Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 05 (of 16) - 04

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grande maggiorità di suffragi, dopo avere ricevuta la corona imperiale
ad Aquisgrana, egli trovavasi in possesso di tutte le prerogative
imperiali in conformità al diritto costantemente riconosciuto in ogni
tempo, e senza che vi fosse bisogno dell'approvazione della santa sede.
Soggiunse di non saper capire come presentemente s'intentasse contro di
lui un'azione per avere assunto il titolo di re dei Romani mentre che
già da dieciotto anni, epoca della sua elezione, aveva sempre, anche
nelle lettere dirette alla santa sede, fatto uso di questo titolo, senza
che alcuno lo trovasse incompetente. Protestava che, se aveva preso a
difendere Galeazzo Visconti, non era già per proteggere un eretico, ma
perchè il Milanese dipendeva immediatamente dall'Impero; e perciò a
questa provincia aveva mandato soccorsi, in conformità degli obblighi
che gl'imponeva la sua dignità, quando il suo territorio fu invaso a
mano armata. Per ultimo ritorse contro lo stesso papa la colpa di
proteggere gli eretici, perchè Giovanni XXII non aveva voluto esaminare
l'accusa portata al suo tribunale contro i frati Minori d'avere rivelato
il segreto della confessione. Per tutte queste cause Luigi appellò della
sentenza del papa al giudizio di un prossimo consiglio, di cui chiese
l'adunanza, ed al quale promise di personalmente intervenire[65].
[64] _Olenschlager Geschichte des Rom. Kaiserth. § 47, p. 124._
[65] Apologia di Luigi di Baviera. _Presso Raynald. 1323, § 4._
Prima che quest'appello fosse noto alla corte d'Avignone, gli
ambasciatori di Luigi ottennero dal papa una dilazione di due mesi per
trattare la sua causa. Ma questa dilazione in tempi in cui le poste non
erano per anco stabilite, appena bastava per portarne la notizia da
Avignone in fondo alla Baviera, e per riaverne il riscontro. Perciò
Luigi in un manifesto che sparse per tutta la Germania, protestò che il
termine accordatogli era troppo breve, perchè potesse presentarsi in
persona e giustificarsi. Dichiarava di essere e di voler essere il
protettore della chiesa e della religione cristiana; ch'era disposto a
sottoporsi umilmente alle correzioni della prima, se aveva verso di lei
mancato ai proprj doveri; ma che nello stesso tempo riguardavasi come
specialmente incaricato di difendere i diritti e l'onore dell'Impero;
onde non soffrirebbe che venissero lesi in verun modo[66].
[66] _Raynald. An. Eccles. 1314, § 4._
D'altra parte quando il papa vide l'appello del re de' Romani al
concilio, e la protesta, fulminò subito contro di lui la scomunica. Il
22 marzo del 1324 dichiarò in pieno concistoro, che Luigi di Baviera era
caduto sotto le pene della scomunica, e vietava a tutti i fedeli di
avere con lui veruna relazione[67]. Per altro gli assegnava altri tre
mesi a presentarsi alla corte papale e giustificarsi. Ma perchè entro
quest'ultimo termine Luigi non comparve, e non depose il titolo di re
de' Romani, il papa, con una nuova bolla datata l'undici di luglio,
annullò tutti i diritti che il suffragio degli elettori potesse aver
dato al duca di Baviera, e lo dichiarò per sempre incapace
dell'Impero[68].
[67] _Ib. § 13. Gio. Villani l. IX, c. 241. — Olenschlager
Geschichte § 51, p. 133._
[68] _Raynald. An. § 21, p. 262. — Gio. Villani l. IX, c. 264._


CAPITOLO XXX.
_Principj di Castruccio Castracani. — Rivoluzioni nelle
repubbliche di Toscana. — Tirannia dell'abate di Pacciana a
Pistoja. — Rotta de' Fiorentini ad Altopascio._
1320 = 1325.

Gl'Italiani più non credevano che la Lombardia potesse sottrarsi ad un
governo dispotico. Sebbene i principi che la governavano non fossero
riconosciuti legittimi, più non si pensava all'oppressione ed alla
schiavitù del popolo di cui avevano usurpati i diritti. Ma le città
della Toscana che sempre si consideravano come libere, avevano quasi
tutte conservato l'intero godimento degli antichi loro privilegi;
tenevano gli occhi aperti sulla loro indipendenza con quella stessa
gelosia che formava il carattere dei popoli dell'antichità; e l'odio che
nudrivano pel governo d'un solo, era reso più forte dallo spettacolo
della vicina tirannide.
In Toscana confondevasi la causa dei Guelfi con quella della libertà.
Firenze, Siena, Perugia e Bologna trovavansi da questo doppio interesse
collegate in istrettissima alleanza. Bologna per le sue relazioni
politiche e per la forma del suo governo risguardavasi come appartenente
alla Toscana, benchè posta fuori de' suoi confini. Pistoja, Prato,
Volterra, Samminiato ed altre minori città seguivano la medesima
fazione, ed eransi unite alla stessa lega. Pisa ed Arezzo conservavansi
fedeli ai Ghibellini: la prima libera, l'altra ubbidiente al suo vescovo
Guido Tarlati, uno de' signori di Pietramala. Tutte le città della
Romagna erano schiave di piccoli tiranni, attaccati alla parte
ghibellina; i Malatesti governavano Rimini, gli Ordelaffi Forlì,
Francesco di Manfredi Faenza, Guido da Polenta Ravenna. Ma in mezzo di
questo apparente equilibrio tra le forze delle opposte fazioni, erasi in
Lucca innalzato alla testa del partito ghibellino un uomo che univa
l'accortezza e la dissimulazione al valore ed alle più rare virtù
militari; che aveva l'arte di farsi temere dal popolo ed amare dai
soldati; che sapeva dare il giusto valore all'odio impotente che poteva
disprezzare, all'amicizia ed al favore che gli era utile di acquistare;
e che tenevasi sempre padrone di nuocere senza provocare la vendetta, di
abbandonarsi all'amicizia, senza arrischiare di essere tradito.
Quest'uomo era Castruccio Castracani, signore o tiranno di Lucca.
Nell'istante medesimo in cui Uguccione e Neri della Fagiuola erano stati
scacciati da Pisa e da Lucca, gli abitanti di quest'ultima città, che
riconoscevano da Castruccio la loro liberazione da un giogo straniero,
lo nominarono capitano annuale delle loro milizie, e lo riconfermarono
tre anni consecutivi. Castruccio, uscito dalla famiglia ghibellina degli
Interminelli, era stato molto tempo in esilio per la fazione de' suoi
antenati; nel suo esilio aveva avuta opportunità di militare sotto molti
capi della stessa fazione in Lombardia; ed il trionfo della sua fazione
non gli stava meno a cuore del proprio innalzamento. L'anno 1320,
assicuratosi il favore popolare, fece esiliare da Lucca gli avvocati e
tutta la parte guelfa, indi si presentò al senato domandando il supremo
potere. Di duecento dieci suffragi ne ebbe duecento nove di favorevoli,
ed il suo innalzamento alla signoria fu quasi con perfetta unanimità
confermato dal popolo[69].
[69] _Beverini Ann. Lucenses p. I, l. VI._ Per istudiare
quest'epoca, la più bella della storia di Lucca, approfittai di due
preziosi MS. conservati negli archivj lucchesi. Contiene il primo la
storia di Giovanni Ser Cambi, lucchese, che dovrebbe essere morto
del 1409. La seconda parte di questa storia dal 1400 al 1409 si
pubblicò nella grande collezione degli storici d'Italia _l. XVIII_.
Ma il Muratori non ebbe copia della prima. Il manoscritto è
correttissimo, legato in 4.º ed ornato di miniature. Non essendovi
numeri di pagine nè di capitoli, non ho potuto citarli: altronde Ser
Cambi, di cui dovremo parlare altrove, è un mediocre storico che
merita poca confidenza. L'altro MS. è intitolato _Ann. Bartholomei
Beverini, ab origine Urbis Lucae, 3. vol. in foglio_. Ma avendo il
Beverini scritte le sue storie dopo il 1648 (vedasi _l. VII, p.
934_) non può risguardarsi come una fonte storica; ma egli aggiunse
a Ser Cambi, che aveva tra le mani, tutti i titoli e documenti della
repubblica conservati nel miglior ordine negli archivj dello stato.
È scrittore erudito, e buon critico quando non viene traviato dalla
sua parzialità per Lucca. L'antico governo non aveva permessa la
pubblicazione di questa storia elegantissimamente scritta in latino.
La sovranità di Lucca non era per Castruccio che un primo passo verso la
grandezza cui aspirava. La sua alleanza coi Ghibellini di Lombardia, e
la stretta amicizia che lo univa alla famiglia Visconti, lo chiamava a
prendere parte alla guerra che guastava il nord dell'Italia; e solo per
mezzo della guerra egli ben vedeva di potere innalzarsi a quell'alto
grado di potenza per cui sentivasi fatto. Era Lucca una ricca e
commerciante città, sebbene minore di Firenze. Le gabelle delle sue
porte davano grandi profitti allo stato, che Castruccio accrebbe con
un'estrema economia. I cittadini, orgogliosi di aver avuto parte alla
vittoria di Montecatini, eransi affezionati alle armi, ed il loro
principe aveva saputo disciplinarli ricompensando le fatiche degli
esercizj militari con premj e distinzioni d'onore. La campagna veniva
coltivata da una robusta e coraggiosa razza di montanari che dava
eccellenti soldati. Le castella degli Appennini, quelli della Varsilia e
della Lunigiana appartenevano a gentiluomini ch'eransi in gioventù
esercitati nelle piraterie di mare e di terra. Castruccio gli unì presso
di lui; chiamò pure alla piccola sua corte gli esiliati e gli
avventurieri che andavano errando d'una in altra città in traccia di
battaglie e di piaceri. Il valore era per Castruccio la prima virtù, che
premiava colla gloria e colla licenza; ma in pari tempo aveva
l'accortezza di assoggettare alla disciplina coloro che scioglieva dalle
regole della morale.
In tal modo avendo Castruccio lentamente formata la sua armata, ebbe
opportunità di entrare in campagna in occasione della spedizione in
Italia di Filippo di Valois. Le repubbliche guelfe che da tre anni
trovavansi con lui in pace, avevano mandati mille cavalli al principe
francese perchè potesse attaccare Matteo Visconti. I Ghibellini
risguardarono la marcia di questa truppa come una violazione della pace
di Toscana, e perciò i Pisani spedirono alcuni soccorsi a
Castruccio[70], il quale s'impadronì del ponte della Gusciana, fiume
paludoso, che divide la pianura di Val di Nievole e dello stato lucchese
dalla Val d'Arno fiorentina; e per questo passaggio entrò
improvvisamente nel territorio di Firenze, occupando tre castella
abbastanza forti, Cappiano, Montefalcone e santa Maria a Monte, e
guastando il territorio di val d'Arno di sotto. Tornando tosto addietro
attraversò lo stato di Lucca per avvicinarsi a Genova assediata dai
Ghibellini, e s'impadronì di molte terre della Garfagnana, della
Lunigiana e della riviera di Levante[71]. I Fiorentini che a vicenda
erano penetrati nella Val di Nievole, richiamarono Castruccio a
difendere il proprio stato: ma le due armate divise dalle paludi si
stettero osservando finchè l'inverno le sforzò a ritirarsi[72].
[70] _Gio. Villani l. IX, c. 104. — Bever. An. Luc. p. I, l. VI, p.
754._
[71] _Gio. Villani l. IX, c. 109. — Leon. Aretinus. l. V._
[72] _Gio. Villani IX, c. 112. — Beverini An. Lucens. l. VI, p.
758._
Nel susseguente anno (1321) volendo i Fiorentini attaccare Castruccio da
due lati, si collegarono col marchese Spinetta Malaspina, che il signore
di Lucca aveva spogliato de' suoi feudi in Lunigiana, e gli mandarono un
corpo di truppe, mentre con un'altra armata assediavano Montevetturini
all'estremità della Valle di Nievole. Tutti i vassalli del marchese
presero le armi pel loro signore; ma quando l'una o l'altra armata volle
entrare nello stato di Lucca, essendo ogni villaggio fortificato, e
tutti gli uomini soldati quando trattavasi di difendere la propria
terra, ogni miglio di terreno costava un assedio o una battaglia.
Intanto Castruccio veniva soccorso dai Ghibellini di Milano, di
Piacenza, di Parma, di Pisa e d'Arezzo; e formava un'armata di mille
seicento cavalli che univa alla sua infanteria. Ben tosto obbligò il
capitano fiorentino a levare l'assedio di Montevetturini, saccheggiò
venti giorni l'aperta campagna di Val d'Arno, di cui aveva libero
l'ingresso; indi tornò in Lunigiana a riconquistare le castella che gli
aveva tolto il marchese Spinetta[73].
[73] _Gio. Villani l. IX, c. 124. — Beverini An. Lucenses l. VI, p.
759._
Quando Castruccio ebbe, col soccorso degli alleati ghibellini, riportati
questi vantaggi, si mostrò disposto ad abusarne, rendendosi ingrato ai
Pisani, cui andava in parte debitore de' suoi successi. Il conte
Renieri, o Nieri della Gherardesca, che i Pisani avevano fatto capitano
delle loro milizie dopo la morte di suo nipote, aveva abbandonato il
partito democratico, al di cui favore la sua famiglia andava debitrice
d'ogni suo innalzamento, e si era unito ai nobili, perpetui nemici de'
suoi antenati[74]. L'odio delle due fazioni plebea e patrizia, che da sì
lungo tempo teneva divisa la repubblica, era cresciuto a dismisura, ed
un nuovo demagogo, Coscetto del Colle, subentrando al Gherardesca, erasi
fatto capo de' plebei. Finalmente il furore del popolo, lungo tempo
compresso, scoppiò in maggio del 1322, ed i due partiti si batterono due
giorni con estremo accanimento. Coscetto del Colle, fatto prigioniere,
fu dal conte condannato a morte mentre quindici capi delle tre grandi
famiglie Gualandi, Sismondi e Lanfranchi furono dal popolo esiliati, e
spianate le loro case. Frattanto fu recata a Pisa l'improvvisa notizia
che Castruccio, avuto avviso della loro zuffa, avanzavasi con tutte le
sue forze per sorprendere la città. Le due fazioni si riconciliarono
subito per resistere all'assalitore, ed il signore di Lucca trovò contro
ogni sua aspettazione chiuse le porte e le mura coperte di soldati[75].
La sedizione contro il conte Nieri di cui egli era stato testimonio,
fecegli sentire quanto la potenza di un signore sia poco sicura finchè
si appoggia soltanto al favore popolare, ed appena tornato a Lucca,
gettò i fondamenti di una fortezza che chiamò l'_Augusta_, o la _Gusta_,
dalla quale signoreggiava tutta la città[76]. I territorj di Lucca e di
Firenze non confinavano tra di loro che in Val d'Arno di sotto, e colà i
Fiorentini avevano afforzato Fucecchio, Castelfranco e Santa Croce, ove
tenevano molta cavalleria per opporsi alle scorrerie delle truppe
lucchesi. Invece di continuare i suoi attacchi da questa banda,
Castruccio si volse bruscamente contro il territorio di Pistoja. Per la
Valle di Nievole di cui era padrone, egli poteva egualmente penetrare
nel piano e nella montagna pistojese, senza che questa repubblica,
spossata dalle guerre civili e dai sostenuti assedj, fosse in istato di
opporsi alle sue forze.
[74] _Gio. Villani l. IX, c. 119. — Marangoni Cron. di Pisa, p. 644.
— Cron. Anon. di Pisa t. XV, p. 997._
[75] _Gio. Villani l. IX, c. 151. — Marangoni Cron. di Pisa, p.
647._
[76] Questa fortezza occupava il luogo del presente palazzo del
principe. _Beverini Ann. Lucens. l. VI, p. 763._
Di questi tempi il più riputato cittadino di Pistoja era l'abate di
Pacciana, detto Ormanno dei Tedici. In una città indebolita e che aveva
perduto il fiore della nobiltà, le ricchezze ed i soldati, questo monaco
lusingossi di farsi sovrano. Egli declamava continuamente contro i mali
della guerra e rappresentava al popolo la necessità di mettere fine alla
guerra facendo tregua con Castruccio. Il vocabolo _tregua_ era la parola
d'ordine del suo partito; i contadini del piano e della montagna, che
ardentemente desideravano la cessazione delle ostilità, risguardavano
l'abate quale loro salvatore[77].
[77] _Istor. Pistolesi Anon. t. XI, p. 415. — Jannotii Manetti
Histor. Pistor. l. II, t. XIX, p. 1031. — Beverini Ann. Lucens. l.
VI, p. 761._
Sembrava non per tanto impossibile che così accaniti nemici, com'erano i
Fiorentini ed i Lucchesi, volessero accordare una tregua parziale al
territorio di Pistoja che li divideva. Ma Castruccio conobbe i vantaggi
che poteva ottenere grandissimi dall'innalzamento dell'abate di
Pacciana; previde ch'egli solo raccoglierebbe i frutti di tutte le
piccole astuzie del monaco diventato sovrano, e che approfitterebbe
della sua debolezza. Il monaco promettevagli segretamente di dargli in
mano la città quand'egli ne fosse padrone, e Castruccio fingeva di
credergli e mostravasi disposto ad entrar seco in negoziazioni per la
tregua: d'altra banda i Fiorentini mandarono subito deputati a Pistoja
per chiedere al popolo di non impegnarsi in separati trattati, onde non
esporsi agl'inganni del tiranno lucchese: offrirono in pari tempo di
spedire a Pistoja sufficienti soccorsi per impedire che il suo stato
fosse guastato dai nemici.
L'abate di Pacciana accoglieva prima degli altri i deputati fiorentini,
offrendosi mediatore presso al popolo, come tra lo stesso popolo e
Castruccio; sembrava ch'egli si occupasse continuamente di conciliare
ogni cosa, e sostenendo le apparenze di conciliatore andava sempre più
affezionandosi i contadini ed il popolo. Come questi però vedeva che la
tregua non facevasi mai, prese le armi il lunedì di Pasqua 10 aprile del
1322, e, conducendo l'abate quasi in trionfo, s'impadronì delle porte,
del palazzo del pubblico, del campanile e delle mura; ed ovunque si
mutarono le guardie, sostituendovi le persone più ben affette all'abate.
In seguito tentò replicatamente di far assassinare Ettore Taviani e
Bonifacio Ricciardi, che credeva essere i suoi più pericolosi avversarj;
ma non essendo riuscito nell'intento, impegnò Castruccio ad avvicinarsi
fino a mezzo miglio di Pistoja, affinchè gli ambasciatori, i soldati
fiorentini e tutti coloro che sarebbersi opposti ai suoi disegni, si
ritirassero per timore di cadere nelle mani dei Lucchesi, ed accrebbe
egli stesso questo timore, pregandoli artificiosamente a rimanere: ma
appena usciti di città, fece chiudere le porte dietro di loro, adunò un
consiglio al quale non chiamò che artigiani e gente della più bassa
plebe, e si fece proclamar signore per un determinato numero di anni.
Non volle per altro abitare nel palazzo pubblico, e dichiarò che tanto
fasto mal si confaceva all'abate d'un monastero[78].
[78] _Istorie pistolesi anonime t. XI, p. 417. — Jannotii Manetti
Histor. Pistor. l. II p. 1032._
Castruccio accordò all'abate di Pacciana una limitata tregua, e questi
incominciò ad esercitare liberamente la sovranità di cui erasi
impadronito. Ma i piccoli intrighi di convento che avevano servito a
farlo principe, non bastavano ad assicurargli la sovranità. Le astuzie
non possono supplire alla profonda politica, nè la crudeltà al
carattere, nè l'ambizione equivale al coraggio ed alla fermezza. «In
tutto ciò ch'egli faceva, dice lo storico pistojese suo coetaneo, agiva
da uomo vile, non sapeva essere signore, ed aveva più fiducia negli
altri che in sè medesimo; ogni suo parente voleva essere padrone, e non
pensava che a derubare il comune o i particolari; per ultimo nulla
facevasi in Pistoja senza che tornasse vantaggioso ai Tedici[79].» Così
l'abate di Pacciana amministrò quattordici mesi lo stato, nel qual tempo
esiliò i Rossi, i Lazzari ed una parte dei Cancellieri. Prometteva
sempre a Castruccio di rinunciargli la sua signoria; ma questi non si
lasciò lungo tempo ingannare dai trattati del monaco. Entrò
impensatamente a Pupiglio, e se ne impadronì, onde occupò ben tosto la
montagna pistojese[80].
[79] _Istorie pistolesi anonime p. 418._
[80] _Gio. Villani l. IX, c. 191. — Jannotii Manetti l. II, p.
1033._
(1323) Intanto quello de' nipoti dell'abate di Pacciana che più degli
altri aveva abusato della sua autorità, Filippo Tedici, congiurò contro
lo zio, non perchè aspirasse ad acquistare maggior potere di quello che
aveva; ma per unire il titolo di signore all'esercizio delle prerogative
della signoria. L'abate scoprì la congiura; ma egli non aveva tanta
grandezza d'animo per disprezzare le trame de' suoi nemici, nè
sufficiente clemenza per perdonare a suo nipote, nè bastante energia per
difendersi e vendicarsi. Tentò vilmente di far assassinare il nipote, e
non osò di resistergli in faccia. In un istante in cui i suoi partigiani
erano adunati presso di lui, mentre i Fiorentini, chiamati in suo
soccorso, avevano spinte le loro truppe fino alle porte di Pistoja, non
ebbe mai il coraggio di avanzarsi verso la porta per farla aprire, e
perdette per viltà quella signoria che aveva acquistata coll'astuzia.
Mentre Castruccio teneva gli occhi aperti sopra i Pistojesi, per
approfittare delle loro divisioni, attaccava i Fiorentini più
vigorosamente. Questi avevan fatto venire dal Friuli Giacomo di
Fontanabuona, gentiluomo che faceva il mestier di _condottiere_, val a
dire che conduceva la sua piccola armata al soldo di coloro che volevano
adoperarla. I Fiorentini erano disposti a mandare questo capitano con
trecento cinquanta cavalli, seco condotti, nella Valle di Nievole, ove
teneva segrete intelligenze, e dove gli si doveva consegnare il castello
di Buggiano. Ma avendo Castruccio avuto sentore di questo trattato, fece
appiccare dodici de' cospiratori di Buggiano, e, coll'offerta d'un
maggior soldo, persuase Giacomo di Fontanabuona a disertare colla sua
truppa ed a passare al suo servigio[81]. Questo è il primo tradimento
de' _condottieri_ che si fecero in breve così frequenti in tutta
l'Italia, e resero così pericoloso l'uso de' soldati mercenari; pure si
andava sempre più loro abbandonando la cura di difendere gli stati;
perchè il loro valore e la perizia dell'arte militare li rendeva di
lunga mano sempre più esperti delle truppe nazionali.
[81] _Gio. Villani l. IX, c. 207. — Beverini Annales Lucenses l. VI,
p. 766._
Castruccio, poi ch'ebbe ottenuto questo rinforzo a spese dei Fiorentini,
si affrettò di portare la guerra sul loro territorio. Il 13 giugno del
1313 passò la Gusciana con ottocento cavalli ed otto mila pedoni, ed
entrò in Val d'Arno di sotto, guastando i distretti di Fucecchio di
Castelfranco e di Santa Croce; poi passò l'Arno e saccheggiò le campagne
di Samminiato di Montopoli e della estremità di Val d'Elsa, di dove
tornò a Lucca senza aver incontrati nemici[82]. Dopo aver dato una
settimana di riposo alle sue truppe, presentossi all'impensata sotto
Prato il 1.º luglio con seicento cinquanta cavalli e quattro mila fanti.
Questa piccola città lontana soltanto dieci miglia da Firenze fu
compresa da grandissimo terrore. Vero è che gli abitanti chiusero le
porte, ma fecero sapere ai Fiorentini, che, non venendo prontamente
soccorsi, non tarderebbero ad aprire le porte al nemico.
[82] _Gio. Villani l. IX, c. 208._
La repubblica fiorentina, tradita dal Fontanabuona, trovavasi
sprovveduta di truppa assoldata, ma la signoria chiamò i cittadini in
difesa della patria. A tale chiamata si chiusero le botteghe, e tutti i
Fiorentini presero le armi; onde lasciata una numerosa guardia alle
porte e sulle mura, mille cinquecento cavalli con venti mila fanti si
recarono il 2 luglio a Prato. Credevasi che l'armata di Castruccio fosse
più forte assai che non era; e nel primo istante di trepidazione i
priori avevano fatto proclamare che sarebbe fatta grazia a tutti i
banditi che si recassero all'armata di Prato. E tale era stata la
violenza delle proscrizioni, che quattro mila Bianchi o Ghibellini
esiliati, assai più de' pacifici cittadini accostumati alle armi, si
unirono all'armata. Castruccio non aspettò fino all'indomani a ritirarsi
innanzi a forze tanto superiori, e si ridusse nella stessa notte a
Serravalle.
Quando i Fiorentini s'accorsero la mattina del susseguente giorno che
Castruccio era partito, tutto il loro campo fu in preda ad un
tumultuario movimento. I borghesi che la vigilia avevano abbandonate le
loro officine, più non respiravano che sentimenti di gloria militare e
vendetta contro Castruccio. «Il nemico, dicevano essi, fugge innanzi a
noi, non ha osato di aspettare l'insegna trionfante del giglio; ma oggi
s'appartiene a noi l'inseguirlo: noi dobbiamo distruggere le messi del
nemico, togliergli i bestiami, e punirlo dell'insolenza con cui insultò
tante volte il nostro territorio. Venti mila soldati uscirono jeri di
Firenze, e non devono rientrare senza aver prima ottenuta una compiuta
vittoria.» Ma i nobili che componevano la cavalleria di quest'armata,
rispondevano con amara ironia, che i cittadini non erano tutto ad un
tratto divenuti soldati per essersi vestiti delle loro armi; che avevano
di già ottenuto il maggiore successo, cui potessero aspirare; che
avevano spaventato il nemico col loro numero, prima che avesse
conosciuto per prova quanto avesse avuto torto di esserne spaventato;
che entrati una volta nel paese nemico, la fame e la sete non meno che
la spada farebbero loro desiderare la tranquillità delle loro officine
che avevano poc'anzi abbandonate. Potevano i nobili temere a ragione
l'esito di una campagna che volevasi intraprendere senza truppe di linea
con un'armata senza disciplina; ma si abbandonarono a quell'impazienza
che in loro eccitavano le millanterie de' borghesi: quindi i motteggi
con cui rispondevano all'entusiasmo del popolo, destavano la collera de'
più pacifici cittadini. Altri motivi di disputa avevano risvegliata la
sopita animosità dei due ordini. Col finire del 1321 era spirata
l'autorità data sopra la repubblica al re Roberto, ed a tale epoca erasi
rinnovata l'ordinanza di giustizia contro i nobili, che li rendeva
garanti dei delitti gli uni degli altri, e si lagnavano che mentre erano
nelle armate i soli difensori dello stato, fossero i soli privati della
protezione delle leggi. Non potendo il consiglio di guerra deliberare,
risolse, per sedare la discordia che agitava l'armata, di chiedere a
Firenze nuove istruzioni. Ma i sentimenti della signoria e dei consigli
si divisero come nel campo. Tutti i nobili volevano che si differisse la
pugna, i borghesi che si marciasse verso il nemico, e perchè le
discussioni si protrassero fino a notte, il popolaccio attruppato nelle
strade fissò le irresoluzioni dei consigli, chiedendo, con forsennate
grida, la battaglia; onde fu mandato ordine al conte Novello di condurre
l'armata contro Lucca. Questo generale tardò alcuni giorni a porsi in
cammino; e perchè i gentiluomini facevano sempre nascere qualche nuovo
ostacolo alla marcia, non si avanzò al di là di Fucecchio.
Gli esiliati, ch'eransi uniti all'armata, in mezzo alle dissensioni che
agitavano il campo, credettero, quando furono a Fucecchio, di dovere
ancora occuparsi del proprio vantaggio; ed i nobili andavano loro
consigliando ad assicurarsi gli effetti dell'amnistia loro promessa.
Abbandonarono perciò le insegne, e si presentarono il 14 luglio, uniti
in un corpo d'armata, alle porte di Firenze per rientrare nella loro
patria. La signoria, atterrita, fece chiudere le porte, e mandò ordine
al conte Novello di ricondurre l'armata per difendere la città contro i
ribelli. Ed in tal modo ebbe fine questa campagna senza che i Fiorentini
vedessero il nemico[83].
[83] _Gio. Villani l. IX, c. 213. — Leon. Aretinus l. V, p. 153._
Intanto gli esiliati, sempre accampati presso Firenze, mandarono
deputati alla signoria, lagnandosi di essere trattati come nemici, e
riclamando l'esecuzione delle promesse. I gentiluomini appoggiavano con
tutto il loro credito le istanze de' fuorusciti; ma il popolo decise
che, coll'aver tentato di entrare in città per sorpresa, avevano perduto
il beneficio di una amnistia che non era stata accordata che alla loro
sommissione. Si scoperse una congiura dei nobili per introdurli in
città, ed i principali capi furono esiliati[84].
[84] _Gio. Villani l. IX, c. 218._
E per tal modo infiniti pericoli circondavano la repubblica. Un potente
nemico l'andava continuamente tribolando, guastava le campagne,
sorprendeva le fortezze e facevale temere la perdita delle città la di
cui alleanza eragli più necessaria; un grosso corpo di esiliati non
aveva deposte le armi e valevasi a vicenda della forza e degli artifizj
per rientrare in patria; per ultimo entro la medesima città
manifestavansi non infrequenti sedizioni, ed i più pericolosi nemici
trovavansi forse entro le sue mura. In così difficile situazione
temevansi le agitazioni periodiche occasionate ogni due mesi
dall'elezione della signoria. Il corpo elettorale trovavasi in allora
composto dei priori che uscivano di carica, dei buoni uomini e dei
gonfalonieri delle compagnie, e di un determinato numero di aggiunti di
ogni quartiere. Questi elettori erano in certo modo i rappresentanti del
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