Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 05 (of 16) - 12

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Pescia, Buggiano e pochi altri castelli di Val di Nievole e di Val di
Serchio, senza fare verun acquisto[290].
[290] _Gio. Villani l. XI, c. 62. — Beverini Annales Lucenses l.
VII, p. 904._
Ma nello stesso tempo spingevano con una straordinaria attività il loro
progetto di eccitare in Lombardia nuovi nemici a Mastino della Scala.
Nella stessa maniera ch'essi avevano chiamati i capi dei Ghibellini a
dividere le conquiste del re di Boemia, abbandonavano adesso alla loro
avidità gli stati del signore di Verona. Ricordavano a ciascheduno
l'insultante arroganza di Mastino, ed offrivano ricompense a qualunque
volesse far lega con loro per punirlo. Obizzo d'Este, Luigi di Gonzaga
ed Azzo Visconti entrarono successivamente nella lega delle due
repubbliche. L'ultimo aveva approfittato della guerra generale, cui
avevano preso parte i suoi vicini per impadronirsi nello stesso tempo di
Lodi, di Como e di Crema[291]. Carlo, figliuolo di Giovanni di Boemia e
duca di Carintia, si unì anch'esso ai nemici di Mastino, e gli tolse in
sul cominciare di luglio le città di Cividiale e di Feltre[292].
[291] _Chron. Est. t. XV, p. 400. — Marin Sanuto vite dei Duchi, t.
XXII, p. 603. — Ann. Mediol t. XVI, c. 108._
[292] _Cortusiorum Hist. l. VI, c. 9. — Istor. Pistolesi, p. 472. —
Chron. Veron. t. VIII, p. 650._
Mentre un'armata condotta da Lucchino Visconti minacciava a ponente gli
stati di Mastino, indi ritiravasi senza combattere[293], Pietro de'
Rossi rimaneva nelle vicinanze di Padova onde cogliere qualche
opportunità per togliere questa grande città ad Alberto della Scala, che
ne aveva il comando. Alberto, fratel maggiore di Mastino, era suo eguale
in autorità, ma di talenti e di coraggio a lui inferiore d'assai.
Impaziente del travaglio, abbandonava i pubblici affari per dedicarsi
interamente ai piaceri. Marsiglio ed Ubertino da Carrara, gli antichi
signori di Padova e capi del partito guelfo, erano i soli suoi
consiglieri. Nell'ebbrezza dell'assoluto potere aveva fatto violenza
alla moglie d'Ubertino da Carrara; ma come egli aveva dimenticato
quest'oltraggio, figuravasi che lo avesse egualmente dimenticato ancora
l'offeso. Ubertino non erasene in verun modo lagnato, o dato indizio
dell'interna sua rabbia; ma aveva aggiunto alla testa di moro, che
formava il cimiero del suo elmo, due corna di oro, perchè gli
rammentassero continuamente la sua vergogna e la vendetta che meditava
di fare[294].
[293] _Cortusiorum Hist. l. VI, c. 6. — Gio. Villani l. XI, c. 63._
[294] _Istoria Padovana di Galeazzo Gataro t. XVII, p. 21._
Mastino, che non accordava ai Carrara tanta confidenza, aveva più volte
scritto a suo fratello di osservarne gli andamenti, di arrestarli ed
anche di farli morire. Alberto mostrava tutte queste lettere ai Carrara;
e questi che già da più mesi trattavano col doge di Venezia[295],
cercavano di risvegliare in Padova lo zelo de' loro partigiani, e
mantenevano strette intelligenze con Pietro de' Rossi, loro nipote, cui
chiedevano all'opportunità soccorso di gente. Mastino scoperse tutte
queste pratiche e scrisse il 2 agosto a suo fratello di far arrestare
senza ritardo i due Carrara che lo tradivano e di farli morire. Quando
fu introdotto il messaggiere, che aveva ordine di consegnare la lettera
al solo Alberto, questi stava giocando agli scacchi. Egli prese la
lettera e senza aprirla la consegnò a Marsiglio da Carrara, che gli
stava vicino. Marsiglio lesse l'ordine del suo supplicio senza lasciar
travedere sul suo volto alcun turbamento. «Vostro fratello, disse in
seguito al signore, domanda che voi gli mandiate senza ritardo un
falcone pellegrino di cui abbisogna per la caccia.» Nello stesso tempo
prevenne Ubertino di apparecchiare ogni cosa per quella notte, e più non
perdette Alberto di vista onde impedire che gli giugnesse qualche nuovo
avviso[296].
[295] _Navagero Storia Veneta t. XXIII, p. 1018._
[296] _Istoria Padovana di Galeazzo Gataro p. 27._
A mezza notte i Guelfi ch'erano di guardia alla porta di ponte Curvo,
l'aprirono a Pietro de' Rossi, che entrò in Padova alla testa della sua
cavalleria. I partigiani di Carrara che si erano adunati in silenzio
intorno al palazzo pubblico, sorpresero nell'ora medesima le guardie, le
disarmarono, arrestarono Alberto della Scala nel suo appartamento, e lo
condussero subito nelle prigioni di Venezia. Nicoletto, suo buffone,
domandò di partecipare alla sua sorte, e fu il solo che lo accompagnasse
in quella trista dimora: un così generoso sentimento trovossi in un uomo
che aveva fin allora fatto traffico di una vile buffoneria, e che nelle
altrui risate aveva cercata l'indipendenza[297].
[297] _Cortusiorum hist. l. VII, c. 5._
Pietro de' Rossi fece osservare ai suoi soldati la più severa
disciplina. Impadronendosi di Padova, non fu commesso verun rubamento,
verun disordine turbò il contento del popolo che tornava alle fazioni
de' suoi padri. Furono sequestrate le sole proprietà della casa della
Scala, siccome appartenenti al vincitore. Marsiglio di Carrara fu
proclamato signore di Padova da' suoi concittadini; ed ammesso nella
lega delle repubbliche, si obbligò a somministrare quattrocento
cavalieri all'armata che faceva la guerra a Mastino[298].
[298] _Gio. Villani l. XI, c. 64. — Cortus. hist. l. VII, c. 1-2 e
3._
Questo segnalato vantaggio ottenuto dalla lega fu ben tosto funestato
dalla morte di colui che lo aveva procurato. Pietro de' Rossi avendo
intrapreso l'assedio del castello di Monselice, vi fu colpito il 7
agosto da un colpo di lancia, e morì il susseguente giorno. Suo fratello
Marsiglio che aveva un comando nella medesima armata, morì di febbre
sette giorni dopo[299]. Per riconoscenza e per rispetto dovuto alla
memoria di questi due generali, la lega affidò il comando della loro
armata ad un terzo fratello, Orlando de' Rossi che non aveva i talenti
de' suoi predecessori.
[299] _Cortus. hist. l. VII, c. 4. — Gio. Villani l. XI, c. 63. —
Istorie Pistolesi p. 473._
Ma la situazione di Mastino della Scala era diventata così pericolosa,
che la lega non aveva omai più bisogno d'un grande generale per trarre
profitto dai già ottenuti vantaggi. Tutti i Guelfi che avevano ubbidito
a questo signore, tutti i gentiluomini che avevano motivo di dolersi di
lui, coglievano avidamente l'occasione di ribellarsi, e si scoprivano
nella condotta dell'uomo potente caduto in minor fortuna offese prima
egualmente ignorate dall'offensore e dall'offeso. Brescia si ribellò l'8
ottobre contro Mastino; e la guarnigione tedesca, dopo avere difesa
alcun tempo la città nuova, fu costretta anch'essa di capitolare. Questa
nuova conquista passò in dominio d'Azzo Visconti, che vi aveva più degli
altri contribuito[300].
[300] _Gio. Villani l. XI, c. 72._
Questa guerra non era per anco stata illustrata da una battaglia
formale, nè meno quando le armate nemiche presso a poco di forze eguali
non dovevano temere di far prova del loro valore. Ma dopo l'abbassamento
del signore della Scala, più non poteva aver luogo un fatto importante,
poichè egli tenevasi chiuso nella sua capitale, difendeva i suoi
castelli e non ardiva avventurare una battaglia. Si consumò l'inverno in
trattati infruttuosi, e la seguente campagna del 1338 fu consacrata
all'assedio di alcune fortezze. Frattanto i Fiorentini distribuirono i
premj per la corsa sotto le stesse mura di Verona. Occuparono in
appresso Soave, Montecchio e Monselice, e verso la metà d'ottobre
s'impadronirono finalmente dei sobborghi di Vicenza[301]. Mastino aveva
chiesti gli ajuti dell'imperatore Luigi di Baviera, al di cui partito
erasi sempre conservato fedele. Ma Luigi era allora il nemico della casa
di Lussemburgo, con cui aveva tanto tempo fatto causa comune; ed il
conte Giovanni Enrico, secondo figlio del re di Boemia, occupò i
passaggi delle montagne, e trattenne in Tirolo l'imperatore che con sei
mila cavalli veniva in soccorso del signore di Verona[302]. Mastino
abbandonato da tutti i suoi alleati, e temendo di vedersi in breve
assediato nella propria capitale, si appigliò finalmente alle
negoziazioni. Doveva trattare con una lega, onde impiegò contro la
medesima quell'arte che d'ordinario basta per discioglierle. Offrì di
dare pieno soddisfacimento ad uno de' confederati, e lo fece rinunciare
alla difesa degl'interessi altrui. I Veneziani trattarono con lui
separatamente, ed avendo ottenuto quanto desideravano, il 17 dicembre
del 1338 firmarono un trattato che comunicarono soltanto dopo fatto alla
repubblica Fiorentina, perchè ancor essa vi si uniformasse[303].
[301] _Gio. Villani l. XI, c. 76-81._
[302] _Olenschlager Geschichte § 130, p. 302._
[303] _Gio. Villani l. XI, c. 89._
Con tale trattato Treviso, Castelfranco e Ceneda venivano cedute alla
signoria di Venezia; Bassano e Castel Baldo al signore di Padova; Pescia
ed alcune castella di Val di Nievole ai Fiorentini[304]. La navigazione
del Po era dichiarata libera; i Rossi dovevano rientrare al possesso de'
loro beni nello stato di Parma, ed Alberto della Scala sarebbe liberato
senza taglia.
[304] Buggiano, la Costa, Colle ed Altopascio. Inoltre Mastino
rinunciava ai suoi diritti sopra altre castella già acquistate, cioè
Fucecchio, Castelfranco, santa Croce, santa Maria a Monte,
Montopoli, Monte Catini, Monsummano, Monte vettorino, Massa,
Cozzile, Uzzano, Vellano, Scrana e Castel vecchio.
Queste condizioni erano troppo diverse da quelle che i Fiorentini
chiedevano, e che loro erano state promesse dagli alleati. Da una guerra
che loro costava seicento mila fiorini, altro frutto non raccoglievano
che l'acquisto di tre o quattro castelli che Mastino più non poteva
difendere; mentre colla stessa guerra la casa di Carrara aveva
acquistata la signoria di Padova, il Visconti facevasi assicurare quella
di Brescia, ed i Veneziani gittavano i fondamenti d'una nuova potenza in
terra ferma[305]. Rimasero alcun tempo incerti se dovessero restar soli
in guerra contro Mastino, piuttosto che aderire a così svantaggioso
trattato, e lasciarsi in tal modo deludere un'altra volta dai loro
alleati. Pure essi avevano contratto un debito di quattrocento cinquanta
mila fiorini; avevano impegnate ai loro creditori le gabelle per sei
anni; e due enormi perdite fatte in quest'epoca dal loro commercio li
determinarono ad accettare il trattato di Venezia, e la pace si pubblicò
in Toscana il giorno 11 febbrajo del 1339[306].
[305] _Gio. Villani l. XI, c. 89. — Navagero stor. Venez. p. 1030. —
Cortusiorum hist. l. VII, c. 18._
[306] I Guelfi emigrati di Lucca ebbero da Mastino il permesso di
rientrare in patria. D'altra parte molte famiglie ghibelline di
Pescia e di Buggiano preferirono l'autorità di Mastino a quella
d'una repubblica guelfa. I Garzoni, Pucci, Vanni, Nuti, Puccini,
Lippi, Orsucci ec., si stabilirono a Lucca, ed ebbero i diritti di
cittadinanza. _Beverini l. VII, p. 908._
Per terminare la guerra, un motivo assai più potente dell'abbandono in
cui trovavansi i Fiorentini, fu la ruina che apportava al loro commercio
la guerra tra Filippo di Valois ed Edoardo III d'Inghilterra. Questi due
monarchi non erano stati troppo scrupolosi nello scegliere i mezzi di
far danaro. Filippo aveva più volte alterate le monete del suo regno, di
modo che il fiorino d'oro di Fiorenza, che ne' primi anni del suo regno
valeva dieci soldi di Parigi, giunse in breve al valore di trenta. In
appresso fece arrestare in un sol giorno (10 aprile 1337) tutti
gl'Italiani che commerciavano ne' suoi stati, ed accusandoli d'usura, li
forzò a liberarsi con enormi contribuzioni[307]. D'altra parte Edoardo
d'Inghilterra aveva scelti per banchieri due negozianti o case di
Firenze, ed i prestiti che faceva per loro mezzo, superavano talmente
gli assegni del rimborso, che i Bardi trovarono d'avergli prestate cento
ottanta mila marchi sterlini, ed i Peruzzi cento trentacinque mila;
ossia, fra l'uno e l'altro, sedici milioni trecento mila lire delle
nostre lire d'Italia, in un tempo in cui il denaro era cinque o sei
volte più raro che a' nostri giorni[308]. Queste due case furono
obbligate di sospendere i loro pagamenti, dal che ne risultò per
contraccolpo un infinito numero di fallimenti in Fiorenza[309]. Tali
furono le circostanze che consigliarono la repubblica ad accettare la
pace di Venezia, senza che la sua pubblicazione cagionasse allegrezza
nel popolo[310].
[307] _Gio. Villani l. XI, c. 71._
[308] Il marco sterlino valeva allora quattro fiorini e mezzo, o
circa sessanta franchi.
[309] _Gio. Villani l. XI, c. 87._
[310] _Storie Pistolesi p. 474. — Joh. de Bazano Chron. Mutin. t.
XV, p. 598. — Marin Sanuto Vite dei Duchi, t. XXII, p. 605. —
Leonar. Aretino l. V._


CAPITOLO XXXIV.
_Bologna sottomessa da Taddeo de' Pepoli. — Guerra de' mercenarj
o di Parabiago. — I Genovesi creano il doge. — Celebrità del
Petrarca: viene coronato in Campidoglio._
1338 = 1341.

La repubblica di Bologna, posta quasi nel centro dell'Italia, aveva
lungo tempo disputato a Fiorenza il primato nella parte guelfa; nè meno
popolata, nè meno ricca, o meno commerciante, aveva sopra le città della
Romagna quella stessa influenza che Fiorenza sopra quelle della Toscana;
finalmente Bologna era resa celebre dalla più antica università
d'Italia. Irremovibile pel suo attaccamento alla parte guelfa, questa
repubblica aveva acquistati i suoi primi trionfi con lunghe e ruinose
guerre. I Lambertazzi e molte migliaja dei loro partigiani erano stati
esiliati l'anno 1237, e la loro partenza aveva lasciata la città
deserta[311]. Ma i disastri della guerra civile erano stati rifatti
dalla uniforme e vigorosa amministrazione del partito vittorioso. Il
governo più assodato aveva potuto ponderatamente maturare i suoi
progetti ed eseguirli, e procurare allo stato una lunga prosperità. Ora
siamo giunti all'epoca in cui questa prosperità ebbe fine. La tirannide
del legato Bertrando aveva viziato il principio vitale della repubblica;
i cittadini corrotti da alcuni anni di servitù non erano più capaci di
reggersi liberi. I loro odj provocati da più gravi oltraggi avevano
preso un più feroce carattere; essi non erano più repressi dall'antico
spirito pubblico; la salute della patria o il timore di compromettere la
libertà più non essendo bastanti motivi per farli tacere, assoggettarono
Bologna dopo quattro anni di agitazioni ad una nuova tirannide. Questa,
a dir vero, fu più volte rovesciata, ma la libertà che le teneva dietro,
non era di più lunga durata, o meno vacillante ed incerta del potere
tirannico.
[311] _Vedasi nel t. III il c. 22._
Le recenti fazioni di Bologna eransi manifestate quando Romeo de'
Pepoli, il più ricco cittadino di questa repubblica, era stato esiliato:
egli morì lontano dalla sua patria; ma suo figliuolo Taddeo vi era stato
richiamato in tempo dell'amministrazione del legato. I Pepoli eransi
fatti molti partigiani tra il basso popolo e tra la povera nobiltà col
mezzo delle loro immense ricchezze di cui usavano generosamente. Essi
eransi mostrati zelantissimi per il partito guelfo, ed erano rimasti
attaccati al legato più lungo tempo dei Maltraversa loro avversarj[312].
Accusavano essi questi ultimi di favorire i Ghibellini, e quest'accusa
poco non influiva sullo spirito del popolo. Alcune illustri famiglie
erano attaccate alla loro sorte[313], la più rinomata delle quali era
quella dei Bentivoglio, che i suoi genealogisti fanno discendere da
Enzio, re di Sardegna e figliuolo di Federico II, che morì prigioniere
in Bologna. I nemici di questa famiglia, che doveva un giorno
signoreggiare Bologna, dicevano al contrario che discendeva da un
macellajo[314].
[312] _Cron. Miscella di Bologna t. XVIII, p. 360._
[313] I Samaritani, Ghisilieri, Bianchi e Lambertini.
[314] Filippo Bentivoglio era infatti bargello ossia ufficiale di
polizia l'anno 1336 per la compagnia de' macellaj. _Cron. Miscella
di Bologna p. 367._
Poco dopo la cacciata del legato, manifestossi in Bologna una
sollevazione, il 27 aprile del 1334, nella quale le due fazioni
s'azzuffarono sulla piazza, essendo stati rotti i Maltraversi,
saccheggiate le case de' Sabbadini, e tutti i capi di queste grandi
famiglie esiliati[315]. I soli Gozzadini erano stati eccettuati da
questa proscrizione in ricompensa della parte grandissima che avevano
avuta nell'espulsione del legato[316].
[315] I conti di Panico, Beccadelli, Sabbadini, Robaldi e Boattieri.
[316] _Cronaca Miscella di Bologna p. 362._
La fazione de' Pepoli, per assicurarsi la vittoria, o per raccoglierne i
frutti, procedette ben tosto a nuovi atti di rigore contro i suoi
avversarj. Tutti i Ghibellini ch'erano stati esiliati coi Lambertazzi, e
che in seguito erano tornati a Bologna per condiscendenza del governo,
furono di nuovo esiliati in numero di trecento cinquantasette; i loro
padri ed i loro fratelli obbligati a fissare il loro domicilio in
campagna; e quando gli affari li chiamavano in città, era loro vietato
d'avvicinarsi alla piazza sino a cinquanta braccia sotto pena di due
mila lire di multa[317].
[317] _Cron. Miscella di Bologna p. 363._
I Pepoli si comportavano in città come se già ne fossero padroni.
Giacomo, figlio di Taddeo, aveva promesso ad un prete suo amico di
procurargli un beneficio vacante, ed avendolo chiesto inutilmente al
vescovo, in un impeto di collera oltraggiò il prelato cogli schiaffi: il
vescovo, preso un coltello, ferì il Pepoli in una guancia. Si corse alle
armi da ambe le parti; il palazzo vescovile fu saccheggiato ed
abbruciato; ed il capo della Chiesa di Bologna si sottrasse alla morte
colla fuga[318].
[318] Il 20 agosto 1336. _Cron. Misc. di Bologna t. XVIII, p. 370. —
Math. de Griffon. Mem. Hist. p. 158._
Non pertanto, la considerazione personale che si era acquistata
Brandaligi dei Gozzadini coll'espulsione del legato, conservava alcuna
indipendenza al partito Maltraversa di cui era capo. L'anno 1337 Taddeo
dei Pepoli eccitò contro i Gozzadini i Bianchi, loro particolari nemici;
e quando seppe che gli uni e gli altri erano armati e pronti a battersi,
si fece innanzi in mezzo a loro sulla piazza maggiore offrendosi loro
mediatore. Prese Brandaligi per la mano, lo chiamò suo fratello e
l'arbitro di Bologna; lo ricondusse a casa sua prodigandogli gli
attestati del suo rispetto e del suo attaccamento; fece deporre le armi
a' suoi proprj figliuoli, ch'eransi associati ai Bianchi, e determinò
tutta la fazione dei Maltraversa a deporre le armi ed a disperdersi; ma
appena si era il Pepoli ritirato, che i suoi partigiani, adunati in un
altro quartiere, piombarono sopra le case dei Gozzadini, le
saccheggiarono, le bruciarono, e forzarono Brandaligi a fuggire. Dopo
ciò i sediziosi scacciarono dalla signoria tutti i magistrati attaccati
al partito Maltraversa, e costrinsero gli altri a condannare all'esilio
i Gozzadini ed i loro partigiani[319].
[319] Il 7 luglio 1337. _Cronica di Bologna p. 374._
I Bolognesi erano entrati nella lega de' Fiorentini e de' Veneziani
contro i signori della Scala, e la guerra in cui trovavansi impegnati,
obbligavali a tenere molti cavalieri al loro soldo. Questi mercenarj,
per la maggior parte Tedeschi, preferivano il servigio di un principe a
quello della repubblica. D'altra parte, i tiranni la di cui potenza era
fondata sulla forza militare avevano tutti studiata l'arte di rendersi
cari ai soldati. Taddeo dei Pepoli aveva saputo guadagnarsi coloro che
stavano allora in Bologna; avevali impegnati per mezzo di segreti
emissarj ad accorrere a romore sulla piazza il 28 agosto 1337, gridando:
_viva messer Taddeo dei Pepoli!_... I cittadini si ragunarono alle grida
di viva il popolo; ma essi erano senza capo, ed i veri repubblicani
erano stati esiliati colla fazione de' Maltraversa. Taddeo incoraggiava
i suoi soldati, che disarmarono la guardia della signoria, e senza
combattere, anzi senza resistenza, Taddeo fu introdotto nel pubblico
palazzo. I mercenarj, che gli avevano aperto l'ingresso, lo proclamarono
i primi signore generale di Bologna; alcuni giorni dopo le compagnie
delle milizie, e più tardi ancora il consiglio del popolo acconsentirono
a questa elezione. Gli amici della libertà erano affatto scoraggiati; e,
perduta ogni speranza d'impedire lo stabilimento del despotismo, si
assentarono da queste assemblee, nelle quali dieci soli cittadini ebbero
la fermezza, di dichiararsi contro Taddeo dei Pepoli[320].
[320] _Cron. Miscella di Bologna t. XVIII, p. 375. — Math. de
Griffon. Hist. p. 161. — Gio. Villani l. XI, c. 69._
Il nuovo signore scoprì ben tosto, o suppose delle congiure contro di
lui per esiliare, sotto questo pretesto, i cittadini che potevano ancora
tenerlo inquieto[321]. Cercò poi di rappacificarsi col papa, che aveva
messa la sua capitale sotto l'interdetto; riconobbe la sovranità dei
pontefici sopra Bologna; promise alla Chiesa un annuo tributo di otto
mila lire bolognesi; obbligossi a far marciare le sue truppe qualunque
volta ne fosse richiesto dalla corte d'Avignone, ed ottenne a questi
patti d'essere ammesso da Benedetto XII in seno della Chiesa, e fu
riconosciuta la legittimità del suo potere[322].
[321] _Cron. di Bologna p. 377._
[322] _Ghirardacci Stor. di Bologna l. XXII, t. II, p. 136 e
seguenti._
La pace di Venezia fu posteriore a queste diverse rivoluzioni di
Bologna. Questa pace, smembrando gli stati di Mastino della Scala, aveva
posto il rimanente dell'Italia al coperto dalla sua ambizione; ma una
casa più potente erasi di già arricchita delle sue spoglie. I talenti e
le virtù d'Azzo Visconti, il quale era succeduto in Lombardia alla
preponderanza di Mastino, rendeva la sua ambizione ancora più
pericolosa. Visconti era in allora il solo signore che si occupasse del
ben essere de' suoi popoli, e che sapesse farsi amare. La dolcezza della
sua amministrazione gli guadagnava ammiratori e partigiani in ogni
luogo, ed i sudditi del tiranno si felicitavano d'essere da lui
conquistati. Brescia erasi ribellata contro Mastino per aprire le porte
al signore di Milano; ed altre città avevano tentato d'imitarne
l'esempio; ma il signore di Verona, facendo la pace con Azzo, occupavasi
di già della sua vendetta; e fu precisamente col deporre le armi che
suscitò contro al principe che lo aveva umiliato, i più pericolosi
nemici.
(1338) Noi abbiamo veduto che i sobborghi di Vicenza erano stati
abbandonati all'armata della lega: i Tedeschi assoldati prima da
Fiorenza e da Venezia, vi si erano accantonati dopo conchiusa la pace,
conservandoli come pegno d'una pretesa indennizzazione; onde rifiutarono
di separarsi minacciando egualmente Mastino e gli alleati al di cui
servigio erano stati fin allora. Il signore di Verona, volendosene
liberare, pensò di rovesciarli addosso ad Azzo Visconti. Incaricò di
quest'affare quello stesso Lodrisio Visconti che aveva due volte
congiurato contro Galeazzo, e, costretto ad emigrare da Milano, erasi
riparato a Verona.
(1339) Enrico VII, Federico d'Austria, Luigi di Baviera, il duca di
Carinzia ed il re di Boemia avevano successivamente condotte in Italia
nuove armate tedesche, e ben pochi degli avventurieri venuti con loro
erano tornati in Germania: i sovrani d'Italia gli avevano assoldati,
promettendo loro ricompense maggiori di quelle che trovar potevano nella
loro patria. La prodigiosa superiorità che aveva nelle battaglie la
cavalleria pesante, dovevasi molto meno al numero che all'abitudine
delle armi: il cavaliere aveva un soldo proporzionato al lungo tempo che
doveva impiegare, ed ai pericoli cui doveva soggiacere per imparare un
tale mestiere; e mentre oggi la paga del soldato è minore di quella
dell'ultimo mercenario, era in allora maggiore di quella del più esperto
e ricco artefice.
I principi e le città d'Italia non erano in istato di tenere
costantemente queste truppe al loro soldo; in tempo di guerra invitavano
i mercenarj che avevano militato in altre armate, e li licenziavano
all'epoca della pace. I Tedeschi, arrivati in Italia al seguito de' loro
principi, erano ben tosto chiamati a servire altre potenze
coll'allettamento di più larga mercede; e perchè le contese
degl'Italiani erano affatto indifferenti a questi stranieri, vendevansi
sempre al migliore offerente.
Generalmente parlando, ai principi tornava meglio d'avere dei Tedeschi
al loro soldo, che dei nazionali, perchè la diversità della lingua li
faceva più stranieri allo spirito di partito, e meno accessibili
agl'intrighi. Sembrò a bella prima che le truppe mercenarie avessero
pure altri vantaggi. Le forze degli stati si proporzionarono alle loro
ricchezze, non alla popolazione; esse s'accrebbero coll'industria e
coll'attività, e si perdettero per l'inerzia; si risparmiò il sangue de'
sudditi cittadini; gli stessi soldati vestirono un carattere più umano,
e la guerra si trattò con minor ferocia, perchè i combattenti erano
quasi tutti compatriotti e non avevano veruna cagione di odio, che gli
esacerbasse gli uni contro gli altri. In tempo della battaglia si
risparmiavano reciprocamente; dopo la vittoria i vinti venivano
spogliati delle loro armi e de' loro cavalli, e posti in libertà senza
taglia. Non si previde a principio che l'uso de' soldati stranieri
faceva perdere alla nazione il carattere militare, e la privava dei
mezzi di respingere colle proprie forze le aggressioni che potevano
opprimerla; non si previde che i mercenarj, ne' quali essa riponeva la
sua confidenza, potevano un giorno tradirla. La negoziazione di Lodrisio
Visconti con quelli che occupavano i sobborghi di Vicenza, fece per la
prima volta conoscere ciò che doveva temersi da tali truppe.
Lodrisio Visconti giunse presso ai Tedeschi che occupavano i sobborghi
di Vicenza, col danaro datogli da Mastino. Propose loro, poichè allora
verun sovrano assoldava truppe, di marciare con lui contro Azzo
Visconti; ed in cambio di soldo promise loro il saccheggio della città e
del territorio di Milano. Richiamò alla loro memoria la grande compagnia
de' Catalani ed Arragonesi che in principio del secolo era passata in
Grecia e vi aveva fondato uno stabilimento, e li determinò ad
intraprendere la guerra per conto loro proprio. I Tedeschi nominarono
generali Lodrisio Visconti ed uno de' loro compatriotti detto Rinaldo di
Givres[323]; presero il titolo di compagnia di san Giorgio, ed in
principio di febbrajo del 1339 passarono l'Adige per entrare nel
territorio milanese. La compagnia quando si pose in cammino era numerosa
di due mila cinquecento cavalli e di molta infanteria, e di mano in mano
che andava avanzando, faceva sempre nuove reclute.
[323] _Cortusiorum Hist. de novit. Paduæ l. VII, c. 20._
Azzo Visconti trovavasi allora a letto tormentato dalla gotta, onde gli
fu forza di affidare il comando della sua armata a suo zio Lucchino
Visconti. Quest'armata, composta di tre mila cavalli e di dieci mila
pedoni, uscì di Milano il giorno 15 febbrajo per andar contro alla
compagnia di san Giorgio ch'erasi accampata a Legnano, e guastava il
territorio milanese.
Lucchino divise la sua armata in due colonne, una delle quali sotto gli
ordini di Giovanni da Fieno e di Giovanelli Visconti, e stabilì il suo
quartiere a Parabiago; l'altra sotto l'immediato comando di Lucchino
s'accampò a Nerviano. Lodrisio approfittò di questa divisione, e la
notte del 19 al 20 febbrajo piombò improvvisamente sopra la colonna di
Parabiago, e la ruppe interamente. Lasciò allora quattrocento cavalli a
Parabiago per custodire il bottino ed i prigionieri, ne mandò settecento
presso all'Olona per tagliare la ritirata ai fuggiaschi, e col rimanente
s'avanzò contro Lucchino. La battaglia si rinnovò con un furore che non
erasi da molto tempo veduto nelle guerre d'Italia: la speranza del
saccheggio di Milano animava i soldati della compagnia; quelli di
Lucchino erano animati dalla difesa di quanto avevano di più prezioso
contro una truppa di assassini che non avrebbero usato moderatamente
della vittoria. Pure i Milanesi furono vinti, ma dopo una vigorosa
difesa che aveva poco meno dei vinti indeboliti anche i vincitori. Lo
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