Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 05 (of 16) - 05

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popolo, e nella loro scelta si uniformavano alla sua opinione che gli
eleggibili cercavano di rendersi affezionata. La città veniva ravvivata
dall'emulazione di coloro che aspiravano alle cariche, ma era pure
frequentemente agitata dalle loro brighe. Il ritorno delle elezioni ogni
due mesi non lasciava quasi riposo alla nazione, e sei volte ogni anno
avevasi cagione di temere sedizioni o guerre civili.
La signoria che aveva regnato in settembre ed in ottobre del 1323, e che
colla scoperta della congiura dei gentiluomini erasi guadagnata la
pubblica confidenza, si prese l'incarico di mutare questo sistema
d'elezioni, e di nominare in una sola volta, di concerto cogli aggiunti
che rappresentavano il popolo, tutti i priori dei quarantadue mesi
avvenire, ossia ventuna magistrature che dovevano successivamente
entrare in carica. Tale elezione si fece nel modo consueto; i nomi degli
eletti vennero scritti in polizze suggellate, che si chiusero in alcune
borse, dalle quali dovevano cavarsi i nomi a sorte, finchè fossero
esaurite le polizze[85]. In tal maniera il rinnovamento della
magistratura si mutò in un lotto, decidendo la sorte della nomina de'
capi della repubblica. Quasi tutte le città libere d'Italia adottarono
ben tosto questa innovazione dei Fiorentini, che conservossi fino alla
presente età in Lucca e nelle municipalità della Toscana e degli stati
della chiesa.
[85] _Gio. Villani l. IX, c. 228. — Leon. Aretino l. V. —
Macchiavelli Stor. Fior. l. II._
Questa nuova maniera di elezione sembrò più democratica della
precedente, ponendo maggiore eguaglianza tra i candidati, e chiamando un
maggior numero di cittadini agli onori pubblici. Le sole borse delle tre
supreme magistrature[86] dovevano contenere i nomi di sei in settecento
candidati; ed essendosi adottato lo stesso metodo per tutte le elezioni,
furonvi cento trentasei magistrature od ufficj diversi, cui nominava la
sorte[87]. Per tal modo non facevasi che pochissimo luogo alla scelta, e
tutti i cittadini arrivavano tosto o tardi ad occupare qualche carica.
Gli elettori imborsavano spesso uomini affatto inetti e che non
sarebbero giammai stati eletti se avessero dovuto entrar subito in
carica. Il broglio fu soppresso, ma si spensero col broglio
l'emulazione, il timore de' giudizj di un popolo che condannava il vizio
ed il desiderio di procacciarsi i suffragi coi talenti e colle virtù.
Molte cause tendevano, non v'ha dubbio, a corrompere i costumi nelle
repubbliche italiane; ma è cosa notabile che appunto nell'epoca in cui
s'introdusse l'elezione a sorte, i cittadini rinunciarono alla
professione delle armi; i capi dello stato abiurarono lo studio
dell'arte militare, ed affidarono la difesa della libertà a' generali ed
a' soldati mercenarj. Nella stessa epoca il lusso, la mollezza, la
corruzione s'introdussero in tutte le famiglie, e la pubblica morale
venne macchiata dall'adozione di una falsa e perfida politica. Non
pertanto i talenti de' repubblicani sopravvissero alle loro virtù; sei
in ottocento cittadini continuamente mutati dalla sorte, prima d'aver
avuto tempo d'imparare il mestiere dell'uomo di stato, seguirono con
costanza, e molte volte con intelligenza i medesimi progetti, i medesimi
principj; e Firenze mostrò che ella sola conteneva un maggior numero di
esperti politici, di quello che sarebbesi trovato nel più vasto regno.
Così Atene eleggeva ogni anno dieci generali, mentre Filippo riputavasi
fortunato d'aver potuto, mentre visse, trovarne un solo in
Macedonia[88].
[86] La signoria composta d'un gonfaloniere e sei priori, il
collegio de' dodici buoni uomini, e quello dei 16 gonfalonieri delle
compagnie.
[87] Statuti Fiorentini _l. V. Tract. I, R. 233_.
[88] Questo elogio che Filippo accordava a Parmenione era un
sarcasmo contro gli Ateniesi. Ma tra i generali di questi contavansi
Timoteo, Ificrate, Cabria o Focione.
Dopo questa riforma dell'interna amministrazione, la repubblica di
Firenze cercò di unirsi più strettamente che mai colle città guelfe;
unione necessaria per la comune salvezza. Ma Perugia trovavasi impegnata
in una interminabile guerra coi Ghibellini d'Assisi e di città di
Castello; Siena era agitata dai cattivi umori eccitati dalle rivali
famiglie de' Salimbeni e de' Tolomei, e più ancora dalla gelosia che
nodrivano tutti gli ordini dello stato contro i mercanti, che sotto nome
di Monte dei Nove eransi impadroniti del supremo potere[89]. Finalmente
Bologna più potente che non erano le altre due repubbliche e più
strettamente legata con Firenze veniva pure scossa da violenti
convulsioni.
[89] _Gio. Villani l. IX, c. 145. — Cronica Sanese di Andrea Dei t.
XV, p. 63. — Malavolti Storia di Siena p. II, l. V, p. 82._
Bologna andava debitrice di parte della sua ricchezza, siccome della sua
gloria, all'affluenza degli scolari alla sua università. L'amore delle
scienze era, in questo secolo, diventato una vera passione, una passione
comune a tutti. Prima del ritrovamento della stampa erano i libri tanto
rari e di così alto prezzo, che l'istruzione vocale doveva supplire a
quella che trovasi negli scritti. Quindici mila giovani italiani e
tedeschi frequentavano in Bologna le pubbliche lezioni di diritto civile
e canonico, e di medicina. Questi giovani prendevano in ogni occasione a
difendersi vicendevolmente, di modo che difficilmente si potevano
assoggettare ai tribunali ed alle leggi.
Uno di costoro detto Giacomo di Valenza, che l'avvenenza della sua
persona, l'eleganza delle maniere, la generosità del carattere rendevano
carissimo ai suoi compagni di studio, incontrossi in una chiesa, un
giorno di solenne festa, con Costanza de' Zagnoni d'Argela, nipote di
Giovanni d'Andrea, il più riputato di tutti i giureconsulti
canonisti[90]. Giacomo, rimasone perdutamente innamorato, dopo avere
inutilmente tentata ogni onesta strada per piacerle, la rapì
violentemente dalla propria casa, mentre trovavasi assente il padre, e
coll'ajuto de' suoi amici difese disperatamente la casa in cui l'aveva
condotta quando il padre di Costanza venne ad attaccarlo alla testa del
popolo ch'egli aveva chiamato in suo soccorso. Giacomo di Valenza fu
dopo lungo contrasto arrestato dal podestà, e la commessa violenza non
potendo in verun modo scusarsi, fu condannato a perdere la testa, ed il
giorno dopo la sentenza fu eseguita. Ma gli studenti pretendevano di non
essere subordinati agli ordinarj tribunali, o a dir meglio, riclamavano
l'impunità dei delitti. L'amore che portavano a Giacomo di Valenza
accresceva il loro malcontento, onde la sua condanna, sebbene giusta e
meritata, eccitò l'indignazione di tutta l'università; e gli studenti
coi loro professori partirono alla volta di Siena, dopo aver tutti
giurato di non tornare a Bologna prima di avere ottenuto intero
soddisfacimento[91].
[90] Intorno a Giovanni d'Andrea, vedasi _Tiraboschi Stor. della
Lett. t. V, l. II, c. 2. § 3_.
[91] _Ghirardacci Stor. di Bologna l. XIX, t. II, p. 4. — Cron.
Miscella di Bologna t. XVIII, p. 333. — Matthaei de Griffonibus Mem.
Hist. p. 140._
Vivea allora in Bologna Romeo Pepoli creduto comunemente il più ricco
particolare che fosse in Italia. I beni che i suoi maggiori ed egli
stesso avevano ammassati colle usure, facevansi ammontare a cento venti
mila fiorini di rendita, corrispondenti press'a poco ad un milione e
mezzo di lire, di cui ora cominciava a servirsi per aprirsi una strada
alla sovranità della sua patria. Cercava perciò di guadagnarsi il popolo
colle liberalità, spesso ancora accordando protezione e sottraendo i
delinquenti al rigore delle leggi; e si acquistava in tal maniera
opinione d'essere l'amico degli infelici e degli oppressi. Lo stesso
anno aveva tentato di salvare a forza aperta un notajo convinto di
falso: tentò pure di difendere Giacomo di Valenza prima che fosse
giudicato, e dopo morto questi, prese a favoreggiare la causa degli
studenti, annunciandosi come il protettore dell'università. La
diserzione degli scolari aveva sparsa la desolazione in tutta la città,
temevasi di vedere Bologna decaduta per sempre dall'antico suo
splendore, e Romeo di Pepoli, secondato dal favor popolare, mosse il
senato a posporre il rigore della giustizia al comune interesse. Furono
spediti deputati agli scolari rifugiati in Siena; il podestà chiese loro
pubblicamente scusa, rinunciando ad ogni giurisdizione sopra di loro, ed
accrescendo l'onorario de' professori.
Gli scolari soddisfatti con questa sommissione tornarono a Bologna; ma
in tale circostanza la condotta di Romeo aveva svegliati i più vivi
sospetti negli amici della libertà. Quasi tutti i gentiluomini guelfi ed
i migliori borghesi che penetravano più a dentro che il popolo,
scoprirono i progetti di Romeo, e si unirono per impedirne l'esecuzione.
Il loro partito prese il nome di _Maltraversa_[92] ed i fautori del
Pepoli ebbero quello di _scacchesi_. Questa fazione ottenne il 1 luglio
del 1321 di far nominare un podestà affatto ligio a Romeo, il quale non
tardò a manifestare colle sentenze la sua decisa parzialità. Allora i
Maltraversi accusarono apertamente Romeo di aspirare alla tirannide;
spaventarono il popolo, mostrandogli le tristi conseguenze del favore
che gli era stato accordato, il prezzo che questo ambizioso cittadino
voleva ricavare da' suoi beneficj, risvegliando coll'esempio dei tiranni
di Lombardia e di Romagna la tema e l'orrore del potere di un solo, il
17 luglio chiamarono alle armi gli amici della libertà, attaccarono
nella propria casa Romeo, il quale, abbandonato da tutti i suoi
partigiani, trovò modo di fuggire per una porta segreta mentre per suo
ordine andavansi gettando innanzi ai cittadini armati dei sacchi di
danaro per ritardarne la marcia. Tutta la famiglia Pepoli fu esiliata da
Bologna, confiscati i suoi beni, atterrate le sue case, e banditi per un
tempo più o meno lungo, in determinati luoghi, i suoi partigiani[93].
[92] Il nome di _Maltraversa_ si diede in molte repubbliche al
partito che difendeva la costituzione; quasi, _che si attraversa al
male_. Il nome di _scacchese_ veniva dallo stemma della famiglia
Pepoli ch'era uno scacchiere.
[93] _Cron. di Bologna t. XVIII, p. 334. — Mathæi de Griffonib. Mem.
Hist. p. 140. — Gio. Villani l. IX, c. 129. — Cherub. Ghirardacci
Stor. di Bolog. l. XIX, t. II, p. 12._
Ma nè la scossa cagionata da questa congiura, nè i pericoli della
repubblica avevano avuto fine coll'esilio dei Pepoli. Romeo manteneva
corrispondenze in città, e nel susseguente anno si scoprì una congiura
in suo favore, che costò la vita ai principali suoi fautori[94]. D'altra
parte egli si era collegato coi signori di Mantova, di Verona e di
Ferrara; e tutti i principi delle città lombarde erano sempre disposti a
favorire chiunque cercasse di fondare una nuova tirannide in uno stato
libero. I Fiorentini invece, risguardandosi come i difensori della
libertà, mandavano a Bologna più frequenti ajuti di quel ch'essi
potessero domandarne a questa repubblica loro confederata.
[94] _Ivi l. XIX, p. 30. — Gio. Villani l. IX, c. 150._
Nel 1323 Castruccio, dopo essersi sottratto alla vendetta dei Fiorentini
per la scissura scoppiata nel loro campo, aveva ricominciato a guastare
Val d'Arno di sotto, non acconsentendogli ancora la debolezza del suo
stato e della sua armata di proseguire la guerra con vigore. Talvolta
nel corso d'una campagna non rimaneva che pochi giorni nel territorio
nemico e solo per agguerrire i cittadini di Lucca che riconduceva ben
tosto alle loro case. Confidava assai più negli stratagemmi e nelle
sorprese, che nella forza delle armi; e ne' suoi progetti
d'aggrandimento non faceva troppa diversità tra gli amici ed i nemici. I
Pisani, coi quali era alleato pel comune interesse de' Ghibellini,
trovavansi al presente impegnati in una pericolosa guerra col re
d'Arragona, per difesa della Sardegna; e Castruccio si lusingò di
potersi approfittare delle loro circostanze per rendersene padrone.
Corruppe Betto de' Lanfranchi e quattro comandanti dei mercenarj
tedeschi, che promisero di aprirgli le porte di Pisa, dopo avere ucciso
il conte Nieri della Gherardesca: ma la trama si scoperse; i Lanfranchi
perdettero la testa sul patibolo, e la repubblica pisana, sdegnata del
tradimento di Castruccio, rinunciò alla sua alleanza, e mise una taglia
sul suo capo[95].
[95] _Gio. Villani l. IX, c. 229. — Beverini Annales Lucenses l. VI,
p. 772._
Nel susseguente anno 1324, la guerra tra Castruccio e la repubblica
fiorentina si trattò ancora più debolmente, perchè questa sembrava
unicamente occupata della sommissione di alcuni gentiluomini di Val
d'Arno di sopra, ai quali prese alcune castella; l'altro non prendevasi
pensiero che delle sue pratiche per avere Pisa e Pistoja. Pistoja
trovavasi tuttavia sotto la signoria di Filippo di Tedici, che cercava
di mantenere la sua indipendenza col favore della rivalità de' due più
potenti popoli tra i quali era situata Pistoja; e negoziando sempre con
ambedue, pagava tributi a Castruccio per evitare la guerra, e domandava
sussidj a Fiorenza per sostenerla. Ma finalmente il signore di Pistoja
conobbe di non potere lungo tempo ingannare i suoi vicini con finti
trattati, e s'avvide che Castruccio che aveva voluto lasciargli
praticare tutti i suoi piccoli scaltrimenti, non tarderebbe a perdere la
pazienza: onde risolse di vendergli la sua signoria. Il principe di
Lucca gli offriva dieci mila fiorini, e per pegno della protezione che
gli accordava, e dell'autorità che voleva affidargli nella sua patria,
lo faceva sposo di una sua figliuola. Tedici aprì segretamente il 13 di
maggio del 1325 una porta di Pistoja a Castruccio che stava appiattato a
poca distanza con un corpo di cavalleria; il quale entrò subito in
città, attraversando le strade e rovesciando e tagliando a pezzi i
Guelfi ed i soldati fiorentini che avevano tentato di opporsegli. Ciò
chiamavasi _correre una città_, ed in tal modo se ne prendeva
possesso[96].
[96] _Beverini Ann. Lucens. l. VI, p. 779._
La notizia della presa di Pistoja giunse a Firenze mentre il popolo
trovavasi adunato per una solenne festa. Nella stessa mattina la
repubblica aveva armati cavalieri, il giudice esecutore dell'ordinanza
di giustizia, ed un contestabile tedesco; onde i priori coi nuovi
cavalieri, tutti i magistrati ed i principali cittadini trovavansi ad un
banchetto. Eransi poste le tavole nella chiesa di san Pietro
Schieraggio, le quali furono rovesciate nell'istante che si seppe
essersi Castruccio impadronito di Pistoja; e perchè non potevasi credere
che fosse interamente perduta, sperando che la guarnigione che v'era
stata mandata difenderebbe almeno una porta, tutti corsero alle armi, e
le compagnie della milizia si avanzarono lo stesso giorno fino a Prato,
ove seppero circostanziatamente il tradimento di Filippo de' Tedici; e
conoscendo che Pistoja era del tutto perduta, tornarono tristissimi a
Firenze[97].
[97] _Gio. Villani l. IX, c. 294. — Ist. Pistolesi Anon. p. 421. —
Jannotti Manetti Hist. Pistor. l. II, p. 1235. — Leon. Aretini l.
V._
All'indomani della caduta di Pistoja il capitano che i Fiorentini
avevano assoldato, entrò solennemente in città. Era quello stesso
Raimondo di Cardone che aveva comandate le truppe della lega guelfa
contro Matteo Visconti ed i suoi figliuoli. Dopo essere stato costretto
del 1323 a levare l'assedio di Milano, fu fatto prigioniero da Galeazzo
Visconti, che lo aveva posto in libertà per intavolare col di lui mezzo
una negoziazione colla chiesa, non altro avendo da lui richiesto che il
giuramento di non portare le armi contro i Ghibellini. Il papa non
contento di rigettare tutte le proposizioni fattegli da Cardone, lo
assolse dal giuramento e lo mandò ai Fiorentini.
Questi adunarono sotto gli ordini del nuovo generale la più potente
armata che avessero fin allora messa in campagna. Mille Fiorentini
servivano a cavallo a proprie spese; ai quali eransi aggiunti mille
cinquecento cavalli mercenarj, quasi tutti Francesi, e quindici mila
pedoni; onde il soldo dell'armata ammontava ogni giorno a più di tre
mila fiorini d'oro[98]. Raimondo di Cardone marciò subito verso Pistoja
ove Castruccio stava fabbricando una fortezza.
[98] _Gio. Villani l. IX, c. 300. — Ist. Pistol. Anon. p. 423. —
Cron. Sanese d'And. Dei p. 66. — Beverini Annales Lucen. l. VI, p.
782._
Poi ch'ebbe prese alcune castella, vedendo il generale fiorentino che
Castruccio non si muoveva per venire a giornata, tentò di provocarlo,
offrendo premj per una corsa di cavalli innanzi alle porte di Pistoja.
In appresso cinse d'assedio Tizzana; ma mentre richiamava su questo
castello l'attenzione di Castruccio, staccò dalla sua armata mille
cavalli che passarono la Gusciana sopra un ponte volante; fece
fortificare quest'importante passaggio che gli apriva il territorio
lucchese, e lo stesso giorno, 10 luglio 1325, trasportò tutte le sue
truppe sull'opposta riva. Attaccò subito dopo i castelli di Cappiano e
di Montefalcone, e se ne rese tosto padrone[99]. Frattanto l'armata
fiorentina ingrossava cogli ajuti delle città guelfe[100], di modo che i
soli ausiliarj contavano più di mille cinquecento cavalli, mentre
Castruccio ne aveva appena altrettanti, sebbene avesse ricevuti i
rinforzi de' suoi alleati, il vescovo d'Arezzo, il conte di santa Fiora
presso di Siena, ed i signori ghibellini di Maremma e di Romagna. Egli
colla sua piccola armata erasi accampato a Vivinaio, in Val di Nievole
per osservare gli andamenti de' Fiorentini[101].
[99] Siena, Perugia, Bologna, Camerino, Agobbio, Grossetto,
Montepulciano, Colle san Gemignano, Samminiato, Volterra, Faenza ed
Imola.
[100] _Beverini Annales Genuenses l. VI, p. 784._
[101] _Gio. Villani l. IX, c. 301. — Jan. Manetti Hist. Pistor. l.
II, p. 1037._
In mezzo alle paludi dell'estremità superiore del lago di Bientina
sollevasi un poggio sul quale fu fabbricato il castello d'Altopascio,
riputato a quell'epoca assai forte. Vi si contavano cinquecento uomini
abili alle armi, e Castruccio lo aveva provveduto di vettovaglie per due
anni. Cardone l'assediò il giorno 3 agosto, ed il giorno 29 lo ebbe a
patti dietro la falsa notizia d'una rotta avuta da Castruccio a
Carmignano[102]. Ma per importante che fosse tale conquista, che era
costata assai meno tempo che non si credeva, non compensava però lo
svantaggio della dimora di più di tre settimane in mezzo alle paludi nel
cuore dell'estate. Le malattie si erano manifestate nell'armata
fiorentina, e le truppe, scoraggiate da un penoso servizio, non avevano
quell'ardore e quella confidenza con cui avevano cominciata la campagna.
Molti cavalieri annojati dall'assedio d'Altopascio avevano dato danaro a
Cardone per ottenere il loro congedo. Risvegliatasi da così vergognoso
commercio la naturale avidità di quest'uomo, sagrificò i più grandi
avvenimenti al guadagno che credeva di fare vendendo i congedi. Per
conseguire più presto il suo scopo, cercò d'accrescere l'impazienza de'
cavalieri e de' ricchi mercanti che aveva nell'armata, tenendo ancora
otto giorni l'armata sotto Altopascio, dopo averlo preso. Finalmente si
mosse l'otto di settembre, ed andò ad accamparsi all'Abbadia di
Pozzevero sempre in riva al paludoso lago di Bientina, in tempo che
avrebbe potuto avvicinarsi alle montagne e trovarvi un'aria assai più
sana.
[102] _Beverini Annales Lucens. l. VI, p. 785._
Castruccio occupava queste montagne, ed aveva approfittato del tempo che
perdeva Cardone a sollecitare i soccorsi di Galeazzo Visconti, il di cui
figlio Azzo comandava ottocento cavalli a san Donnino nel territorio di
Parma. Il signore di Lucca promise di pagare dieci mila fiorini per
prezzo dell'assistenza che domandava; Azzo Visconti, avendo ricevuto un
rinforzo di duecento cavalli mandatigli da Passerino Bonacossi, prese la
via di Lucca, senza che il legato, Bertrando del Poggetto, che trovavasi
a Parma con forze superiori, facesse verun tentativo per chiudergli la
strada[103].
[103] _Chron. Placentinum t. XVI, p. 404. — Georg. Merulæ Hist.
Mediol. l. I. p. 97, t. XXV._
Ma molto tempo prima che Azzo si unisse a Castruccio, la guerra diretta
da tutt'altri che da Cardone, avrebbe potuto ridursi a termine.
Finalmente questo generale tentò l'undici di settembre di occupare le
alture; ed in cambio d'attaccare Castruccio con tutta la sua cavalleria,
gli mandò contro per isloggiarlo un debole distaccamento. I suoi
cavalieri si scontrarono in un più grosso corpo di cavalleria lucchese;
dei rinforzi giunsero successivamente alle due truppe; ma i Fiorentini
li ricevevano più tardi de' Lucchesi, di modo che metà della cavalleria
di Cardone dopo una breve zuffa dovette ritirarsi perdente. Dopo questo
giorno l'armata fiorentina perdette la confidenza che aveva delle
proprie forze, e più non combatteva coll'usato ardore[104].
[104] _Beverini Annales Lucens. l. VI, p. 790._
Castruccio ebbe finalmente avviso che Azzo erasi mosso per raggiugnerlo;
ma ebbe nello stesso tempo paura che i Fiorentini si ritirassero prima
ch'egli ricevesse un soccorso che otteneva a sì caro prezzo, e senza che
potesse approfittarne per dar loro una battaglia. Per fermare Cardone
fece che giugnessero al suo campo alcuni abitanti di varie castella di
Val di Nievole, che gli proponevano di dargli in mano quelle fortezze.
Cardone, per tener dietro a queste simulate negoziazioni, andò
procrastinando di giorno in giorno la partenza, aspettando in vano che
scoppiassero le trame ch'egli supponeva di dirigere. Finalmente Azzo
Visconti entrò in Lucca il 22 settembre, e ne giunse contemporaneamente
l'avviso ai due campi. Allora i Fiorentini si posero in movimento per
ritirarsi verso Altopascio; e Castruccio, temendo di perdere la preda
sulla quale teneva gli occhi aperti da tanto tempo, corse a Lucca per
affrettare Visconti a combattere lo stesso giorno; ma questi chiedeva
danaro ed un giorno di riposo. La moglie di Castruccio seguita da tutte
le dame lucchesi recossi allora presso al signore milanese e lo pregò a
marciare contro ai nemici, facendogli presentare sei mila zecchini
perchè li distribuisse alle sue genti: ma tutto fu inutile; Azzo
dichiarò che non combatterebbe che all'indomani, onde Castruccio,
tornato alla sua armata, si fece ad inseguire i Fiorentini per vedere se
gli riuscisse di trattenerli[105].
[105] _Beverini Annales Lucens. l. VI, p. 793._
Era in arbitrio di Cardone il ritirarsi a Galleno, o passare la Gusciana
per mantenersi sempre padrone d'accettare o rifiutare la battaglia; ma
temette che la sua ritirata avesse apparenza di fuga, e volle terminare
la campagna con una bravata. All'indomani, lunedì 23 di settembre, venne
a sfilare in parata innanzi a Castruccio, quasi per invitarlo a
battaglia prima di porsi in marcia. Il signore di Lucca, sebbene non
avesse ancora che mille quattrocento cavalli, accettò la disfida per
ritardare la marcia de' Fiorentini, ed approfittò della vantaggiosa
posizione che occupava, per non impegnare tutta la truppa nella
battaglia, dando a dietro dopo ogni scaramuccia. Con tale accorgimento
si sostenne dallo spuntare del giorno fino alle nove ore del mattino,
che Azzo Visconti giunse alla fine in suo soccorso con i suoi mille
cavalli; ed allora tutta l'armata ghibellina scese al piano e la
battaglia si fece generale.
Malgrado le sofferte perdite, le forze de' Fiorentini trovavansi ancora
per lo meno eguali a quelle di Castruccio, ma quasi al primo tirare di
lancia il maresciallo di battaglia di Raimondo di Cardone fuggì con un
corpo di settecento cavalli da lui comandati, e gettò il disordine in
tutta l'armata[106]. I Fiorentini, scossi e scoraggiati dall'abbandono
di così ragguardevole corpo, non si sostennero lungamente; la cavalleria
fu rotta quasi subito, e l'infanteria che combatteva valorosamente, ma
con armi che sgraziatamente non bastavano a difenderla dall'urto della
cavalleria pesante, dovette anch'essa ripiegare. Quelli che guardavano
il ponte di Cappiano, furono i primi a fuggire; onde Castruccio,
sopravanzando il rimanente de' fuggitivi, s'impadronì del ponte, e
chiuse come in una rete coloro che cercavano di salvarsi al di là del
fiume. Molti distinti personaggi rimasero suoi prigionieri, fra i quali
lo stesso Raimondo di Cardone con suo figliuolo e molti baroni francesi.
Per altro la perdita della battaglia fu più accompagnata da vergogna che
da strage. Molti fuggitivi trovarono modo di tornare a Fiorenza, ma i
castelli di Cappiano, di Montefalcone e d'Altopascio, ch'erano stati
tolti a Castruccio con tanta fatica, furono da lui in pochi giorni
riconquistati. Fece spianare i due primi, e tagliare il ponte di
Cappiano[107].
[106] _Beverini Annales Lucens. l. VI, p. 794._
[107] _Gio. Villani l. IX, c. 304. — Ist. pistolesi Anon. t. XI, p.
425. — Cron. Sanese di Andrea Dei t. XV. — Leon. Aret. l. V. —
Jannotii Manetti Hist. Pistor. l. II, p. 1038._
Il possedimento di Pistoja rendeva a Castruccio facile e sicure le
scorrerie fino nel cuore degli stati di Fiorenza. Perciò, dopo avere
radunate in Pistoja le sue milizie e quelle di Filippo Tedici, attaccò,
il 27 di settembre, Carmignano che gli si arrese vilmente. Trasportò
allora il suo campo a Signa, e bruciò Campi, Brozzi e Quarrata. Questi
villaggi posti nel piano fiorentino erano appena fortificati e non
capaci di lunga resistenza. Finalmente il 2 ottobre stabilì il suo
quartier generale a Peretola, grosso villaggio due miglia lontano da
Fiorenza, di dove i suoi soldati si avanzavano, tutto guastando, fin
sotto alle mura di Fiorenza. Quella ricca valle era in allora coperta di
magnifici edificj e di deliziosi giardini; perciocchè l'opulenza e
l'eleganza de' Fiorentini non era ancora pareggiata da verun popolo
dell'Europa; e mentre i soldati si arricchivano colle loro spoglie,
Castruccio faceva trasportare a Lucca i quadri e le statue, che dopo il
risorgimento delle arti, formavano il migliore ornamento de' palazzi de'
Fiorentini[108].
[108] _Beverini Annal. Lucens. l. VI. p. 796._
Era giunto l'istante in cui Castruccio poteva anch'egli provocare i
Fiorentini celebrando i giuochi presso le loro porte, com'erasi
praticato da Cardone presso Pistoja. Uno spazio lungo un miglio la
strada di Peretola a Fiorenza era stato sempre destinato alle corse dei
cavalli. Vien tesa una corda a traverso al ponte alle mosse[109], e
dietro alla corda cavalli barbari ornati di nastri e di fiori aspettano
fremendo d'impazienza, che cadendo la corda loro apra l'arringo: allora
slanciansi soli e senza condottieri nell'arena, e la scorrono con
un'emulazione, una passione così calda per la gloria, che non
crederebbesi propria che degli uomini. Fu in questo luogo medesimo
consacrato dalle feste di molte generazioni, che Castruccio pose, il
giorno di san Francesco, tre premj per la corsa; il primo ai cavalieri,
il secondo ai pedoni, e l'ultimo, per insultare più vivamente i nemici,
alle cortigiane. Voleva così dare a conoscere che gli esseri più deboli
e più vili della sua armata potevano senza pericolo insultare i nemici.
Sebbene i Fiorentini avessero entro le loro mura forze maggiori di
quelle di Castruccio, erano in modo scoraggiati per la fresca disfatta,
che non osarono uscire dalle loro porte per disturbare la festa[110].
[109] Un miglio fuori di Fiorenza dalla parte di Prato.
[110] _Gio. Villani l. IX, c. 315._
Dopo la vittoria Azzo Visconti era tornato a Lucca; di dove, poi ch'ebbe
ricevuto venticinque mila fiorini pel soldo e per il premio dovuto alla
sua truppa, aveva raggiunto Castruccio. Voleva anch'esso vendicarsi dei
giuochi dati due anni prima dai Fiorentini alle porte di Milano, quando
Raimondo di Cardone assediava quella città[111]; ed il giorno 26 di
ottobre ricominciò presso alle mura le corse de' cavalli. Ma i
Fiorentini non potevano persuadersi che l'armata nemica fosse ritornata
per questo solo motivo, e sospettavano che i prigionieri di Castruccio
avessero voluto comperare la libertà con qualche tradimento, ed erano
agitati da mortali inquietudini. Intanto la città era in modo affollata
di contadini, che avevano dovuto abbandonare la campagna, che vi si
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