino dal primo giorno dello
scrutinio, volendo appositamente perdere il loro suffragio proponendo
uno de' loro confratelli, che ognuno trovasse poco proprio a riunire
tutti i suffragi, si trovarono unanimi nel designare l'uomo meno
riputato del loro collegio, Giacomo Fournier, figlio d'un fornajo di
Saverdun, chiamato il cardinal bianco perchè portava sempre l'abito di
monaco Cisterciense. I cardinali che lo avevano nominato, il popolo cui
venne annunciato ed il candidato che avevano allora adorato, rimasero
egualmente maravigliati di tale elezione. Quest'ultimo non potè
ritenersi dal dire ai suoi fratelli che i loro suffragi eransi _riuniti
a favore di un asino_. Benedetto XII, che così fu chiamato il nuovo
papa, era in fatti perfettamente digiuno di quella scienza di politica e
di dissimulazione che tanto aveva prosperato nella corte d'Avignone; ma
in ricompensa manifestò maggior amore per la pace, bontà e sollecitudine
per la sua greggia, che non ne aveva mostrato alcuno di coloro che da
oltre cinquant'anni avevano occupata la cattedra di san Pietro[268].
[268] _Gio. Villani l. XI, c. 21._
Il primo pensiere di Benedetto XII fu quello di riconciliare Luigi di
Baviera colla chiesa, e di metter fine alla scandalosa disputa che il
suo predecessore aveva provocata contra il capo della cristianità. Luigi
fin dalle prime aperture che gliene furono fatte, si assoggettò a tutte
le condizioni che gli furono imposte, e già stava per conchiudersi la
pace, quando i re di Francia e di Napoli si diressero per impedirla a
tutte le creature che avevano nel concistoro, e Filippo di Valois fece
ancora in tutta la Francia mettere le mani sulle rendite de' cardinali,
minacciandoli di confiscarne definitivamente i beni se si riconciliavano
col Bavaro. Di fatti un'invincibile opposizione del concistoro ritenne
il papa, e la negoziazione fu rotta[269].
[269] _Olenschlager Geschichte § 112. — Albertus Argentin. p. 126._
Frattanto la guerra intrapresa dai Fiorentini, di concerto coi principi
lombardi, si continuava con successo; i signori, cui il re Giovanni
aveva venduti i suoi stati, da lui e dal legato abbandonati, si andavano
successivamente sottomettendo, e trattavano coi capi della lega lombarda
per cedere loro le città a vantaggiose condizioni. Cremona fu aperta al
Visconti in maggio del 1334, e le altre città lombarde si diedero una
dopo l'altra nell'estate del 1335. Ma durante questa campagna, i
Fiorentini che mandarono costantemente e con ragguardevole spesa il loro
contingente all'armata dei confederati, non riuscivano che a stento a
far loro osservare le condizioni del primo accordo. I due più potenti
confederati Visconti e della Scala tentarono più volte con segreti
trattati d'impadronirsi delle città assegnate ai loro associati.
Finalmente, colla mediazione de' Fiorentini, Piacenza, Cremona e Lodi
furono occupate dal Visconti, Parma da Mastino della Scala, Reggio dai
Gonzaga, e Modena dal marchese d'Este[270].
[270] _Gio. Villani l. XI, c. 30-31. — Gazata Chron. Regiens. t.
XVIII, p. 50. — Joh. de Buzano Chron. Mutin. t. XV, p. 596. —
Bonifazio di Morano Chron. Mutin. t. XI, p. 126. — Chron. Estense t.
XV, p. 399. — Chron. Placent. t. XVI, p. 496. — Stor. Pistol. p.
468._
Tutti i confederati avevano in tal guisa ottenuto l'oggetto per cui
intrapresero la guerra, tranne i Fiorentini, che, essendosi riservato
l'acquisto di Lucca, avevano con poco vigore attaccata questa città per
non guastare una provincia che doveva essere loro suddita e che
speravano di avere con un trattato. I fratelli de' Rossi, signori di
Parma e di Lucca, avendo venduta la prima di queste città a Mastino
della Scala, erano disposti a trattare con lui ancora per la cessione
della seconda, ed i Fiorentini per una imprudente confidenza permisero
al signore, loro alleato, di condurre a termine una negoziazione così
importante per loro, di modo che videro con piacere entrare in Lucca il
20 dicembre del 1335, di consentimento di Pietro de' Rossi che vi
comandava, cinquecento cavalli di Mastino: ma questi non proponevasi
nelle sue negoziazioni il solo vantaggio degli alleati[271].
[271] _Gio. Villani l. XI, c. 40. — Chron. Veron. t. VIII, p. 649._
I Rossi avevano trattato col solo Mastino, e poco loro importava che
questi tenesse per sè la ceduta città o la dasse in mano de' Fiorentini.
Il principe di Verona, i di cui stati stendevansi in allora dalle
frontiere della Germania a quelle della Toscana, troppo ben conosceva di
quanto vantaggio poteva essergli il possedere in questa provincia una
città forte, per essere disposto a darla altrui. Fu appena signore di
Lucca, che cercò di ravvivare in Toscana il partito ghibellino e di
stendere la sua influenza sopra le città di Pisa e di Arezzo da lungo
tempo attaccate a questa fazione.
Dominava in Pisa il partito democratico, il quale aveva posto alla testa
della repubblica il conte Fazio o Bonifacio della Gherardesca. I plebei
e gli uomini nuovi che componevano i consigli, non avevano ereditati i
vecchi odj di famiglia da cui erano tuttavia animati i nobili; la loro
politica era tutta fondata sopra le presenti circostanze e sopra le
fresche alleanze, non già sull'affezione e le memorie della loro
infanzia: essi avevano chiuse le porte a Luigi di Baviera; avevano vinti
e cacciati dalla loro città i figliuoli di Castruccio; per ultimo
avevano ricercata l'amicizia dei Fiorentini, i capi del partito guelfo.
Ma i nobili, privati delle cariche, vedevano come cosa indegna la loro
patria alleata cogli antichi loro nemici. Attaccavano essi tutta la
gloria alla ricordanza delle antiche guerre contro i Guelfi, e l'odio
contro quella fazione era il più vivo loro sentimento. Credevano
interessati il loro onore e il loro dovere a conservare e trasmettere ai
figliuoli quest'odio implacabile che avevano ricevuto dai loro padri; e
purchè trionfasse il nome ghibellino, poco loro importava che il
commercio della patria fosse florido o languente, che questa conservasse
la libertà o venisse in mano di un principe. Trovavasi capo di questo
partito Benedetto Maccaroni[272], il quale entrò ben tosto nelle viste
di Mastino della Scala, accettando con riconoscenza i soccorsi
offertigli da questo signore per restituire ai nobili ed ai Ghibellini
l'antico potere.
[272] Maccaroni era il soprannome di un ramo della famiglia
Gualandi.
Da una disputa che scoppiò nel consiglio, in cui dovevasi eleggere un
cancelliere, Maccaroni prese motivo di chiamare il suo partito alle
armi. Aveva desiderato che un accidentale avvenimento preparasse gli
spiriti de' suoi partigiani senza dover loro confidare una trama, e col
pronto soccorso promessogli da Mastino tenevasi sicuro della vittoria.
Ma in questo inaspettato movimento, il conte Fazio prevenne i
gentiluomini; egli occupò prima di loro la piazza del palazzo pubblico,
e tese le catene che ne chiudevano le uscite per difenderla, mentre i
gentiluomini aprivano le prigioni e bruciavano i libri de' crediti dello
stato per guadagnarsi il favore della plebe. I due partiti vennero in
seguito alle mani sulla piazza di san Sisto, ove i nobili ebbero la
peggio: onde ritiraronsi lentamente verso la porta del lido che
Maccaroni sperava di poter difendere finchè giungessero le truppe di
Mastino. Diede avviso ai suoi compagni dell'imminente arrivo di questo
ajuto onde rianimarli; ma essendosi passata la notizia anche all'opposto
partito, molti cittadini che non avevano voluto prendere parte al primo
combattimento, presero le armi per impedire che la loro patria non
venisse in mano di Mastino della Scala, ed unitisi a Fazio, attaccarono
i gentiluomini con tanto vigore che li cacciarono subito di città. I
Gualandi, Sismondi, Lanfranchi, e quasi tutte le famiglie dell'alta
nobiltà furono esiliate[273].
[273] _Cron. di Pisa t. XV, p. 1002. — Fram. d'anonimo Pisano t.
XXIV, p. 670. — Gio. Villani l. XI, c. 42. — B. Marangoni Cron. di
Pisa p. 684._
I Fiorentini informati di questa sedizione di Pisa, ed avvisati in pari
tempo che Pietro de' Rossi erasi avanzato fino ad Asciano alla testa dei
soldati di Mastino per sostenere i Ghibellini, e che gli aveva
incontrati mentre fuggivano, conobbero facilmente le pratiche che il
signore di Verona stendeva in tutta la Toscana. Essi lo invitarono
ancora una volta ad aprir loro le porte di Lucca, in conformità delle
convenzioni; e per non lasciare veruna scusa alla sua mala fede,
acconsentirono di pagargli tutto quanto saprebbe chiedere per
indennizzarlo delle spese sostenute per conto di Lucca. Mastino portò le
sue pretese all'esorbitante somma di trecento sessanta mila fiorini; e
quando con estrema sua sorpresa gli ambasciatori della repubblica
risposero che erano pronti a pagarla, gridò ch'era abbastanza ricco per
non avere bisogno del loro danaro, e che non evacuerebbe Lucca se i
Fiorentini non gli permettevano d'impadronirsi di Bologna. Così fu rotta
la negoziazione il 23 febbrajo del 1336, e subito cominciarono le
ostilità in Val di Nievole[274].
[274] _Gio. Villani l. XI, c. 44._
In tal maniera i Fiorentini trovaronsi impegnati in una pericolosa
guerra con un tiranno, ch'essi avevano in parte sollevato a tanto
potere. Mastino era allora signore di nove città altra volta capitali
d'altrettanti stati sovrani[275], e traeva dalle gabelle loro settecento
mila fiorini d'entrata. Verun monarca della cristianità, ad eccezione di
quello di Francia, possedeva tante ricchezze. Tutto il rimanente della
Lombardia era soggetto a principi ghibellini, alleati naturali della
casa della Scala, e la corte di Mastino era l'asilo di tutti gl'illustri
esiliati. Lo storico Cortusio, mandato di que' tempi per un'ambasciata a
Mastino, lo trovò circondato da ventitre principi spogliati dei loro
stati i quali s'erano rifugiati nella sua capitale[276]. Il signore di
Verona, reso orgoglioso dalle sue alleanze, dalle sue ricchezze e dalla
prosperità delle sue armi, non aspirava niente meno che alla conquista
di tutta l'Italia; ed i Fiorentini erano i soli che ardissero opporsi a'
suoi ambiziosi disegni.
[275] Verona, Padova, Vicenza, Treviso, Brescia, Feltre, Belluno,
Parma e Lucca. _Gio. Villani l. XI, c. 45._
[276] _Cortus. Hist. l. VI, c. 1, t. XII, p. 869._
Troppo mancava perchè la repubblica fiorentina potesse pareggiarsi a
Mastino sia pel numero delle piazze forti e de' sudditi, che pel numero
de' soldati e per la quantità delle pubbliche entrate. Pure le private
ricchezze dei Fiorentini in allora padroni di molta parte del commercio
del mondo, davano alla loro repubblica un rango assai distinto tra le
potenze, perchè sagrificavano sempre con piacere le proprie ricchezze in
servigio della patria. Quando scoppiò la guerra con Mastino della Scala,
formarono un consiglio di finanza, incaricato di trovare danaro; e tutte
le casse del commercio gli furono aperte; onde la repubblica si trovò a
portata di opporsi a così formidabile avversario[277]. Fu pure creato un
consiglio militare, detto _Ufficio della guerra_, e composto di sei
cittadini deputati dai sei quartieri della città al quale fu rimessa la
direzione delle operazioni dell'armata per tutto un anno; affinchè la
più frequente rielezione della signoria non interrompesse l'andamento
degli affari.
[277] _Gio. Villani l. XI, c. 45._
Ma i Fiorentini non erano soltanto esposti ad essere attaccati dalla
parte di Lucca: un ardito capo de' Ghibellini dava loro vivissime
inquietudini all'opposto confine. Pietro Saccone dei Tarlati, uno de'
signori di Pietra Mala, era succeduto, nel governo d'Arezzo, a suo
fratello ch'era stato vescovo di quella città. Allevato nella più
selvaggia regione degli Appennini ove il castello di Pietra Mala
signoreggia i deserti coperti per più mesi dell'anno da alte nevi,
Saccone era avvezzo a sprezzare tutti i pericoli, tutte le fatiche e le
intemperie dell'aria. In un secolo incivilito, tra popoli ammolliti,
conservava Saccone i costumi e le abitudini dei conquistatori del Nord,
autori della sua stirpe. Egli disprezzava il lusso e la mollezza
d'Italia, ma ne conosceva la politica e sapeva valersi de' suoi
artifizj. Era nello stesso tempo sul campo di battaglia uno de' più
formidabili soldati, ed il più accorto ed ingegnoso condottiere quando
trattavasi di sorprendere una piazza o d'ingannare i nemici con qualche
stratagemma. Affezionato alle sue montagne, pareva piuttosto aspirare
alla sovranità delle Alpi, che a signoreggiare le fertili contrade che
stanno alle loro falde; come l'aquila che vola sugli Appennini di balza
in balza, ma che rare volte scende al piano. Egli aveva interamente
sottomessa la famiglia della Faggiuola che aveva spogliata di Massa
Trebaria e di tutta la sua eredità; aveva pure soggiogati gli Ubertini
con tutti i loro castelli ed i conti di Montefeltro e di
Montedoglio[278], di modo che la sua potenza stendevasi su tutte le
montagne della Toscana, della Romagna e della Marca d'Ancona. Dalla
signoria d'Arezzo era in seguito passato a quella di città di Castello e
di Borgo san Sepolcro; e per ultimo aveva attaccata Perugia che a stento
si andava contro di lui difendendo.
[278] _Gio. Villani l. XI, c. 25._
Saccone aveva osservata fedelmente la pace che vent'anni prima erasi
fatta tra le repubbliche di Fiorenza e di Arezzo, ed aveva, sebbene capo
del partito ghibellino, schivato di provocare sopra di sè le potenti
armi della signoria. Ma quando Mastino della Scala portò la guerra in
Toscana, Saccone accettò la sua alleanza, ed obbligossi ad introdurre in
Arezzo ottocento cavalli che il signore di Verona aveva mandati fino a
Forlì. In tali circostanze l'Ufficio della guerra non volle più rimanere
esposto alle sorprese di un vicino che aspettava il favorevole istante
per ismascherarsi. Perciò i Fiorentini dichiararono la guerra al signore
d'Arezzo, ed il 4 aprile del 1336 spinsero un corpo di cavalleria in
Romagna per opporsi a quella di Mastino, e fecero guastare dalle truppe
tutto lo stato d'Arezzo[279].
[279] _Gio. Villani l. XI, c. 48. — Leon. Aret. l. VI._
Le città di Siena, Perugia e Bologna erano, siccome ancora il re
Roberto, obbligati da un'antica alleanza a difendere i Fiorentini per la
salvezza del partito guelfo. L'Ufficio della guerra rinnovò
quest'alleanza, sebbene se ne potessero sperare pochi frutti, perciocchè
le repubbliche erano snervate dalle guerre civili, ed il re Roberto
dall'età e dallo scoraggiamento. Non si poteva far conto dei soccorsi
della repubblica di Genova, già da due anni in preda al partito
ghibellino che volgeva tutte le forze dello stato contro la stessa
repubblica[280]. Il potere della chiesa era in Italia omai spento
affatto; e le città della Romagna e della Marca erano dominate da
piccoli tiranni, la di cui politica limitavasi a far lega colla parte
più potente onde essere risparmiati dall'usurpatore almeno per tutto il
tempo che questi avrebbe qualche cagione di temere. Luigi di Baviera
continuava a proteggere Mastino, il quale chiamavasi sempre vicario
imperiale; e se alcuna potenza d'oltremonti doveva prendere parte nella
guerra che stava per ricominciare, non poteva farlo che in favore del
signore di Verona.
[280] _Gio. Villani l. XI, c. 24._
Venezia soltanto, mossa da più profonda politica, avrebbe potuto
associarsi a Fiorenza per difesa della libertà italiana. La potente
repubblica di Venezia fin allora occupata unicamente delle sue conquiste
del Levante, della marina, del commercio, non aveva acquistato alcun
possedimento sul continente, non aveva voluto contrarre alleanze, nè
prender parte alla politica italiana. I nomi de' Guelfi e de' Ghibellini
erano esclusi dai suoi dominj; non dipendeva dall'impero e teneva il
clero subordinato al proprio governo. Risguardavasi non pertanto
piuttosto come affezionata al partito imperiale; ed una certa gelosia di
commercio o di possanza sembrava che l'alienasse dai Fiorentini.
I signori della guerra di Fiorenza non si lasciarono ributtare da queste
apparenze. Per non risvegliare l'attenzione di Mastino sulle loro
negoziazioni, ne diedero l'incarico ad alcuni mercanti fiorentini
stabiliti in Venezia, e trovarono, siccome lo avevano preveduto, questa
signoria disposta ad ascoltarli.
Aveva Mastino della Scala con diverse imprese offesa la repubblica sua
potente vicina. Aveva tentato di togliere il castello di Camino alla
famiglia di tal nome, che in addietro aveva regnato a Treviso, e che
posteriormente erasi aggregata alla nobiltà veneziana; fabbricava un
castello tra Padova e Chioggia per impedire ai Veneziani di far sali su
quelle coste, e per assicurarne l'esclusiva fabbricazione ai suoi
sudditi; finalmente aveva fatto chiudere con una catena il Po ad
Ostiglia, ed assoggettate ad un gravoso pedaggio le navi che rimontavano
il fiume[281]. Tali novità erano tutte contrarie ai trattati stipulati
dai suoi predecessori colla repubblica, onde la signoria accolse con
piacere l'occasione di rintuzzare l'orgoglio di un vicino potente che
incominciava ad adombrarla.
[281] _Cortus. Hist. l. VI, c. 2. — Chron. Veron. t. VIII, p. 650. —
Gazata Chron. Regien. t. XVIII, p. 52. — Marin Sanuto Vite dei
Duchi. — And. Navagero Stor. Ven. — Sandi Stor. civ. Ven. p. II, l.
V._
Il trattato d'alleanza tra le due repubbliche fu segnato il 21 giugno
del 1336. Fiorenza non cercava che il vantaggio di sollevare contro
Mastino un potente nemico: obbligavasi a mantenere metà dell'armata ed a
sostenere metà delle spese per attaccare il signore di Verona nella
Marca Trivigiana; ma tutti gli acquisti che farebbe quest'armata,
dovevano appartenere ai Veneziani, non riservandosi i Fiorentini che la
città di Lucca, che dovevano acquistare a proprie spese e colle loro
forze[282].
[282] _Gio. Villani l. XI, c. 49._
Un solo generale doveva avere l'assoluto comando delle due armate
repubblicane; e la cupidigia di Mastino ne presentò loro uno veramente
meritevole di tanta confidenza. L'illustre famiglia de' Rossi di Parma
era stata capo del partito guelfo fino ai tempi ne' quali la perfidia di
Bertrando del Poggetto l'aveva sforzata a rifugiarsi tra i nemici della
chiesa: nella venuta di Giovanni di Boemia gli aveva ceduta la sua
sovranità, che aveva ricomperata quando Giovanni abbandonò l'Italia.
Finalmente la guerra aveala obbligata a rinunciare a Mastino della Scala
tutti i suoi diritti sopra Parma e sopra Lucca. La città di Pontremoli e
molte castella con ragguardevoli proprietà erano state da Mastino
guarentite ai Rossi; ma quando il signore di Verona ebbe raccolti i
frutti del suo trattato, pensò a sciogliersi dagli obblighi del
trattato. Eccitò contro i Rossi i Corregieschi capi dell'opposta fazione
in Parma; e spogliatili di tutti i loro castelli, gli assediò in
Pontremoli loro ultimo asilo. Pietro de' Rossi, il più giovane de' sei
fratelli, aveva allora opinione di essere il più perfetto cavaliere
d'Italia. Nelle guerre civili che da tanto tempo desolavano il suo
paese, aveva date luminose prove di valore, senza macchiarsi mai con
atti di crudeltà. I soldati tedeschi che servivano allora in Italia,
l'avevano chiamato loro signore e gli mostravano un illimitato
attaccamento. Liberale coi suoi compagni d'armi fino all'imprudenza,
appena per sè conservava una tonaca ed un cavallo. L'alta sua statura e
le sue eleganti maniere chiamavano sulla di lui persona gli sguardi di
tutte le donne, e la verginale purità de' suoi costumi, che assicuravasi
non esser giammai stata smentita, dava un nuovo pregio alla sua nobile
figura[283]. Pietro de' Rossi era ritenuto come ostaggio a Verona, ma
trovò modo di fuggire, e venne a chiedere soccorso ai Fiorentini, che
seppe eccitare alla vendetta. Dopo aver date prove de' suoi militari
talenti in una breve campagna nel territorio di Lucca, passò il primo
ottobre al comando della grande armata della lega nella Marca
Trivigiana[284].
[283] _Cortusiorum Histor. l. VII, c. 4._
[284] _Ist. Pistol. t. XI, p. 470. — Gio. Villani l. XI, c. 51. —
Beverini Ann. Lucens. l. VII, p. 901._
Pietro de' Rossi attraversò colla sua armata i territorj di Treviso e di
Padova, insultò le guarnigioni delle due città, abbandonò le campagne al
saccheggio, e con mille cinquecento cavalli tenne a bada l'armata di
Mastino composta di quattro mila. Ma i Veneziani vedendolo aggirarsi in
quel labirinto di fiumi e di canali, che attraversano in mille maniere
il territorio padovano, ne furono inquietissimi, tanto più che il nemico
aveva rotti tutti i ponti e fortificati i passaggi: ma Pietro finse di
cercar la battaglia, e secondo la costumanza cavalleresca mandò ad
offrirne il pegno al campo di Mastino; perchè questi persuadendosi che
doveva essere per lui vantaggioso il non far quello che desiderava il
nemico, lasciò fuggire l'occasione d'attaccarlo e gli permise di
stabilirsi e di fortificarsi a Bovolento sul Bacchiglione, sette miglia
al di sotto di Padova[285].
[285] _Gio. Villani l. XI, c. 53. — Cortusior. Histor. l. VI, c. 4,
p. 874._
Nel tempo che i Fiorentini mantenevano un'armata nella Marca Trivigiana,
e combattevano in Toscana contro i Lucchesi, e contro Pietro Saccone e
gli Aretini, non ignoravano che dovevano stare in guardia contro le
trame dei Ghibellini, che nelle città della provincia ed anche entro
Firenze mantenevano segrete intelligenze, oltre che venivano caldamente
eccitati dalle promesse di Saccone e dagli artificj di Mastino. In così
pericolose circostanze sapevano che i Romani avrebbero creato un
dittatore; onde, seguendo l'esempio loro, credettero di dovere innalzare
un magistrato al di sopra delle leggi, affinchè il grandissimo potere
che gli confidavano, tenesse in dovere i segreti nemici della
repubblica, e la rapidità de' giudizj li colpisse a tempo ne' loro
complotti. Ma presso i Romani, popolo affatto militare, il dittatore
diventava il generale dell'armata. I Fiorentini non avevano trovato tra
i loro concittadini un generale abbastanza sperimentato da mettersi alla
testa di tutto lo stato: accostumati a confidare agli stranieri il
potere dell'armi, avrebbero temuto assai più di riunire in mani
sconosciute la potenza civile e militare; e se giammai si fossero in tal
maniera dato un padrone, difficilmente avrebbero poi potuto scuoterne il
giogo. Immaginarono quindi di non rivestire il loro nuovo magistrato che
dell'autorità di supremo giudice, e lo nominarono conservatore, dandogli
una guardia di cinquanta cavalieri e di cento fanti, autorizzandolo a
giudicare compendiosamente ed a far eseguire all'istante le sentenze.
Uno straniero, Giacomo Gabriello d'Agobbio, fu chiamato il primo ad
occupare questa carica. Il popolo doveva tremare innanzi a questo
magistrato, ma la signoria tenutasi superiore alla sua giurisdizione
poteva sopravvegliarlo ed imporre limiti al suo potere. Frattanto il
Gabrielli, abbandonandosi senza ritegno al suo carattere sospettoso e
crudele, fece spargere dai suoi carnefici molto sangue. Quando uscì di
carica, il popolo, sdegnato contro di lui, promulgò una legge che
proibiva di nominare in avvenire giudici di Agobbio o del suo
territorio[286]. Dopo di lui un altro conservatore, Accorimbeno di
Tolentino, fece succedere la giustizia venale alla crudeltà; ed i
Fiorentini, abolendo tale carica, si convinsero finalmente che la
libertà non si mantiene giammai con mezzi dispotici, e che l'innalzare
un potere al di sopra delle leggi, quand'anche fosse per la loro difesa,
è lo stesso che preparare la loro ruina[287].
[286] Una simile ordinanza era stata portata a Siena l'anno
precedente contro gli abitanti d'Agobbio. _And. Dei Cron. Sanese p.
95._ I gentiluomini di questa città, e specialmente i Gabrielli
destinavansi tutti al mestiere di giudice.
[287] _Gio. Villani l. XI, c. 39._
Nel susseguente anno 1337 la campagna s'aprì dai Fiorentini in Toscana
con uno strepitoso avvenimento. Pietro Saccone, stretto dalle armate di
Fiorenza e di Perugia, e non potendo tenere aperta comunicazione con
Mastino che non gli mandava i promessi soccorsi, vedendo di avere già
perduti molti castelli, prese finalmente il partito di negoziare
vendendo ai Fiorentini la signoria d'Arezzo. La repubblica acquistò
separatamente i diritti di Pietro Saccone e quelli del conte Guido; pagò
il soldo delle truppe assediate e sborsò circa sessanta mila fiorini per
ottenere il possesso della città, che le fu aperta il 10 di marzo. Ma
tal acquisto costò alla repubblica assai più che tesori, avendo
compromessa la sua buona fede: per la prima volta fu accusata d'avere
mal osservato i trattati, d'avere combattuto di concerto coi Perugini, e
d'aver sola raccolti i frutti del loro sudore, e del loro sangue[288].
Il partito guelfo venne in Arezzo ristabilito dopo un esilio di
sessant'anni; i Tarlati furono ridotti alla condizione di cittadini; si
fabbricarono nella città due fortezze per tenerla in soggezione, e venne
stabilita una nuova magistratura incaricata di sopravvegliare alla
tranquillità ed al buon essere degli Aretini[289].
[288] _Gio. Villani l. XI, c. 58-60. — Istorie Pistol. p. 471. —
And. Dei Cronica Sanese t. XV._
[289] _Gio. Villani l. XI, c. 59. — Cronaca di ser Gorello d'Arezzo
t. XV, c. 4._
I Fiorentini che nella precedente guerra erano stati vittima dei loro
riguardi per il territorio di Lucca, tenevansi fermi nello stesso
sistema di politica: la guerra che gl'interessava esclusivamente e che
si faceva senza il concorso de' loro alleati, era quella che facevasi
meno vigorosamente. Accontentaronsi in questa campagna di saccheggiar
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