Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 05 (of 16) - 09

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spedì una compagnia di cavalieri, col cui ajuto Fazio scacciò di Pisa il
vicario imperiale co' suoi soldati, e ristabilì in giugno del 1329 il
governo indipendente della repubblica[200].
[200] _Gio. Villani l. X, c. 133._
Intanto Marco Visconti non si credeva del tutto sicuro in mezzo ai
Tedeschi che lo avevano creato loro capo, e venne personalmente a
Firenze per ripigliare il trattato della vendita di Lucca. In questo
frattempo i suoi luogotenenti aprirono un eguale trattato coi Pisani, i
quali, temendo d'essere prevenuti dai Fiorentini in così notabile
acquisto, strinsero il contratto pel prezzo di sessanta mila fiorini, e
ne sborsarono incautamente per caparra tredici mila, senza farsi dare
ostaggi. I Tedeschi si fecero giuoco della data fede e rifiutarono
d'aprire la città. Intanto i Fiorentini adombrati dal tentativo de'
Pisani, fecero ben tosto avanzare le loro truppe per impedirne
l'esecuzione; ed i Pisani che avevano perduta una somma considerabile, e
risguardavano egualmente come loro nemici i Tedeschi di Tarlatino che
avevano cacciati fuori di Pisa, ed i Tedeschi di Lucca che gli avevano
ingannati, furono obbligati a fare la pace con Fiorenza il 12 agosto del
1329, rinunciando all'acquisto di Lucca[201].
[201] _Gio. Villani l. X, c. 136. — Cronica di B. Marangoni di Pisa.
— Beverini Annales Lucenses l. VII, p. 865._
I Tedeschi rinnovarono un'altra volta l'offerta di vendere Lucca ai
Fiorentini; e perchè la signoria non aveva voluto accettarla, molti
ricchi mercanti formarono una società, nella quale prese parte anche il
nostro storico Giovanni Villani, per acquistar Lucca col loro danaro.
Essi avevano raccolti tra di loro cinquantadue mila fiorini, e dieci
mila ne aggiungevano i mercanti lucchesi che desideravano di liberar la
loro patria dall'oppressione; onde dalla signoria di Fiorenza si
chiedevano soltanto quattordici mila fiorini, per i quali le si davano
in custodia le mura e la fortezza: e coloro che avevano somministrato il
danaro, sarebbero stati rimborsati col prodotto delle gabelle delle
porte di Lucca. Ma questa volta un inconcepibile acciecamento sorprese
la signoria, che d'ordinario mostrò tanta accortezza, e le fece
rigettare così utili offerte. Temette forse il ridicolo, cui sarebbe
esposta una nazione di mercanti, che invece di soggiogare i nemici colle
armi, non sapeva che comperarli. «Che fama certa, dice il Villani, era
per lo mondo che i Fiorentini per covidigia di guadagno di moneta hanno
comperata la città di Lucca. Ma al nostro parere, e a' più savi, che poi
l'hanno esaminato quistionando, che compensando le sconfitte e danni
ricevuti, e ispendii fatti per lo comune di Firenze per cagione de'
Lucchesi per la guerra Castruccina, niuna più alta vendetta si poteva
fare per li Fiorentini, nè maggiore laude e gloriosa fama poteva andare
per lo mondo che potersi dire, i mercanti e singulari cittadini di
Firenze con la loro pecunia hanno comperato Lucca, e suoi cittadini e
contadini stati loro nemici, come servi[202]».
[202] _Gio. Villani l. X, c. 142._
Intanto un emigrato ghibellino di Genova, detto Gherardino Spinola, si
fece a trattare cogli avventurieri tedeschi l'acquisto di Lucca; e
questi soldati, impazienti di ripatriare, gli cedettero la città il
giorno 2 settembre per trenta mila fiorini. I Lucchesi ne riconobbero
l'autorità, meno insopportabile al certo che quello della soldatesca cui
succedeva; ed i Fiorentini che gli dichiararono la guerra, si videro
tolti dai Ghibellini le castella di Collodi e di Montecatini[203].
[203] _Ibid., c. 143. — Leon. Aretino l. VI, p. 191. — Beverini Ann.
Lucens. l. VII, p. 869._
Tranne questa guerra, poco dannosa, eransi ristabiliti in Toscana
l'ordine e la pace. La stessa repubblica di Pisa aveva cercato di
rappacificarsi col partito guelfo e col papa: al quale oggetto obbligò
l'antipapa Nicolò V ad uscire dalle sue mura; ed in seguito lo fece
arrestare in un castello della Maremma, ove erasi nascosto, e lo mandò
prigioniero in Avignone. Giovanni XXII pianse di gioja vedendosi arbitro
della sorte di così pericoloso rivale, che fece custodire, finchè visse,
in onorata prigione; ammettendo i Pisani alla comunione della chiesa in
premio di così segnalato servigio[204].
[204] _Gio. Villani l. X, c. 162._
Ma la Lombardia, ove Luigi di Baviera aveva condotta la sua armata, non
andava esente da rivoluzioni. Sebbene i Fiorentini non avessero verun
dominio in questa contrada, non vedevano tranquilli il rapido
innalzamento d'alcuni principi ad una straordinaria potenza, e il
decadimento egualmente rapido di alcuni altri nella dipendenza o nella
disgrazia.
Uno de' più temuti capi del partito ghibellino aveva cessato d'esistere
quando Luigi di Baviera rientrò dalla Toscana in Lombardia. Passerino
dei Bonacossi, signore di Mantova e di Modena, aveva in una sedizione
popolare perduta l'ultima città il 15 giugno 1327[205]. I Guelfi ed il
legato Bertrando erano accorsi in ajuto degl'insorgenti, che loro
avevano aperte le porte. Ma Passerino era rimasto sovrano di Mantova,
città da oltre quarant'anni suddita della sua famiglia. Difesa dai
laghi, che la circondano, dalle aggressioni straniere, pareva che
Mantova non avesse pure a temere interni sconvolgimenti. Il popolo aveva
da molto tempo perduta la memoria d'una libertà appena conosciuta; i
grandi erano sottomessi ed altronde accarezzati dal signore e
confidentemente trattati; finalmente era nota la prudenza, la ricchezza
ed il valor del principe, che risguardavasi come il meglio assodato
sovrano di Lombardia[206]. Una privata offesa provocata dall'arroganza
del figlio di Passerino fu cagione della sua ruina.
[205] _Chron. Mutin. Joh. de Bussano t. XV, p. 588. — Chron. Mutin.
Bonifacii de Morano t. XI, p. 113._
[206] _Chron. Modoetiense t. XII, l. II, c. 41._
I costumi della gioventù, severi nelle repubbliche, erano licenziosi ne'
principati di Lombardia. I sovrani stessi sarebbersi adombrati
dell'austera indipendenza di un uomo onesto e sobrio. L'esempio della
corte invitava alla mollezza; ed i gentiluomini, pei quali non restava
alcuna via alla gloria ed agli onori, si occupavano unicamente dei
piaceri. Compagni delle dissolutezze ed amici del figliuolo di Passerino
erano tre suoi cugini, figliuoli di Luigi da Gonzaga; uno de' quali
avendo eccitata la gelosia del principe, questi giurò nella brutale sua
collera di vendicare sulla propria consorte di Filippino Gonzaga la
supposta infedeltà della sua amante, disonorando quella sotto gli occhi
di suo marito[207].
[207] _Platina Hist. Mantuae t. XX, l. II, p. 727._
I tre fratelli Gonzaga ed il loro amico Alberti Saviola si disposero a
prevenire così disonorante ingiuria, o a punire il figlio del tiranno
per aver soltanto osato di formarne il disegno. Chiesero segretamente
soccorso a Cane della Scala signore di Verona, e l'ottennero: perchè i
principi vicini, gelosi gli uni degli altri, erano sempre disposti a
nuocersi vicendevolmente. Filippino Gonzaga erasi ritirato nelle sue
terre sotto colore di attendere ai suoi raccolti, ed aveva presso di sè
riuniti lavoratori a lui attaccatissimi e di sperimentato coraggio.
Nella notte del 14 agosto del 1328, avendo loro date le armi, gli
associò ai soldati avuti in prestito da Cane della Scala e li condusse
presso alla porta di Marmirolo, che suo fratello si era fatta aprire
sotto pretesto di essere chiamato in campagna da una galanteria amorosa.
La guardia della porta fu sorpresa, ed i congiurati corsero la città
eccitando il popolo a scuotere il giogo di Passerino ed a distruggere le
gabelle. Questo signore recatosi a cavallo contro i congiurati fu ucciso
in su la piazza, ed il figliuolo gettato nella prigione in cui aveva
fatto morire il vecchio signore della Mirandola, e vi fu ucciso dal
figliuolo di quello sventurato gentiluomo. Luigi da Gonzaga, cognato di
Passerino e padre dei congiurati, fu da loro proclamato signore di
Mantova[208]. I suoi discendenti ne conservarono la sovranità fino alla
metà del secolo XVIII.
[208] _Cron. Miscel. di Bologna p. 349. — Gio. Villani l. X, c. 99.
— Bonifazio de Morano Chr. Mutin. t. XI, p. 116._
Luigi di Baviera non si curò di vendicare Passerino de' Bonacossi; per
lo contrario nominò in suo luogo vicario imperiale Luigi da Gonzaga, e
lo invitò al congresso dei signori ghibellini che aveva convocato pel
giorno 21 aprile del 1329 a Marcheria. V'intervennero Cane della Scala,
il Gonzaga ed i signori di Como e di Cremona, come pure gli altri capi
del partito in Lombardia[209]; ma Azzo Visconti ricusò di venire. Questo
principe, alleato dei figliuoli di Castruccio, lagnavasi
dell'ingratitudine con cui lo aveva trattato l'imperatore, e vedeva
nella loro sorte, quella che gli era destinata, se Luigi entrava nel
Milanese; e con un monarca senza fede preferiva ai trattati la guerra
aperta. Quando ebbe avviso dell'avvicinarsi dell'imperatore, fortificò
Milano e Monza per essere in istato di resistergli; ed invitando i
cittadini a difendersi, gli assicurò che di quattro mila cavalieri che
seguivano Luigi, due mila, nella loro miseria, avevano venduti i loro
cavalli sperando di rifarsi col saccheggio di Milano. Di fatti i
Milanesi secondarono il loro signore con tutte le loro forze, e Luigi,
dopo alcuni inutili tentativi per sorprenderli, accettò una piccola
somma di danaro offertagli dal Visconti, ed andò a portare la guerra
nella Lombardia oltre-padana[210].
[209] _Gio. Villani l. X, c. 128._
[210] _Chron. Modoet. c. 40, p. 1158. — Georg. Merulæ Hist. Mediol.
l. III, p. 111._
In questa campagna l'imperatore riportò alcuni vantaggi dovuti piuttosto
all'imprudenza del suo nemico il cardinale Bertrando, che alla propria
abilità. Aveva il cardinale fatto arrestare come ostaggio Orlando dei
Rossi, uno dei signori di Parma e de' principali capi della parte
guelfa; onde le città di Pavia, Parma, Modena e Reggio, sdegnate per
quest'atto tirannico, abbandonarono la causa della chiesa ed aprirono le
porte all'imperatore[211]. Ma Luigi, avanti che terminasse l'anno, andò
a Trento per ottenere dai principi tedeschi altri soldati. Mentre
trovavasi in questa città, morì il 13 gennajo 1330 Federico d'Austria,
ed i suoi fratelli Alberto ed Ottone adunarono truppe per attaccare la
Baviera. Conoscendo le intenzioni degli Austriaci, Luigi abbandonò
l'Italia per difendere i suoi stati ereditarj[212].
[211] _Gio. Villani l. X, c. 141._
[212] _Gio. Villani l. X, c. 146. — Bonifaz. di Morano Chron. Mutin.
p. 117. — Olenschlager Geschichte des Rom. Kayserth. § 89._
Azzo Visconti inimicandosi coll'imperatore, si riconciliò col papa,
sostituendo il titolo di vicario della chiesa a quello di vicario
imperiale, ed ottenne il vescovado di Novara per suo zio Giovanni, cui
fece abiurare il cardinalato degli scismatici[213]. Marco Visconti, il
maggiore de' suoi zii ed il più valoroso, ma in pari tempo il più
formidabile per l'inquieto suo carattere, dopo essergli andato a male il
trattato della vendita di Lucca ai Fiorentini, tornò a Milano in sul
cadere di luglio. I borghesi che più volte lo avevano veduto rientrare
in città trionfante, dopo avere riportate gloriose vittorie, i soldati
coi quali aveva divise le fatiche ed i pericoli, i contadini cui aveva
salvate le messi dal saccheggio de' nemici, accorrevano in folla per
vederlo, ripetendo il suo nome con entusiasmo, ed invocandolo come il
vindice della Lombardia, da cui si ripromettevano la pace, la gloria e
la libertà. Il signore di Milano non vide con indifferenza tanto favore
popolare. Lo invitò ad un magnifico banchetto con tutti i suoi parenti;
e quando Marco stava per ritirarsi, fu da Azzo, sotto colore di
parlargli segretamente, chiamato in un altro appartamento, e strozzato
da alcuni sicarj colà appostati, che lo gittarono dalla finestra nella
pubblica piazza. Così perì il più valoroso figliuolo del magno Matteo
Visconti; quello che il voto de' Ghibellini chiamava a comandare la loro
fazione in tutta la Lombardia[214].
[213] _Gio. Villani l. X, c. 144._
[214] _Chron. Modoet. c. 42, p. 1159. — Gio. Villani l. X, c. 133._
Era loro mancato Cane della Scala, signore di Verona, che dodici anni
prima la lega ghibellina aveva proclamato suo capo nel congresso di
Soncino. Cane, in un'epoca in cui la Lombardia abbondò di capitani
illustri e di grandi principi, meritò d'occupare il primo luogo. Ad una
bravura a tutte prove aggiugneva altre qualità omai rese assai rare:
costante ne' suoi principj e leale ne' discorsi, fu mantenitore fedele
delle sue promesse. Nè solo aveva saputo assicurarsi l'amore de'
soldati, ma ancora quello de' popoli da lui governati, sebbene di fresco
sottomessi colle armi. Fu il primo de' principi lombardi che prendesse a
proteggere le arti e le scienze: la sua corte, ch'era l'asilo di tutti i
fuorusciti ghibellini, riuniva i primi poeti d'Italia, i migliori
dipintori e scultori; ed alcuni gloriosi monumenti onde abbellì Verona,
attestano anche al presente la protezione accordata all'architettura.
Per altro le armi erano la sua più favorita passione, e la più grande
impresa del suo regno era stato l'acquisto del principato di Padova, che
i Guelfi avevano fondato l'anno 1318 in favore di Giacomo da Carrara.
Questi era morto l'anno 1322, e gli era succeduto suo figliuolo
Marsilio: ma questo principe indebolito dalle sedizioni de' suoi sudditi
e dalla congiura de' suoi parenti, dopo aver veduto sei anni di seguito
ruinate le campagne ed incendiati i castelli ed i villaggi del suo
territorio; dopo avere senza verun profitto implorati i soccorsi del
papa, del re Roberto, dei duchi d'Austria e di Carinzia, delle
repubbliche di Venezia, di Fiorenza e di Bologna, aprì finalmente le
porte a Cane della Scala il 10 settembre del 1328. Un matrimonio unì le
due famiglie, e Marsilio rimase luogotenente di Cane nella città di cui
era stato principe[215].
[215] _Cortusiorum Historia de Novitatibus Paduæ l. III, c. 6 usque
ad l. IV, c. 4. — Gio. Villani l. X, c. 103._
Le città di Verona, Vicenza, Padova, Feltre e Belluno erano allora
soggette al signore della Scala. Nel susseguente anno intraprese di
unirvi anche quella di Treviso, onde avere in tal modo tutta la Marca
Trivigiana in suo potere. L'ebbe in fatti per capitolazione il 18 luglio
del 1329; ma mentre entrava in questa città, sentendosi sorpreso da
pericolosa infermità, si fece portare nella chiesa cattedrale e vi morì
il quarto giorno in età di quarantun anni. Cane non aveva figli
legittimi, e gli succedettero nella signoria i due nipoti figliuoli del
fratello Alboino. Alberto, il primogenito affatto dedito ai piaceri,
abbandonò la cura di tutti gli affari a suo fratello Mastino, erede dei
talenti e dell'ambizione, ma non delle virtù di Cane[216].
[216] _Hist. Cortusior. l. IV, c. 8 e 9, pag. 850. — Gio. Villani l.
X, c. 139. — Chron. Veron. t. VIII, p. 646._
E per tal modo quando l'imperatore tornava in Germania, tutti gli
antichi capi del partito ghibellino, tutti coloro che avevano tanto
tempo e con tanta generosità difesa la causa dell'impero contro il papa
ed il re Roberto, erano caduti. Ma questa causa, più che dalla caduta di
tanti illustri personaggi, riceveva danno dalla condotta tenuta in
Italia da Luigi, e dalle triste memorie che di sè vi lasciava.
Protettore nato della nobiltà e delle città imperiali, aveva in ogni
luogo contribuito alla loro ruina; aveva senza vergogna sagrificati i
suoi partigiani alla sua avarizia o all'interesse del momento; non erasi
mantenuto fedele a verun principe, o ad amico di qualsiasi condizione,
ed aveva fatto temere non meno la sua debolezza e la sua incostanza che
la sua crudeltà.
Il partito della chiesa che gli era opposto, era alla stessa epoca
diretto da capi egualmente odiosi. Papa Giovanni XXII, che aveva
preferito di vivere suddito in Avignone piuttosto che sovrano in Roma,
mostravasi assai meno il capo della cristianità, che la creatura e
l'istrumento del re di Francia. Lussurioso, avaro, vendicativo,
scompigliava l'impero con ambiziose pretensioni, di cui gli stessi suoi
partigiani riconoscevano l'ingiustizia; turbava la pace della chiesa
colle oziose dispute ch'ebbe coi Francescani intorno alla povertà di
Cristo, coi cardinali, ed in appresso colla Sorbona per visione
beatifica[217]. Poneva all'incanto le dignità ecclesiastiche; permetteva
e probabilmente incoraggiava col suo esempio la corruzione de' costumi,
talchè la sua corte scandalizzava tutta la cristianità. Quest'uomo, così
indegno del titolo di padre de' Fedeli, aveva nominato suo
rappresentante in Lombardia, Bertrando del Poggetto, che dicevasi suo
nipote, ma veniva universalmente creduto suo figlio. Questo legato
pontificio, cattivo soldato e peggior prete, cercava sotto il nome della
chiesa di formarsi una sovranità in Italia. Impiegava le armi ed i
tesori della santa sede ed i più vili intrighi della mondana politica
per ingrandirsi a spese de' popoli ch'eransi posti sotto la sua
protezione. Avendo colla sua perfidia fatte ribellare le principali
città della Lombardia cispadana, gittava in Bologna, che destinava
essere la capitale de' suoi dominj, i fondamenti d'una fortezza che lo
assicurasse dalle insurrezioni d'un popolo estremamente
maltrattato[218]. Gl'Italiani, sdegnati contro i due capi del
cristianesimo, dai quali vedevansi traditi, si staccavano
dall'imperatore e dal papa, e non pertanto conservavano i nomi di Guelfi
e di Ghibellini che avevano presi quando s'erano armati per la loro
causa. Mentre vedevansi rovesciare a vicenda tirannidi vacillanti, o
rinunciare ad una libertà che non sapevano stabilire, sprezzare un
imperatore perfido e pusillanime, e detestare un papa ipocrita ed
ambizioso, un principe che non pareva occuparsi che della gloria e della
beneficenza s'innoltrò fino alle frontiere della Lombardia, tutti i
popoli si affrettarono di assoggettarsi alla sua sovranità.
[217] _Gio. Villani l. X, c. 228._
[218] _Cronica Miscella di Bologna t. XVIII, p. 352._
L'ultimo imperatore Enrico VII aveva fatta sposare a Giovanni, suo
figliuolo, Elisabetta seconda figlia di Wenceslao re di Boemia, mentre
Anna, la primogenita, erasi maritata, vivente il padre, con Enrico duca
di Carinzia. L'imperatore aveva dato a suo figliuolo il regno di Boemia
come feudo vacante dell'impero; i Boemi ne avevano confermata l'elezione
l'anno 1310, ed avevano ajutato il loro re Giovanni a scacciare dal
regno Enrico di Carinzia, che pretendeva, come marito della primogenita
di Wenceslao, quella corona[219]. Ma Giovanni, valoroso, galante,
appassionato per le feste e per i tornei, e per l'avuta educazione,
avvezzo alle maniere eleganti, alla leggerezza ed alla grazia della
corte francese, era mal atto a comandare in un paese ancora mezzo
barbaro, ove i magnati erano gelosissimi della selvaggia loro
indipendenza, e non potevano tenersi sommessi che colla desterità e
coll'artificio. Infatti trovossi involto in molte guerre civili, nelle
quali la stessa sua consorte erasi talvolta posta alla testa de'
ribelli[220]. Giovanni che in Boemia non trovava nè sicurezza nè
obbedienza, affidò il governo del suo regno ad Enrico, conte di
Lippe[221], ed andò a risiedere ne' suoi stati ereditarj di Lussemburgo;
di dove intraprendeva frequenti viaggi alle corti straniere per trovarvi
quella considerazione di cui non godeva ne' suoi dominj[222].
[219] _Epitome Rer. Boemic., auctore Boluslao Balbino, l. III, c.
17, p. 316._
[220] _Epit. Rer. Boem. l. III, c. 18, p. 333._
[221] _Ib. c. 17, p. 325._
[222] Il re Giovanni non sapeva probabilmente leggere. Suo figlio
Carlo IV nel Commentario, che scrisse della propria vita, dice di
lui: _Præcepit Capellano meo, ut me aliquantulum in litteris
erudiret, quamvis prædictus rex ignarus esset litterarum. Ex hoc
didici lecere horas B. M. V. gloriosæ, et eas aliquantulum
intelligens quotidie temporibus pueritiæ meæ libentius legi. — Vita
Caroli IV, p. 17, verso, in historia duorum priorum familiæ Luceburg
imperatorum. Reinerii Reineccii Stein hemii p. II, Helmestad._ 1585
(nella biblioteca di Vienna).
Il re Giovanni, come abbiamo già veduto, aveva portato Luigi di Baviera
sul trono imperiale, ed aveva adoperate tutte le sue forze per
mantenervelo; doveva Luigi riconoscere dal suo valore la vittoria di
Muldfort e la prigionia di Federico d'Austria. Durante l'assenza
dell'imperatore, erasi preso l'assunto di mantenere la pace in Germania
e di proteggere la Baviera; e quando vide i duchi d'Austria disposti a
ricominciare le ostilità, si recò presso di loro e li persuase a deporre
le armi. Dopo averli rappacificati con Luigi, prese a quietare i
movimenti della Germania, e cercò d'ottenere dal papa l'assoluzione
dell'imperatore. Egli non ambiva di accrescere i proprj stati, de' quali
lasciava l'amministrazione a' suoi ministri; egli non aveva vaghezza che
di gloria e di potenza personale; voleva essere l'arbitro ed il
pacificatore dell'Europa, al quale oggetto trovavasi sempre a cavallo
viaggiando da una corte all'altra, nelle quali il suo nobile aspetto, la
sua eloquenza, il suo disinteresse gli assicuravano un credito, quale
non aveva mai avuto alcun uomo prima di lui[223]. Giunto al più alto
grado della sua riputazione, si recò a Trento in sul finire del presente
anno per fare sposare a suo figliuolo l'erede di quello stesso duca di
Carinzia e del Tirolo, ch'era stato suo rivale.
[223] _Schmidt Histoire des Allemands l. VII, c. 6. — Olenschlager
Geschichte des Rom. Kays. in XIV Jahrhund, § 94._
Mentre Giovanni trattenevasi in Trento, ricevette ambasciatori dalla
città di Brescia, che gli offrivano a vita la sovranità del loro stato;
e chiedevangli protezione contro Mastino della Scala con cui erano in
guerra. Brescia, governata dai Guelfi, era stata successivamente
signoreggiata da Filippo di Valois, dal re Roberto e dal legato
Bertrando del Poggetto: ma gli emigrati ghibellini avevano ricorso
all'assistenza del signore di Verona, ed avevano ridotta la patria loro
alle ultime estremità[224].
[224] _Jacobi Malvecii Chron. Brix. Dist. VII, c. 67. — And. Dei
Cronica Sanese, t. XVI, p. 88._
Il re Boemo colse con piacere questa occasione di figurare sopra un
nuovo teatro, e recossi a Brescia l'ultimo giorno di dicembre del 1330;
arringò il popolo dignitosamente; riconciliò le parti, richiamando in
città i fuorusciti; persuase Mastino a ritirare le sue truppe; e parve
che un solo atto della sua volontà avesse renduto ad una città da lungo
tempo infelice, la pace e la prosperità[225].
[225] _Jacob. Malvecius in fine Chron. Brix. p. 1002. — Georg.
Merulæ Hist. Mediol. l. III, p, 119. — Bon. Morigiæ Chron. Modoet.
l. III, c. 43, p. 1160._
I Bergamaschi, vicini ai Bresciani e governati ancor essi dalla fazione
guelfa, furono i primi ad imitarne l'esempio. Giovanni accettò
l'offerta, e mandò un luogotenente a governare Bergamo ed a ricondurvi
la tranquillità[226]. Lo stesso fecero Cremona, Pavia, Vercelli e
Novara[227]; e lo stesso Azzo Visconti, mosso dall'esempio de' suoi
vicini, gli offrì la signoria di Milano, e s'intitolò suo vicario[228].
[226] _Gio. Villani l. X, c. 168._
[227] _Gazata Chron. Regiense t. XVIII, p. 45._
[228] _Georg. Merul. Hist. Mediol. l. III. — Ann. Med. t. XVI, c.
103._
Ma più che tutt'altro paese, aveva bisogno d'un pacificatore la
Lombardia cispadana; perciocchè di là partendo Luigi di Baviera aveva
lasciati soldati nelle principali città, i quali non avevano altro
sostentamento che il saccheggio. Le porte di Parma furono aperte al re
Giovanni dai signori Rossi[229], quelle di Modena e Reggio dai capi
delle famiglie ghibelline. Ogni città imponeva al re la condizione di
non richiamare gli esiliati; ma ogni città vedeva poi con piacere
violato il patto dal re, e riconciliate col richiamo de' fuorusciti le
opposte parti[230].
[229] _Chron. Mutin. t. XV, p. 592. — Gazata t. XVIII, p. 45._
[230] _Bonifazio di Morano Chron. Mutin. t. XI, p, 118 e 125. — Joh.
de Bazano Chron. Mutin. t. XV, p. 593._
In gennajo vennero pure al re Giovanni ambasciatori di Gherardino
Spinola, signore di Lucca. Costui, comperando quel principato, erasi
dato vanto di voler essere in Toscana un secondo Castruccio; ma ebbe
tosto motivo di essere scontento della sua sovranità. Era stato
internamente esposto ad una serie di congiure, mentre al di fuori i
Fiorentini gli facevano un'aspra guerra. Dopo un lungo assedio gli
aveano tolto il castello di Montecatini valorosamente difeso dai
Ghibellini[231]; e fino dal 10 ottobre del 1330 l'armata fiorentina
bloccava la stessa città di Lucca. Quando Spinola seppe che il re
Giovanni aveva accettata Lucca, e che vi spediva i suoi soldati,
abbandonò le città e ritirossi ne' suoi feudi senza che il re gli
restituisse il danaro che aveva sborsato per l'acquisto di quella
signoria[232].
[231] _Gio. Villani l. X, c. 157. — Ist. Pist. p. 459._
[232] _Beverini Ann. Lucens. l. VII, p. 880-884._
I Fiorentini che tenevano innanzi a Lucca una grossa armata, rinforzata
dai soldati ausiliari del re Roberto, dei Sienesi e dei Perugini, e che
lusingavansi di entrare ben tosto in città in conseguenza di un trattato
omai condotto a buon termine col signore e col comune[233], rimasero
sbalorditi quando il giorno 12 di febbrajo gli araldi d'armi del re
Giovanni di Boemia intimarono loro di rispettare il territorio dei
sudditi del loro signore, e li prevennero nello stesso tempo che il re
Giovanni, essendo in pace con tutti gli stati d'Italia, non aveva
accettata la signoria di Lucca che per mettervi l'ordine e la concordia,
e per rappacificarla co' suoi vicini[234].
[233] _Gio. Villani l. X, c. 166._
[234] _Gio. Villani l. X, c. 171. — Cronica Sanese d'And. Dei t. XV,
p. 89._
Giovanni, re di Boemia, che era l'amico, il confidente e l'appoggio di
Luigi di Baviera, era in pari tempo rispettato da Filippo di Valois e da
Giovanni XXII, ed aveva strette relazioni colle corti di Francia e
d'Avignone. In Italia non aveva fatta alcuna differenza dai Guelfi a'
Ghibellini, era stato alternativamente chiamato dagli uni e dagli altri,
aveva trattato con tutti, e gli aveva tutti accarezzati. Se talvolta la
sua riputazione eccitava qualche gelosia, le sue maniere aperte ed
amichevoli dissipavano subito i sospetti, e gli conservavano l'amicizia
delle opposte parti. I soli Fiorentini non lasciaronsi ammaliare da tale
incantesimo: videro che questo monarca, figlio dell'antico loro nemico
Enrico VII, aveva in pochi mesi formata in Italia una potenza colossale;
che non trovando chi gli resistesse, non tarderebbe ad esserne
l'arbitro, ed allora farebbe conoscere qual egoismo s'ascondeva sotto la
presente simulata imparzialità; quale dissimulazione avesse impiegata
per conciliarsi la confidenza di accaniti avversarj; quale ambizione
fosse il vero motivo di tanto zelo pel pubblico bene. Determinarono
perciò di opporsi colle armi ai progressi delle sue conquiste, e
ricusarono di levare l'assedio di Lucca: ma dovettero ben tosto chiamare
la loro armata a difendere i proprj confini, ed alcune scaramucce in Val
di Nievole furono i primi fatti d'arme del re di Boemia in Italia[235].
[235] _Gio. Villani l. X, c. 172. — Istorie Pistol. Anon. p. 461. —
Leonardo Aretino Stor. Fior. l. VI._
La protezione accordata da questo re ai Ghibellini di Modena e di Reggio
contro al legato aveva risvegliata la collera della chiesa, ed i
Fiorentini ricevettero dal papa una lettera che fu letta in presenza di
tutto il popolo, colla quale Giovanni XXII dichiarava di non aver mai
dato il suo assenso o l'approvazione della chiesa al re di Boemia per le
rivoluzioni fatte in Lombardia[236]. Ma seppesi pochi giorni dopo che
questo re aveva avuto tra Bologna e Modena un segreto intertenimento col
legato Bertrando; fu osservato che questi due ambiziosi emuli si
diedero, separandosi, non equivoci segni di amicizia, e più non si
dubitò che non fossero essi convenuti di dividere tra di loro il dominio
dell'Italia[237]. Sotto il nome del partito guelfo il cardinale si
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