Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 05 (of 16) - 10

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andava formando un principato, di cui Bologna stata sarebbe la capitale.
Di già comprendeva la maggior parte delle città di Romagna: lo stesso
anno aveva tolto Rimini ai Malatesta e Forlì agli Ordelaffi, non avendo
lasciati i tiranni che regnavano nelle altre città della stessa
provincia, che dopo averli ridotti alla condizione di vicarj
subalterni[238].
[236] _Gio. Villani l. X, c. 173._
[237] _Istor. Pistor. Anon. t. XI, p. 462. — Gio. Villani l. X, c.
178. — Ghirardacci Stor. di Bologna l. XXI, t. II, p. 99._
[238] _Cronica di Bologna p. 353._
La diffidenza inspirata dal re Giovanni ai Fiorentini e la loro
opposizione fu un avviso dato ai principi d'Europa di aprire gli occhi
sulle intenzioni di questo monarca. Il re Roberto si ristrinse coi
Guelfi, e Luigi di Baviera coi Ghibellini per attaccarlo. Allora fu
veduto con istupore l'imperatore fatto capo di una confederazione nella
quale avevano preso parte i due duchi d'Austria, fin allora mortali
nemici del Bavaro, i conti Palatini, i Margravj della Misnia e di
Brandeburgo ed i re di Polonia e d'Ungheria[239].
[239] _Schmidt Histoire des Allemands l. VII, c. 6. — Epitome rer.
Bohemic. l. III, c. 18. — Olenschlager Geschichte § 97._
Giovanni aveva fatto venire a Parma suo figliuolo Carlo, educato alla
corte di Francia. Quando vide la burrasca ond'era minacciato in
Germania, gli affidò il comando di ottocento cavalli per tenere in
soggezione la Lombardia, e partì subito alla volta della Boemia ove
giunse affatto inaspettato e più che mai opportuno[240]. Trattenne gli
Austriaci che volevano penetrare nella Moravia, riguadagnò interamente
la confidenza di Luigi che ben tosto dimenticava i suoi progetti e la
passata gelosia; poi in cambio di pensare agli apparecchi della futura
campagna, approfittò dell'inverno per andare in Francia, onde negoziare
alla corte di Filippo ed a quella di Giovanni XXII, e proseguire i suoi
nuovi disegni sull'Italia[241].
[240] _Gio. Villani l. X, c. 181._
[241] _Epit. Rer. Boem. l. III, c. 18. — Gio. Villani l. X, c. 195._
I principi ghibellini della Lombardia, che non si erano opposti a
Giovanni, approfittarono di questa circostanza per ingrandirsi a sue
spese. Mastino della Scala ed Azzo Visconti convennero di attaccare le
città ch'eransi a lui assoggettate, prendendo per confine dei rispettivi
loro stati e delle loro conquiste il fiume Oglio[242]. In fatti il
signore di Verona, il 14 giugno del 1332, s'impadronì di Brescia
coll'ajuto dei Guelfi, abbandonando i Ghibellini suoi antichi alleati
alle loro vendette[243]. Azzo Visconti prese Bergamo. Poco dopo i
Ghibellini gli diedero volontariamente Vercelli; e suo zio Giovanni
Visconti con una singolare astuzia lo fece padrone di Novara, di cui
egli era vescovo. Finse Giovanni Visconti d'essere caduto gravemente
infermo, e, secondo l'uso d'Italia, recaronsi a trovarlo i principali
cittadini del paese. Caccino Tornielli, che da una fazione era stato
fatto signore di Novara, essendo pure andato a ritrovarlo, mostrò
Giovanni vivo desiderio d'intertenersi con lui segretamente avanti di
morire, onde il corteggio del principe si ritirò. Allora il vescovo
mostrossi sorpreso dagli affanni dell'infermità, onde Torniello gli
porse le mani per calmarlo, che il finto ammalato prese ambedue con
molta forza, e chiamati i suoi domestici lo fece porre in una prigione,
e cavategli colle minacce le chiavi della città, v'introdusse i soldati
di suo nipote[244].
[242] _Georg. Merulæ Hist. Mediol. l. III. — Gazata Chronic.
Regiense t. XVIII, p. 46._
[243] _Cortus. Ist. l. V, c. 2, p. 856. — Gio. Villani l. X, c. 203.
— Chron. Veron. t. VIII, p. 647._
[244] _Georgii Merulæ Hist. Med. l. III, p, 122._
I signori di Lombardia attaccando il re di Boemia, trovarono d'avere per
loro nemici i nemici del re Roberto e dei Fiorentini. I più ostinati
capi delle parti guelfe e ghibelline facevano la guerra ad un principe,
che dicevasi alleato ad un tempo dell'imperatore e del papa. Il
risentimento delle antiche ingiurie, e perfino l'odio dei repubblicani
contro i tiranni fecero luogo momentaneamente all'interesse immediato; e
si vide con istupore una lega firmata in settembre del 1332 tra i
signori ghibellini di Lombardia, la repubblica fiorentina ed il re di
Napoli. Voleva la salvezza d'Italia che si allontanasse dal suo centro
un principe che aveva fatta coll'imperatore una nuova alleanza, e che
poteva essere tentato di cedere a questo monarca quegli stati che a lui
non convenisse di conservare: voleva la tranquillità d'Italia che si
regolasse la divisione di questi stati fra coloro che facevano la guerra
al Boemo, onde un solo non approfittasse degli sforzi di tutti,
innalzandosi subitamente a troppa grandezza. Era necessario che dopo la
conquista le potenze italiane si trovassero di nuovo in equilibrio, e
che ciascuno, essendo proporzionatamente ingrandito, fosse pure in
istato di difendere la propria indipendenza. Il trattato di divisione
assegnava dunque Cremona e Borgo san Donnino al signore di Milano, Parma
a quello di Verona, Reggio ai Gonzaghi signori di Mantova; Modena al
marchese d'Este signore di Ferrara, e Lucca ai Fiorentini[245].
[245] _Gio. Villani l, X. c. 203. — Hist. Pistol. Anon. t. XI, p.
462. — Leonar. Aretin. l. VI._
Sebbene Pavia non fosse compresa in questa divisione, fu la prima a
scacciare la guarnigione del re. I Beccaria, capi in questa città del
partito ghibellino, se ne fecero riconoscere signori sotto la protezione
di Azzo Visconti[246]. Negli stati di Modena e di Ferrara ove cominciò
la guerra nello stesso tempo, i confederati ebbero la peggio, ed il
territorio di Ferrara fu abbandonato al saccheggio dal principe Carlo di
Boemia[247].
[246] _Gazeta Chron. Regiense t. XVIII, p. 47. — Gio. Villani l. X,
c. 210._
[247] _Gio. Villani l. X, c. 209. — Ist. Pistol. p. 464._
Il re Giovanni trovavasi a Parigi mentre suo figlio combatteva in
Italia, ed aveva colà resa più intima la sua alleanza colla casa di
Francia, facendo sposare sua figliuola all'erede della corona, Giovanni,
figliuolo di Filippo VI[248]. Il re di Boemia andò in seguito a trovare
il papa in Avignone, sebbene questa città appartenesse al re Roberto,
suo principal nemico. Al primo vederlo il papa non si contenne dal
rimproverargli le sue imprese d'Italia: ma avendo un amore veramente
paterno per il cardinale Bertrando, vedeva nel re Boemo l'alleato del
cardinale ed il nemico de' capi ghibellini di Lombardia, perlocchè diede
favorevole udienza alla sua apologia, l'accolse con amore, e, dopo
quindici giorni di segrete conferenze, gli promise tutto il favore della
chiesa, e lo licenziò colmo di onori[249].
[248] Questa figlia, detta Bonna o Gutha, del quale vocabolo si fece
Giuditta, era stata prima promessa a Locktech figlio del re di
Polonia, poi a Federico, marchese di Misnia; indi al figlio del
conte di Bar, in appresso al figlio di Luigi di Baviera, finalmente
ad Ottone, duca d'Austria. Dopo cinque contratti di matrimonio rotti
dall'incostanza del padre, Gutha sempre vergine, e bellissima, entrò
per ultimo nella casa di Francia. _Epitome Rer. Bohemic. l. III, c.
18, p. 336._
[249] _Gio. Villani l. X, c. 211._
Da Avignone Giovanni tornò a Parigi per adunare i soldati promessi dal
re di Francia, ed in gennajo del 1333 giunse a Torino con un'armata
composta dal fiore della cavalleria francese. Filippo di Valois gli
aveva prestati cento mila fiorini per montare questa truppa[250]. Il
legato, sapendolo vicino, riprese coraggio, e attaccò di nuovo il
Ferrarese; ruppe il 6 di febbrajo e fece prigioniere a Consandoli il
marchese Nicolò d'Este, dopo il qual fatto intraprese l'assedio di
Ferrara[251]. Ma l'armata della lega, che si era lentamente adunata,
venne introdotta nella città assediata, prima che il legato ne avesse
circostanziati avvisi; questa facendo un'impetuosa sortita dalla porta
opposta a quella per cui era entrata, ruppe il 14 aprile del 1333
l'armata della chiesa, che aveva già ricevuto il rinforzo di sei cento
cavalli di Linguadocca, comandati dal conte d'Armagnac, che fu fatto
prigioniere con molti altri gentiluomini bolognesi, varj signori di
Romagna, ed alcune migliaja di soldati[252].
[250] _Gio. Villani l. X, c. 213._
[251] _Ivi, c. 215. — Leonardo Aretino l. VI._
[252] _Gio. Villani l. X, c. 217._
I marchesi d'Este speravano di cambiare il conte d'Armagnac contro il
loro fratello caduto in mano de' nemici nel fatto di Consandoli; ma il
borioso Guascone pretese avere sortiti più illustri natali del marchese
di Ferrara, e non volle essere cambiato contro di lui[253]. I signori
Romagnuoli avendo chiesti al legato alcuni sussidj pecuniarj per
liberarsi dalla prigionia, ed essendo stati loro negati, ne furono
fieramente irritati, onde i capi della lega li rilasciarono tutti senza
taglia con circa due mila loro vassalli e compatriotti[254]. Per lo che
questi signori, entrando in Romagna, sollevarono i popoli. Francesco
degli Ordelaffi entrato in Forlì il 19 di settembre, nascosto entro un
carro di fieno, adunò in sua casa i suoi amici ed antichi servitori, ed
attaccò alla loro testa la guarnigione guascona del cardinale, e
scacciatala di città, ricuperò in tal modo la perduta sovranità. Il
Malatesta presentossi il 22 di settembre innanzi a Rimini con duecento
cavalli e gli furono aperte le porte dai suoi partigiani. Quasi nello
stesso tempo si ribellò Cesena; ed Ostasio e Ramberto da Polenta
sommossero Cervia e Ravenna. In una parola tutta la Romagna era
sossopra; ed il re Boemo, chiamato a Bologna dal Legato, invece di
calmare queste rivoluzioni, accresceva colla sua presenza il malcontento
de' Bolognesi, e li disponeva a tentare qualche novità contro la
chiesa[255].
[253] _Istorie Pistolesi p. 466._
[254] _Gazata Chron. Regien. p. 48. — Ghirardacci Stor. di Bologna
t. II, l. XXI._
[255] _Gio. Villani l. X, c. 226. — Annales Cœsenat. t. XIV, p. 1154.
— Cron. Rimin. t. XV, p, 899. — Ghirardacci Storia di Bologna t. II, l.
XXI._
Quando il re Giovanni si accorse che il legato era entrato di lui in
sospetto, lasciò Bologna per tornare a Parma. Andò pure due volte a
Lucca per levarvi una contribuzione, e per calmare una sedizione
eccitata dai figli di Castruccio. Volle in quest'occasione che i
Lucchesi gli giurassero individualmente fedeltà, per il quale atto
conobbe che i cittadini atti alle armi non erano che quattro mila
quattrocento cinquantotto; la guerra e la tirannide avevano spopolata
questa un tempo così fiorente città[256]. Intanto Giovanni rifletteva
dispettosamente alla sua mutata fortuna in Italia: tutti i popoli
diffidavano di ogni suo movimento; ogni giorno aveva avviso di nuove
perdite de' suoi alleati, o di ribellioni de' suoi sudditi: e quelli che
conservavansi fedeli, non erano fra loro vincolati da verun interesse,
nè il suo partito era animato da uno stesso spirito. In conseguenza di
tali osservazioni, prese bruscamente la risoluzione di abbandonare i
suoi stati d'Italia dopo averne raccolto tutto il danaro che potrebbe
cavarne. Entrò dunque in trattato coi capi di parte di ogni città per
ceder loro il principato; e vendette ai Rossi, nobili parmigiani, le
città di Parma e di Lucca per trentacinque mila fiorini, Reggio alla
casa di Fogliano, Modena a quella de' Pii, e Cremona a Ponzino Ponzoni.
Allora riuniti i suoi soldati tedeschi in un corpo, mandò suo figlio a
governare la Boemia, ed egli tornò a Parigi per vaghezza di farsi
distinguere ne' festini e ne' tornei. Abbandonò l'Italia il 15 ottobre
del 1333, dopo avervi esercitata per tre anni una influenza, cui non
sembrava chiamato dalla posizione de' suoi stati[257].
[256] _Beverini Annales Lucens. l. VII, p. 886._ Non eranvi a
quest'epoca più di trecento novantacinque famiglie che avessero il
diritto di cittadinanza, e soltanto quarantaquattro di queste non
erano ancora estinte al tempo del Beverini.
[257] _Gio. Villani l. X, c. 226._


CAPITOLO XXXIII.
_Mastino della Scala s'innalza sopra le ruine del re di Boemia e
del Legato Bertrando del Poggetto. — Viene abbassato dalle
repubbliche di Fiorenza e di Venezia._
1333 = 1338.

Il vocabolo di Guelfo e di Ghibellino agitava ancora l'Europa dopo
l'origine di quelle famose fazioni. Le abbiamo vedute passare dalla
Germania in Lombardia ai tempi delle guerre civili tra Lotario III e
Corrado II. Allora i Guelfi erano in pari tempo i difensori della chiesa
e dei privilegi del popolo, mentre i Ghibellini erano i campioni delle
prerogative dell'imperatore e della nobiltà. Le due fazioni vantavansi
egualmente amiche della libertà e ne invocavano il nome, ma ne cercavano
la guarenzia per due opposte strade; la prima voleva consolidare le
costituzioni delle città, gli altri mantenere quelle dell'impero.
Accordando loro intenzioni egualmente liberali, ci siamo preferibilmente
attaccati prima ai Guelfi quando nel dodicesimo secolo opposero a
Federico Barbarossa una generosa opposizione; in seguito ai Ghibellini
quando nel tredicesimo secolo difesero con tanta fermezza gli eroici
principj della casa di Svevia contro i pontefici impegnati a
distruggerli. Forse mi verrà chiesto per quale parte desidero
interessare i miei lettori nella prima metà del quattordicesimo secolo,
e sono obbligato di confessare la mia trista imparzialità. Per lo
storico contemporaneo è un merito quello di non ascoltare le passioni
che tuttavia si agitano intorno a lui e di giudicare con severa
imparzialità; ma quando que' popoli più non esistono o sono spente le
fazioni, quando veruno interesse presente non può dipendere da dispute
già abbandonate, solo la giustizia e la virtù ci guidano nella scelta, e
lo storico ed il lettore sono dolenti se debbono rimanere imparziali. I
nomi di Guelfo e di Ghibellino omai più non erano nella prima metà del
quattordicesimo secolo che un'eredità di antico odio. I figli si
facevano la guerra perchè i loro padri eransi combattuti, perchè
rimanevano delle antiche offese da vendicare e del sangue da lavarsi col
sangue. Questi odj sonosi spenti, le famiglie rivali o più non esistono
o più non rammentano le antiche offese; e la storia delle loro contese
non offre da ambe le parti che delitti e violenze. I Guelfi alleati de'
Francesi non sapevano meglio mantenere l'indipendenza d'Italia, di
quello che si facessero i Ghibellini alleati de' Tedeschi. Ogni fazione
contavasi un numero press'a poco eguale di tiranni e di repubbliche. I
marchesi d'Este a Ferrara, i Carrara a Padova, a Parma i Rossi, ed i
Malatesta a Rimini appartenevano al partito guelfo. La sorte, gli è
vero, fece sorgere più grandi uomini tra le famiglie ghibelline. Più
tardi la potenza degli Scala e dei Visconti associò il timore della
tirannide al nome della parte ghibellina. In sul finire dello stesso
secolo vedremo questa lunga lotta assumere un carattere più nobile, e
confondersi con quella dei repubblicani contro il despotismo. Fiorenza,
che stava alla testa del partito guelfo, associò ben tosto alla difesa
di questo partito la difesa della libertà ed illustrò colle sue virtù
una causa che più non era raccomandata dal nome de' papi e
dall'interesse della chiesa.
I Fiorentini, dopo essere stati due volte spaventati dalla discesa in
Italia di Luigi di Baviera e dalla subita grandezza del re Giovanni di
Boemia, credevano di più non aver nulla a temere. Erano ancora, a dir
vero, impegnati in una guerra; ma l'avevano incominciata spontaneamente,
sperando di accrescere lo stato con facili conquiste. I nemici da loro
attaccati non potevano diventare pericolosi, ed era inevitabile e
prossima la loro caduta. Tranne la sola città di Lucca, che avevano
preso a sottomettere colle armi, tutto il rimanente della Toscana
domandava loro alleanza. I Pisani erano indeboliti dalle fazioni tra i
soldati ed il popolo, ed avevano scelto arbitro il vescovo di Fiorenza
onde terminare coi Sienesi una guerra, nella quale avevano presa parte
per il possedimento di Massa di Maremma. Gli Aretini vivevano tranquilli
sotto il governo di Pietro Saccone de' Tarlati. Erano strettamente
legate con Fiorenza pel comune interesse della parte guelfa le
repubbliche di Perugia e di Siena; mentre le più piccole città di
Pistoja, Volterra, Colle e san Gemignano erano piuttosto suddite che
alleate della signoria di Fiorenza. In mezzo a tanta prosperità i
Fiorentini si abbandonavano alla loro inclinazione pei piaceri. Due
compagnie d'artigiani diedero tutto un mese feste e spettacoli nelle
strade. Talora vedevansi scorrere la città in abito uniforme col capo
coronato di ghirlande di fiori, e un'allegra musica dirigeva i loro
misurati passi; altra volta si disputavano nelle pubbliche piazze il
premio delle giostre e de' tornei; finalmente intrattenevano spesso il
popolo cogli spettacoli, ne' quali la pittura, la poesia, la musica
dovevano parlare insieme all'immaginazione e preparare da lontano il
risorgimento del teatro. E per tal modo si andava sviluppando quello
squisito gusto delle arti, quel genio creatore che doveva sollevare i
Fiorentini tanto al di sopra degli altri popoli d'Italia[258].
[258] _Gio. Villani l. X, c. 218._
Ma ben tosto tenne dietro a queste feste una grande calamità: il primo
di novembre del 1333 cominciò a piovere con tanta furia, sia in
Fiorenza, come in tutte le valli dell'Appennino che tributano le loro
acque nell'Arno, che le cataratte dei cieli parvero aperte ed il popolo
nuovamente minacciato da un generale diluvio. Onde tutta la gente vivea
in grande paura suonando al continuo per la città tutte le campane delle
chiese, infino che non alzò l'acqua, e in ciascuna casa bacini o pajuoli
con grande strida gridando a Dio _misericordia, misericordia_, per le
genti che erano in pericolo, e fuggendo le genti di casa in casa e di
tetto in tetto, facendo ponti da casa in casa, onde era sì grande il
rumore e 'l tumulto che appena si poteva udire il suono del tuono. Per
la detta pioggia il fiume d'Arno crebbe in tanta abbondanza d'acqua, che
prima onde si muove scendendo dell'Alpi con grandi ruine ed impeto sì
che sommerse molto del piano di Casentino; e poi tutto il piano d'Arezzo
e di Valdarno di sopra, per modo che tutto il coperse d'acqua. La Sieve
soverchiò le sponde con non minore violenza ed allagò tutto Mugello.
Ogni piccolo ruscello che metteva nell'Arno sembrava un gran fiume.
Tutti i mulini, tutte le case fabbricate lungo i fiumi, tutti gli alberi
piantati sulle loro rive furono sradicati e strascinati dall'impeto
dell'acque. Le acque che già sollevavansi otto in dieci braccia al di
sopra dei piani, urtavano con istraordinaria forza contro le mura di
Fiorenza. Finalmente il quarto giorno atterrarono il muro ed entrarono
in città per il _corso de' Tintori_ dopo aver fatta nel muro una breccia
larga cento braccia. In pari tempo caddero tre dei quattro ponti che
attraversavano l'Arno: l'acqua inondava tutta la città, e molte case
scosse dall'impeto delle acque caddero sepellendo gli abitanti sotto le
loro ruine, e quelle che rimanevano in piedi erano riempite da una
fetida melma. I magazzini di questa ricca città mercantile furono quasi
tutti distrutti dalle acque. Incalcolabile fu il danno de' privati, e
quello che cadde a carico del governo sorpassò due cento cinquanta mila
fiorini. Finalmente le acque alzandosi sempre più in città, le mura non
ne sostennero il peso, e nella notte del 5 al 6 novembre cadde la
muraglia d'Ogni Santi, e per la fatta breccia di quattrocento cinquanta
braccia l'acqua scolò verso pian d'Arno di sotto.
Tutta la Toscana fu ruinata da così terribile allagamento, i piani
vennero coperti dalle acque, le colline e le montagne spogliate del loro
terreno; molti villaggi furono affatto distrutti dalla violenza de'
torrenti, e tutti i seminati perduti. Pisa, situata in più basso luogo
di Fiorenza, trovandosi circondata da un ampio lago, non si sottrasse a
più grande infortunio che per la nuova strada che le acque si aprirono
al di sotto della città: una metà si rovesciò nell'Arnaccio e venne a
sboccare presso Livorno, mentre l'altra metà si aperse una diritta
strada nel letto del Serchio[259].
[259] _Framm. d'Anon. Pis. t. XXIV, p. 668. — Andrea Dei Cron.
Senese t. XV, p. 92._
Le finanze fiorentine erano rifinite per le immense perdite che lo stato
ed i particolari avevano fatto; i cittadini vedevansi scoraggiati da un
flagello che sembrava un castigo del cielo; la città trovavasi aperta
per due enormi rotture, e le comunicazioni erano chiuse tra un quartiere
e l'altro da case ruinate o interrotte per la caduta de' ponti
principali. Se in tali circostanze un successore di Castruccio avesse
avuta parte della sua audacia o della sua attività, la città di Fiorenza
poteva essere facilmente sorpresa. Ma i signori ai quali il re di Boemia
aveva venduti i suoi stati, erano occupati a difendere il proprio, non
che pensassero ad occupare quel d'altri; e gli stessi pericoli della
loro posizione non permettevano loro di pensare ad imprese che avrebbero
potuto liberarli dalle presenti angustie. In settembre avevano fatto un
trattato d'alleanza col cardinale Bertrando del Poggetto. I signori di
Parma, Lucca, Reggio, Modena e Cremona ed il legato eransi
vicendevolmente obbligati a difendersi contro i limitrofi nemici[260].
Ma il legato, capo di questa confederazione, più non comandava allo
spirito di partito, non era più l'arbitro di quell'antica potenza di
opinione che lo aveva per sì lungo tempo secondato in Italia. Tutti gli
occhi erano aperti su gl'interessati motivi della sua condotta; gli
entusiasti si erano disingannati; i popoli sospiravano l'istante di
scuotere il giogo; la Romagna era sollevata, ed il malcontento de'
Bolognesi andava ogni giorno facendosi maggiore.
[260] _Gazata Chron. Regiense t. XVIII, p. 48._
Bertrando del Poggetto, gettando in Bologna i fondamenti di una
fortezza, col di cui mezzo tenersi la città soggetta, aveva adoperata
l'astuzia perchè il popolo non si opponesse alla sua costruzione. Andava
dicendo che il papa, stanco del soggiorno d'Avignone, pensava di tornare
in Italia, onde fabbricava per lui questo palazzo; ma quando i muri
cominciarono ad essere capaci di difesa, vi alloggiò i suoi soldati di
Linguadocca ed aggravò il giogo sopra una repubblica ancora gelosa della
sua libertà.
Due fazioni esistevano da molto tempo in Bologna; una, che da principio
aveva favorite le viste del legato, era diretta da Taddeo de' Pepoli, il
più ricco ed ambizioso cittadino della repubblica; l'altra, più
favorevole alla libertà, aveva per capi Brandaligi dei Gozzadini, e
Collazzo di Beccadelli colle loro famiglie. Questi si proposero prima
degli altri di scuotere il giogo che pesava sopra la loro patria, ed in
principio del 1334 concertarono col marchese d'Este, capo dell'armata
della lega, i mezzi di sollevare Bologna.
Il marchese d'Este, dopo essersi impadronito del castello d'Argenta,
spinse la sua armata sopra Cento per obbligare il legato a venirgli
incontro. Di fatti la guarnigione dei Guasconi che teneva in rispetto i
cittadini di Bologna, uscì il 17 marzo per attaccare i Ferraresi. Questo
era l'istante aspettato da Brandaligi e da Collazzo per richiamare il
popolo alla libertà. Vennero sulla piazza del Pretorio colla spada in
mano. «Alle armi, gridarono, cittadini di Bologna, prendete le armi e
seguiteci; finalmente è giunto l'istante in cui il nostro coraggio può
bastare a scuotere il giogo della tirannide. Un'armata straniera
attraversa le vostre campagne; questi soldati, nemici del vostro
tiranno, sono i vostri vindici. Quali preferite voi di combattere? essi,
o i Guasconi che vi opprimono? esporrete voi la vita per vivere schiavi
o per vivere liberi? Armatevi, perchè convien scegliere; armatevi perchè
il tiranno vuole mandarvi contro i Ferraresi, se voi rifiutate di
marciare con noi. Osservate le prigioni ch'egli ha fabbricate nella sua
fortezza, osservate i patiboli innalzati sulle vostre mura; queste, se
vincete con lui, sono le ricompense che vi aspettano. Ma noi, se abbiamo
il vostro appoggio, apriremo al popolo quel palazzo in cui i vostri ed i
nostri padri, ove noi stessi e voi rendemmo liberamente giustizia quando
la repubblica sussisteva nella sua gloria, quando noi non conoscevamo
ancora la cupidigia del prete francese, nè la brutale insolenza e
l'impudicizia de' suoi soldati. Noi, le di cui dimora e famiglie sono
conosciute, le di cui case verranno bruciate e le proprietà confiscate
se siamo perdenti, noi tutto allegramente esponiamo per la libertà: fate
voi lo stesso; voi che arrischiate meno di noi».
Di mezzo alla folla si udì rispondere a questo discorso il grido di
_viva il popolo, muoja il legato, muoja il tiranno iniquo e crudele_. I
Guasconi sparsi per le contrade furono uccisi, gli altri fuggirono verso
la fortezza, abbandonando la guardia delle porte che vennero aperte al
marchese di Ferrara. Il popolo condotto da Colazzo e da Brandaligi diede
un primo assalto a questa fortezza in cui erasi chiuso il legato, e non
essendo riuscito ad atterrarne le porte, o a sormontarne le mura, prese
a farne regolarmente l'assedio[261].
[261] _Mathæi de Griffonibus, Memor. Hist. l. XVIII, p. 150. — Cronica
Miscella di Bologna t. XVIII, p. 358. — Cherub. Ghirardacci Stor. di
Bologna l. XXI. — Gazata Chron. Regiense p. 49. — Annal. Cœsenat. t.
XIV, p. 1158. — Istorie Pistolesi t. XI, p. 467._
I Fiorentini, avuto avviso dello stato in cui trovavasi il legato,
mandarono a Bologna quattro ambasciatori e trecento cavalli per prendere
il prelato sotto la loro protezione. Bertrando del Poggetto, quale
signore di Bologna, era stato loro nemico; ma quando conobbero il suo
pericolo, non lo risguardarono sott'altro aspetto che di rappresentante
della chiesa. Gli ambasciatori trattarono con lui e col popolo che lo
assediava; il legato abbandonò di buon grado la sua fortezza che non
poteva lungo tempo difendere, e che, abbandonata ai Bolognesi, fu dal
popolo immediatamente spianata. I Fiorentini coprirono la ritirata del
legato che prese la strada della Toscana co' suoi soldati. La
salvaguardia mandatagli dalla repubblica potè a stento salvarlo dalla
rabbia degli abitanti della campagna che si affollavano lungo la strada,
e volevano vendicarsi della sua lunga tirannia[262].
[262] _Gio. Villani l. XI, c. 6. — Leon. Aretino l. VI._
Bertrando trovò a Firenze un'ospitalità che avrebbe dovuto fargli
dimenticare il suo precedente malcontento contro la repubblica: pure si
pretende che giunto in Avignone adoperasse ogni mezzo per ridurre il
papa, suo zio, a far vendetta di coloro che gli avevano salvata la vita;
ma il regno di Giovanni XXII non durò ancora tanto, perchè Bertrando,
valendosi del credito che aveva grandissimo presso il pontefice, potesse
far pentire i Fiorentini della protezione che gli avevano accordata.
Giovanni XXII morì in Avignone il 4 dicembre del 1334, dopo un lungo
regno, durante il quale aveva scandalizzata tutta la cristianità. Tale
era stata la sua avarizia, che lasciò, morendo, un tesoro di dieciotto
milioni di fiorini in danaro, e di sette milioni in gioje ed in vasi di
chiesa[263]: aveva raccolte tante ricchezze colla riserva de' beneficj
vacanti in tutti i paesi cristiani de' quali percepiva i primi frutti.
Fu questo papa che attribuì alla santa sede il diritto esercitato prima
dalle chiese di nominare esse medesime i proprj pastori; e la simonia
che presiedeva a queste elezioni eccitò l'universale malcontento. Ma la
condotta del papa in Italia, la perfidia e la crudeltà de' suoi agenti
per conseguire gli ambiziosi loro fini, accrescevano a dismisura
l'indignazione dei popoli. La persecuzione di Luigi di Baviera aveva
stomacata tutta la Germania, ed un grido universale si alzava contro
tante ingiustizie e parzialità; quando finalmente per mettere il colmo
allo scontentamento della chiesa, la stessa fede del papa cadde in
sospetto d'eresia ed i devoti unirono le loro imprecazioni alla furia
de' mondani contro di lui.
[263] Il fratello dello storico Villani, banchiere del papa in
Avignone, fu con altri impiegato a numerare questo tesoro. _Gio.
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