Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 05 (of 16) - 01

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STORIA DELLE
REPUBBLICHE ITALIANE
DEI
SECOLI DI MEZZO

DI
J. C. L. SIMONDO SISMONDI
DELLE ACCADEMIE ITALIANA, DI WILNA, DI CAGLIARI,
DEI GEORGOFILI, DI GINEVRA EC.
_Traduzione dal francese._

_TOMO V._

ITALIA
1817.


STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE


CAPITOLO XXIX.
_Nuovi capi dell'Impero e della Chiesa. — Guerre di Genova. —
Guerra universale in Italia. — Papa Giovanni XXII scomunica e
depone Luigi IV di Baviera, re dei Romani._
1314 = 1323.

Mentre il governo va incessantemente modificando i talenti, le virtù,
l'ingegno e le abitudini dei popoli, scopronsi non pertanto nel
carattere delle nazioni certi tratti originali, che i tempi e le
circostanze non hanno potuto interamente cancellare. Così gli Spagnuoli
e gl'Italiani sembranci essenzialmente diversi. Queste due nazioni,
sebbene abbiano un'origine quasi comune, perchè formate dalla mescolanza
de' Romani coi Goti; sebbene abitino in climi press'a poco eguali, ed
abbiano idiomi vicinissimi che quasi potrebbero dirsi dialetti d'un solo
idioma; sebbene ricuperassero quasi nella stessa epoca la libertà e
nella stessa epoca la perdessero; sebbene abbiano lungo tempo ubbidito
ai medesimi sovrani e tenuta la medesima religione, hanno qualità
affatto diverse che li distinguono, e che quasi senza alterazione si
sono trasmesse di padre in figlio. E queste fondamentali diversità tra
le razze degli uomini è forse uno de' più importanti oggetti di
meditazione che a noi presenti la storia. Abbiamo di già conosciuta
l'origine del carattere degli Italiani: abbiamo veduti i Barbari portare
loro lo spirito d'indipendenza, raddolcito nelle città d'origine romana,
più ricche e numerose in Italia che nel rimanente dell'Europa. Assai per
tempo queste città manifestarono il desiderio di libertà. Furono esse le
prime che aspirarono a partecipare della sovranità, rompendo i legami
che le attaccavano all'impero e cambiando le loro leggi municipali in
costituzioni repubblicane: furono esse le prime che, tra i membri del
corpo feudale fattesi indipendenti, acquistarono una regolare
organizzazione, e seppero energicamente valersi delle loro forze. Esse
non tardarono a soggiogare il rimanente della nazione: i vescovi furono
spogliati d'ogni sovranità temporale; i principi ed i marchesi
scomparvero a poco a poco rifiniti da intraprese troppo sproporzionate
ai loro mezzi; ed i gentiluomini si videro sforzati a sottomettersi e
cercare il diritto di cittadinanza.
Questa preponderante influenza delle città è la vera origine del
carattere distintivo degl'Italiani, di quel carattere che li rende
essenzialmente diversi dagli Spagnuoli, presso i quali la nobiltà
campagnuola, sempre occupata nelle guerre contro i Mori, a sè chiamando
gli sguardi e la stima della nazione, conservava una importantissima
parte del governo per sè medesima. La costituzione repubblicana delle
città comunicò a tutta la nazione italiana un movimento più attivo,
rendendola capace di grandi azioni, di un maggiore sviluppo di talenti,
di patriottismo, d'intelligenza, accrescendone all'istante la
popolazione e le ricchezze, e facendo in breve fiorire le arti, le
lettere, le scienze. L'influenza de' gentiluomini conservò alla nazione
spagnuola qualità più speciose di valore, di galanteria, di dilicatezza,
d'onore. Tutti gli Spagnuoli presero i loro nobili per modello ed
acquistarono quell'aria cavalleresca che tuttavia conservano.
Gl'Italiani formaronsi invece alla scuola de' borghesi, onde ne
contrassero un non so che di plebeo non per anco affatto cancellato
dalla presente generazione.
Effettivamente il sistema feudale fu prima abolito in Italia che nelle
altre province d'Europa. All'epoca presente questo sistema più non aveva
veruna consistenza, sebbene i giuristi lo insegnassero ancora come parte
della legge dello stato. Le repubbliche che si erano da principio
moltiplicate in tutta l'Italia, non ebbero lunga durata; ed abbiamo già
veduto tutte quelle della Lombardia e dello stato della chiesa cadute in
potere di qualche tiranno. Ma questi nuovi signori, che poi ebbero il
titolo di duca o di marchese, non andavano debitori della potenza loro a
quell'antica costituzione del Nord da cui ebbe principio la nobiltà in
tutto il resto dell'Europa; essi erano i figli di quelle città medesime
di cui eransi fatti sovrani, e dal popolo riconoscevano la loro
autorità. La democrazia, che precedette le nuove signorie, aveva dato un
carattere più assoluto e dispotico al governo d'un solo, col rendere
eguali in faccia al principe tutti i ranghi della nazione, e
distruggendo tutti i privilegi di quegli ordini che avrebbero potuto
impedire lo stabilimento del potere arbitrario. Vero è che i nuovi
signori trovarono ben tosto conveniente di accrescere splendore alle
loro corti col prestigio della nobiltà. Chiamarono presso di loro que'
gentiluomini ch'erano stati avviliti ed oppressi, crearono cavalieri,
chiesero agl'imperatori germanici diplomi di nobiltà pei loro favoriti,
e per ultimo ne accordarono di propria autorità. Ma queste distinzioni
dei cortigiani e le annesse prerogative avevano bensì gl'inconvenienti
dell'antica nobiltà ma non gli utili: i nuovi nobili eccitavano la
gelosia colle loro pretensioni, il disprezzo dei popoli coi loro
depravati costumi; e perchè non erano uniti dallo spirito di
corporazione e non avevano nè credito nè indipendenza, non potevano
salvarsi dall'oppressione. Nè il favore del principe può dare una
nascita illustre, nè la sua collera può toglierla; ma la nobiltà di
creazione come viene accordata dalla libera volontà del padrone, dalla
volontà del padrone può essere egualmente tolta.
Lo spirito cavalleresco, quella gloriosa eredità dei tempi feudali, di
cui era depositaria la nobiltà, si andava distruggendo non meno nelle
piccole monarchie che nelle repubbliche d'Italia: onde gli stimoli
d'onore ed il valor militare vennero meno, e la destrezza montò in
maggiore stima che il coraggio e la forza. È precisamente nel periodo di
tempo di cui ci facciamo a descrivere la storia, che l'Italia, in
confronto del resto dell'Europa, sembra priva d'ogni spirito di
cavalleria. Il quattordicesimo secolo forma un'epoca assai gloriosa,
feconda di grandi ingegni e non isprovveduta di virtù; ma gli uomini
erano più diretti dal calcolo che dalle passioni, dall'interesse assai
più che dal sentimento. Videsi allora crescere a dismisura la potenza
mercantile, la cognizione politica, l'amore della libertà nel popolo; ma
per lo contrario poco valore nella nazione, che affidava la propria
difesa alle bande mercenarie de' _Condottieri_, poca fierezza nei
caratteri, poca fedeltà nelle benevolenze e nelle alleanze, poco
rispetto per la data promessa, per ultimo poco attaccamento al punto
d'onore nella condotta. Il sistema d'equilibrio delle potenze d'Italia
di cui si può attribuire l'invenzione a questo secolo, del quale cotal
sistema è forse il più bel ritrovato; deve risguardarsi quale opera
della più fina politica; ma di una politica affatto priva d'entusiasmo;
sicchè in quel modo che il carattere degl'Italiani voleva che si
cercasse quest'equilibrio, così era proprio del carattere spagnuolo
l'aspirare alla monarchia universale.
Risguardare una vasta contrada, o una parte del mondo come un corpo
sociale, di cui gli stati indipendenti sono i cittadini, ravvisare
nell'oppressione d'un solo di questi cittadini una violazione del
diritto di tutti; riconoscere che la distruzione di uno stato è una
morte che minaccia la vita di tutti gli altri; essere persuasi che in
un'associazione senza autorità centrale ogni individuo deve concorrere
con tutte le sue forze al mantenimento della giustizia e del diritto
delle genti; finalmente sentire la necessità di chiamare sopra di sè un
male immediato e di prendere parte ad una guerra che potrebbe
risguardarsi come straniera per impedire che altri siano oppressi, per
non permettere una violenza, un assassinio dannoso ai rapporti sociali;
gli è questo un nobile sistema che soltanto le repubbliche italiane
erano degne di creare; è l'applicazione possibilmente più perfetta delle
organizzazioni sociali al più grande dei corpi politici.
I Fiorentini, che diedero all'Italia i primi esempj delle più grandi e
virtuose cose, sono probabilmente gl'inventori di questo sistema, e
quelli che lo eseguirono con maggior zelo e costanza. Negli sforzi delle
repubbliche pel mantenimento dell'equilibrio politico, negli sforzi de'
principi per distruggerlo dobbiamo cercare la chiave di tutte le
negoziazioni del quattordicesimo secolo, i motivi delle guerre e delle
alleanze, la ragione dei subiti cambiamenti di partito, e di quel
continuo movimento della politica, che forse impedisce al lettore di
afferrarne l'insieme a colpo d'occhio. Tutti gli avvenimenti del secolo
possono richiamarsi alla sola lotta in favore della libertà, ad un solo
sforzo diretto ad impedire che taluno de' principi, che vedevasi
crescere di potenza, non opprimesse l'Italia formandone una sola
monarchia.
Ma il sistema dell'equilibrio politico è di sua natura un sistema di
divisione, e per certi rispetti un sistema di debolezza: perciocchè
impedisce ad una nazione di agire per riguardo alle altre come agirebbe
se formasse un solo corpo, spesso consuma le proprie forze contro di sè
medesima, mantenendo guerre d'Italiani contro Italiani, di Tedeschi
contro Tedeschi; le quali guerre a' nostri giorni chiamansi civili,
sebbene, propriamente parlando, non possano dirsi tali che quelle fra i
cittadini di un medesimo stato. Gl'Italiani smembrati, soggiogati e resi
inutili a respingere le straniere invasioni, si pentirono degli sforzi
fatti dai loro padri per tener divisi gli stati, facendosi un amaro
rimprovero di aver creduto di giovare alla libertà col procurare la
divisione. I tempi eransi mutati, e con essi ancora la politica. Un
popolo libero deve tutto riferire a sè medesimo, un popolo suddito deve
rammentare che fa parte d'una nazione. Coloro che più non hanno patria,
che più non riuniscono intorno ad un solo centro ogni loro desiderio di
forza, di durata, di gloria, possono ancora riconoscere tra di loro i
diritti della nascita e di un'origine comune; devono amare i loro
fratelli, sebbene non possano risguardarli per loro concittadini,
compiangere il sangue che si versa ed i tesori dissipati nelle guerre
intestine: poichè non è per essi straniero colui che non appartiene al
loro corpo politico, ma quello che ha una diversa lingua.
I più celebri poeti ed oratori rimproverarono ai senati che governavano
le repubbliche italiane il sistema d'equilibrio politico, che,
quantunque lungo tempo cagione della loro gloria e della loro
prosperità, fu in appresso cagione della loro debolezza. Invidiavano la
sorte della Spagna e della Francia, che, riunite sotto grandi monarchi,
disputavansi le spoglie della divisa Italia, che vincevano di potenza,
sebbene non la pareggiassero in popolazione o in ricchezza. Ancora
nell'età nostra siamo disposti a ripetere lo stesso giudizio, ed a
incolpare la politica degl'Italiani della loro debolezza e servitù. Ma
noi ci scordiamo, che colla politica loro godettero due secoli di gloria
e di prosperità, scopo immediato dei loro sforzi; e che se avessero
abbracciato il contrario sistema, sarebbero probabilmente arrivati, per
una diversa strada, ad una dipendenza ancora più grande.
Sotto principi che tentavano ogni giorno di soggiogarli, gl'Italiani
erano minacciati d'immediata servitù; vero è ch'essi avevano cagione di
temere egualmente il giogo degli stranieri sotto il quale caddero due
secoli più tardi; ma quest'ultimo pericolo, conosciuto da chi vede la
serie degli avvenimenti, non poteva in allora essere presentito. Le
vicine nazioni non erano di que' tempi meno divise dell'Italia; ed il
sistema feudale s'andava presso di loro snervando, senza far però luogo
ad un più vigoroso principio d'organizzazione. Soltanto adombravansi
talvolta dell'imperatore piuttosto per le antiche sue pretensioni che
per l'attuale potenza. Questo residuo di timore dell'autorità imperiale,
tenuto vivo dai papi, fu cagione delle prime guerre di cui dobbiamo
occuparci in questo volume; ma queste stesse guerre, e le spedizioni in
Italia di Luigi di Baviera e di Carlo IV manifestarono agl'Italiani
l'estrema sproporzione tra le forze dell'imperatore ed i suoi diritti,
manifestarono loro l'impotenza del corpo germanico nelle guerre
offensive, gli angusti limiti entro i quali la costituzione di Germania
chiudeva il potere del suo sovrano nominale, e l'impossibilità in cui
era questi di scendere in Italia, se i Ghibellini italiani non gli
aprivano essi medesimi le porte.
D'altra parte il re di Francia, sebbene assai più potente
dell'imperatore, non aveva sotto di lui che metà delle province che
parlano in francese. La Provenza apparteneva al re di Napoli, la Lorena,
la Brettagna, la Borgogna, i Paesi Bassi erano governati da duchi quasi
affatto indipendenti; e la Guienna e parte della Normandia erano del re
d'Inghilterra. Una infelice guerra cogl'Inglesi, prodotta dalla
successione dei Valois, consumava le province direttamente dipendenti
dal re: nelle quali province per altro, non riconoscendo i grandi
vassalli, i gentiluomini, i comuni un assoluto potere, impedivano al re
di liberamente disporre degli uomini e delle ricchezze; onde appena egli
s'attentava di accrescere alquanto le leggeri imposte che pagavano i
suol sudditi e le forze militari, quando il regno veniva minacciato da
grave pericolo: di modo che la stessa alleanza del papa, o a dir meglio
il servaggio della corte pontificia in Avignone non bastava a rendere la
Francia formidabile agl'Italiani.
La Spagna trovavasi in continue guerre coi Mori; i Greci, da lungo tempo
inviliti, non erano più temuti; i Turchi non avevano ancora acquistata
quella forza che li rese un secolo più tardi il terrore dell'Europa.
L'Italia circondata da governi deboli e vacillanti vedeva soltanto di
quando in quando sollevarsi nel suo seno un potere dispotico, e
minacciare ad un tempo la propria libertà e l'indipendenza de' suoi
vicini.
Più volte alcune piccole popolazioni erano state sottomesse dai Principi
limitrofi; ma tali conquiste, che potevano un giorno formare dell'Italia
una sola monarchia, furono sempre accompagnate da circostanze che
facevano abborrire il governo monarchico: perciocchè ai popoli
sottomessi era tolta ogni libertà, le persone e le proprietà più non
venivano rispettate. Spenta affatto ogni virtuosa emulazione, ogni
desiderio di gloria; que' cittadini cui i talenti, le ricchezze, i
natali permettevano di aspirare alle più luminose cariche della loro
patria, abbandonavano una città che precludeva ogni adito all'ambizione.
Le ricchezze delle province erano assorbite dal vortice della nuova
capitale; l'allontanamento de' proprietarj faceva languire
l'agricoltura, siccome perivano il commercio per mancanza di ricchi
consumatori, gli studj per difetto d'incoraggiamento: onde quella stessa
città che lungo tempo sembrò troppa angusta per contenere le tempestose
passioni de' suoi cittadini, non era più abitata che da uomini
condannati ad un'oscura esistenza. Tale doveva senza dubbio essere la
sorte di Venezia, di Firenze, di Pisa, di Genova, di Bologna, se i Scala
o i Visconti avessero potuto conseguire il loro progetto di unire
l'Italia sotto il loro dominio. La gloriosa emulazione fra tanti piccoli
stati, fra tante piccole corti che cercavano di nascondere la debolezza
loro sotto l'imponente apparato delle arti e delle lettere, non
sarebbesi mantenuta così viva nell'unica capitale dell'Italia, ove una
sola accademia avrebbe uniti o signoreggiati tutti i talenti, una sola
cabala letteraria deciso del merito, l'intrigo avrebbe dirette le scuole
delle arti del disegno, e tarpate le ali al genio; ovunque l'uomo,
circoscritto da una regola uniforme, sarebbe stato assoggettato a regole
generali alla moda ed alla mediocrità; infine l'Italia formante uno
stato solo e governata da un solo padrone non avrebbe prodotti quei capi
d'opera che, coprendo la sua vergogna, addolcirono i dolori del suo
servaggio.
Se in questa lunga lotta per la libertà trionfava il partilo nemico
dell'indipendenza de' piccoli stati; se Castruccio, Mastino, Bernabò,
Giovan Galeazzo, e Ladislao di Napoli diventavano re di tutta l'Italia,
è incontrastabile ch'essi avrebbero in breve conquistata tutta l'Europa.
Le ricchezze accumulate dalla libertà non vengono immediatamente
distrutte dal despotismo, e l'Italia sola era più ricca che tutti
assieme gli altri paesi del cristianesimo; le armate furono in questo
secolo più mercenarie di quel che lo fossero prima, o dopo: i Tedeschi
che allora avevano voce di essere le migliori truppe, si sarebbero
affrettati di porsi al soldo di un principe italiano; ed infatti li
vedremo in questo medesimo secolo gareggiare coi Provenzali, coi
Guasconi, coi Brettoni, cogl'Inglesi e gli Ungaresi per essere assoldati
dai Visconti o dalla repubblica fiorentina. Un re d'Italia assoluto
avrebbe guerreggiato con troppo vantaggio contro i sovrani feudali della
Germania e della Francia; avrebbero realizzato il progetto tante volte
rinnovato d'una monarchia universale, e gl'Italiani avrebbero come i
Greci sotto Alessandro ottenuta un'efimera gloria in ricompensa della
perduta libertà. Ma così vasto dominio non avrebbe avuto lunga durata,
perciocchè crudeli disastri avrebbero seguito da vicino le subite
conquiste. Il commercio, principalissima sorgente delle ricchezze
degl'Italiani, non può fiorire che sotto gli auspicj della pace; perchè
il commercio viene alimentato dall'agiatezza universale e non dal lusso
dei pochi favoriti dalla fortuna. Nazioni più valorose dei loro
conquistatori non avrebbero lungo tempo sofferto un giogo straniero;
l'insolenza de' vincitori avrebbe reso più forte quell'odio che senza
tali motivi divide le popolazioni che parlano un diverso linguaggio; ed
una generale sommossa avrebbe rivendicata la schiavitù d'Europa. Ma
quand'anche la vergogna de' vinti non si fosse lavata nel sangue
italiano, lo spossamento e la debolezza sarebbero stati una necessaria
conseguenza di troppo vaste conquiste. La Spagna non potè giammai
riaversi dalla nullità in cui fu precipitata dall'ambizione di Carlo V e
di Filippo II: lo stesso destino era riserbato ad altra nazione posta in
eguali circostanze; e se l'Italia fosse stata conquistatrice e non
conquistata, non avrebbe potuto lungo tempo conservare la propria
indipendenza.
Vero è per altro che, nella lunga serie dei secoli, giugne pei popoli
quell'istante in cui devono rinunciare a questi consigli di moderazione.
Se hanno potuto per molti secoli desiderare d'essere abbastanza piccoli
perchè tutte le loro parti partecipino di quello spirito di vita, che,
conservando all'uomo la sua individualità, sviluppa per mezzo
dell'emulazione i talenti ed il genio, giugne il momento in cui devono
pensare non a vivere felici e liberi, ma a conservare la propria
esistenza, respingendo uno straniero usurpatore, onde conservare o
ricuperare quel sentimento d'indipendenza, senza del quale non può
esservi nè patria, nè onor nazionale, nè virtù pubbliche. Quando i varj
popoli che appartengono alla medesima nazione, sono soggiogati dagli
artificj o dalle armi della guerra o della politica; quando uno scettro
di ferro pesa, o minaccia di pesare egualmente sopra stati, lungo tempo
rivali, questi sono costretti di rinunciare alle antiche gelosie, ad
ogni pensiere di quella bilancia de' poteri che più non esiste; ed
invece di porsi in guardia contro gli abusi del governo devono
tollerarli per non cadere sotto un giogo straniero. Allora è che ogni
popolo per unirsi alla gran massa, per salvare la gloria nazionale, deve
di buon grado sagrificare le sue leggi, le sue istituzioni, gli antichi
oggetti del suo affetto e del suo rispetto, tutto, per dirlo in una
parola, perfino la sua venerazione per le forme tutelari della sua
libertà e pel sangue de' suoi principi. Ogni popolo deve sentire che la
stessa lingua è quel simbolo per cui i popoli di diversi stati devono
riconoscere la loro comune origine, quel segno distintivo delle nazioni
per cui i membri della medesima famiglia si riuniscono. I popoli
elettrizzati da un sentimento che agita egualmente tutte le anime,
trovano in questo stesso sentimento, in una passione nazionale i legami
d'un nuovo corpo sociale, ed altro omai non cercano che di valersi delle
comuni forze nel modo più utile e glorioso. Ma l'oppressione che avrebbe
dovuto consigliare gl'Italiani a formare un solo corpo, un solo stato,
per difendersi o vendicarsi, non ebbe luogo che all'epoca in cui termina
questa storia, quando Carlo V avendo trionfato della Francia, assoggettò
tutta l'Italia all'immediato suo dominio o all'influenza de' suoi
consigli. Fino a questo tempo possiamo accompagnare colla nostra ragione
e col nostro affetto la lunga lotta delle repubbliche italiane pel
mantenimento dell'equilibrio; possiamo prendere parte a tutti i loro
interessi, vedendoli spronati da grandi disegni e da grandi virtù a
generosi sforzi, a penosi sagrificj.
Le prime guerre che lacerarono l'Italia all'epoca di cui siamo per
parlare, miravano ad abbassare la potenza imperiale e quella de' signori
Ghibellini che ne erano i depositarj in Lombardia: ma il desiderio di
vendetta, e l'odio di fazione vi ebbero più parte che la gelosia e la
politica, perciocchè o le guerre non avrebbero avuto luogo, o sarebbero
state meno lunghe, se i papi non le avessero eccitate e fomentate,
sagrificando il riposo de' popoli e la coscienza de' loro pastori alla
propria vendetta ed all'ambizione.
Quando i vescovi di Roma, riparatisi in Francia, non si videro più
esposti al pericolo di essere vittime essi medesimi delle guerre che
provocavano, diedero libero sfogo al loro odio contro l'autorità
imperiale, più non curandosi di celare gli ambiziosi progetti che
avevano formati sopra l'Italia. Aveva ravvivata la loro gelosia Enrico
VII di Lussemburgo colla breve ma gloriosa sua amministrazione: egli
aveva mostrato col suo esempio ai papi, che un principe magnanimo e
valoroso potrebbe in poco tempo rovesciare l'edificio da loro innalzato
in più secoli; aveva fatto sentire ai papi che gl'imperatori, quando
fossero potenti in Italia, ridurrebbero i vescovi di Roma nell'antica
dipendenza. Questi per allontanare tanto disastro ricorsero alle
consuete loro pratiche; lasciarono che le forze della Germania si
consumassero in una lunga guerra civile tra i due pretendenti,
approfittando d'un'elezione controversa per usurpare i diritti de'
principi rivali.
(1314.) Seppesi appena in Germania la morte d'Enrico VII, che due
fazioni si posero in campo chiedendo caldamente la corona imperiale. Era
capo della prima Federico, duca d'Austria, figliuolo d'Alberto,
penultimo imperatore, e nipote di Rodolfo, il fondatore della potenza
della casa d'Absburgo. Formavano la contraria parte i partigiani della
famiglia di Lussemburgo, diretti da Giovanni re di Boemia figliuolo
d'Enrico VII, e da suo zio, Baldovino, arcivescovo ed elettore di
Treveri. Nè la corona imperiale era la sola cagione di questa lite; il
titolo di re di Boemia, concesso a Giovanni da suo padre, venivagli
contrastato dal duca di Carinzia. Aveva questi sposata una figlia
dell'ultimo re Ottocare, e perchè voleva trasmettere i suoi diritti alla
casa d'Austria, temeva il re Giovanni d'essere spogliato del suo
patrimonio, se Federico trionfava. Egli non cercava per se medesimo la
dignità imperiale; ma desiderava che fosse accordata a qualche potente
principe suo alleato. Offriva perciò la corona dell'impero a Luigi duca
dell'alta Baviera; e perchè avesse tempo di condurre a termine i suoi
trattati, l'arcivescovo di Magonza, suo zio, aveva protratta dieci mesi,
cioè al 19 ottobre del 1314, la convocazione della dieta d'elezione[1].
[1] Olenschlager Geschichte des Rom. Kayserthums in der ersten
haelfte des XIV Jahrhunderts, _c. 31, p. 80_, Francf. 1755.
Nel giorno destinato, gli elettori si recarono alla città elettorale di
Francoforte preparati a sostenere colle armi i loro suffragi; perciocchè
il solo arcivescovo di Treveri conduceva più di quattro mila cavalli[2];
e quello di Magonza aveva occupato il campo di Rense, ove per antica
consuetudine facevansi le elezioni. Si unirono ai due arcivescovi il re
Giovanni di Boemia, Waldemaro elettore di Brandeburgo, e Giovanni il
vecchio, duca di Sassonia Lavemburgo, che pretendeva di essere
l'elettore Sassone. Ma nello stesso tempo Rodolfo conte ed elettore
palatino di Baviera, affatto ligio alla casa d'Austria, invece di unirsi
agli elettori che volevano dare la corona imperiale a suo fratello
Luigi, si fermò a Sachsenhause sobborgo di Francoforte posto sulla riva
sinistra del Meno, aprendovi un'altra dieta elettorale. Era egli munito
della procura dell'arcivescovo di Colonia, il quale, essendo in aperta
guerra colla casa di Lussemburgo, non aveva potuto venire a Francoforte,
e si era unito a Rodolfo e ad Enrico duca di Carinzia che intitolavasi
re ed elettore di Boemia.
[2] Olenschlager Gesch. _c. 32, p. 83_.
La dieta di Rense intimò al duchi di Sassonia e di Carinzia,
all'elettore palatino e a quel di Colonia di presentare al collegio
degli elettori i loro titoli al diritto elettorale; ma questi invece di
rispondere, nominarono lo stesso giorno, con irregolare elezione,
Federico d'Austria re de' Romani. I cinque elettori che trovavansi nel
campo di Rense, avuta notizia dell'accaduto, nel susseguente giorno
nominarono imperatore a pieni voti Luigi, duca di Baviera, che chiamossi
Luigi IV[3].
[3] _Gio. Villani l. IX, c. 66. — Schmidt Histoire des Allemands
trad. l. VII, c. 5, t. IV._
I due pretendenti avevano i medesimi diritti alla stima ed
all'ubbidienza de' loro compatriotti. Il partito austriaco avendo
suscitato un principe della casa di Brandeburgo per disputare il diritto
di Waldemar, più non rimanevano in cadauna delle parti che due elettori
il di cui suffragio non fosse contrastato, ed ognuna ne aveva altri tre,
il di cui diritto era dubbioso. I principi rivali appartenevano a due
illustri e potenti famiglie; amendue erano valorosi ed arditi, amendue
diedero prove, almeno in Germania, di un carattere leale e cavalleresco,
ed amendue avevano zelanti campioni che combattevano per loro
valorosamente. Giovanni di Boemia difendeva la causa di Luigi, come
fosse la sua propria; tenevano le parti di Federico i suoi fratelli, i
duchi d'Austria Leopoldo ed Enrico, e Rodolfo elettore di Baviera.
Siccome pareva che l'osservanza delle formalità prescritte per
l'incoronazione dovesse assicurare all'uno o all'altro di loro il favore
de' popoli, perciò s'affrettarono ambedue di compierle. Luigi venne
introdotto dai borghesi di Francoforte nella loro città; fu come
imperatore eletto presentato al popolo nella chiesa di san Bartolomeo,
consacrata per antica consuetudine a questa funzione; e Federico assediò
inutilmente Francoforte per ottenere lo stesso vantaggio[4]. In appresso
Luigi fu condotto ad Aquisgrana, di dove aveva dovuto ritirarsi il suo
rivale, e vi fu consacrato nel luogo destinato a tale cerimonia, non
però dall'arcivescovo di Colonia, che solo aveva il diritto di farlo,
ma, in sua assenza, dagli arcivescovi di Magonza e di Treveri. Federico
fu invece condotto a Bona dall'arcivescovo di Colonia, e colà consacrato
colle sue mani, ma in un luogo in cui questa consacrazione diventava
illegale. E per tal modo per una differente ragione le due consacrazioni
furono incomplete ed invalide[5].
[4] _Olenschlager Geschichte, § 33._
[5] _Litterae archiepiscopi Maguntini et electorum ad Rom. Pontif.
ap. Raynald. 1314, § 18._
I due imperatori eletti, Luigi e Federico, erano figli d'un fratello e
d'una sorella; il proprio fratello di Luigi, Rodolfo, era il più caldo
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