Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 05 (of 16) - 13

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stesso Lucchino venne in potere de' nemici. Mentre durava la battaglia,
un'altra colonna di settecento cavalieri tutti italiani era uscita di
Milano sotto la condotta d'Ettore da Panigo, ed entrata in Parabiago,
aveva sorpresi e tagliati in pezzi i quattrocento cavalieri lasciati da
Lodrisio a guardare il castello, e si era ingrossata coi prigionieri che
aveva liberati. Di là marciò verso Nerviano, e giunse sul campo di
battaglia mentre lo truppe di Lucchino di già rotte si difendevano
ancora debolmente. Ettore da Panigo piomba su la compagnia rifinita
dalla fatica di due battaglie e disordinata dalla caccia data al vinti,
fa un orribile macello di questi avventurieri; libera Lucchino e fa
Lodrisio prigioniero.
In una sola giornata la compagnia aveva ottenute due vittorie, e due ne
aveva pure ottenute il conte da Panigo suo avversario. Questi ricondusse
allora le vittoriose sue truppe verso Milano. Al passaggio dell'Olona
incontrò il capitano tedesco Malerba che da Lodrisio era stato posto
alla custodia di quel fiume per tagliare la ritirata ai fuggitivi. Fu
anche questi disfatto dopo un ostinato combattimento che fu il quinto di
questo giorno e pose fine alla battaglia di Parabiago distruggendo la
compagnia di san Giorgio. Questa rapida campagna, terminata in meno di
venti giorni, richiamò a sè gli sguardi di tutta l'Italia: l'incredibile
accanimento con cui aveano combattuto i mercenarj in quest'occasione,
nella quale portavano le armi contro l'intera società, ispirava tanto
maggiore spavento, in quanto che si paragonava alla mollezza con cui
sostenevano le altre guerre. La spedizione di Parabiago disvelò il loro
segreto.
Si osservò che le loro ordinarie battaglie non erano che un trastullo
nel quale cercavano di guadagnare la paga col minor sangue e fatica
possibile; ma che non facevan uso di tutte le loro forze, che quando le
destinavano alla sovversione dell'ordine sociale. Più di quattro mila
cavalieri delle due armate erano rimasti sul campo di battaglia[324]:
assai maggiori erano i morti dell'infanteria. I soli Milanesi avevano
perduti più di cinquecento cavalieri e di tre mila fanti[325]. Lodrisio
Visconti ed i due suoi figliuoli furono chiusi nelle prigioni di Milano.
Si rimandarono senza taglia gli altri prigionieri dopo aver loro tolti i
cavalli e le armi e avuta da loro la promessa che più non servirebbero
contro i Visconti. Non si sarebbero potuti ritenere senza condannarli ad
una perpetua prigionia, perchè veruna potenza sarebbesi curata di
comperare la loro libertà[326].
[324] _Cortusior. Hist. l. VII, c. 20._
[325] _Gio. Villani l. XI, c. 96._
[326] _Chron. Modoet. l. IV, c. 2. — Galvan. Flamma Opuscula t. XII,
p. 1022. — Istor. Pistol. Ann. t. XI, p. 475._
Sebbene la guerra di Parabiago togliesse al Visconti alcune migliaja di
soldati, aveva non pertanto accresciuta la sua riputazione e la sua
potenza. Era a quest'epoca sovrano di dieci città lombarde prima
indipendenti[327], senza contare Pavia di cui ne divideva il dominio
colla casa Beccaria. Cercava occasione d'acquistare qualche diritto in
Toscana, onde aprirvi una nuova carriera alle sue pratiche ed alla sua
ambizione; nè dovette aspettarne lungo tempo l'occasione: sua madre
Beatrice d'Este aveva avuto dal suo primo marito, il giudice Nino di
Gallura, una unica figliuola detta Giovanna, sorella uterina d'Azzo
Visconti; la quale morì ed era l'ultima erede dei Visconti di Pisa,
signori di una parte della Sardegna. Azzo presentossi subito per
raccogliere l'eredità di quest'illustre famiglia; chiese ed ottenne la
cittadinanza pisana, entrò in possesso dei beni di sua sorella, e per
far comprendere che le sue pretensioni stendevansi altresì sul terzo
della Sardegna, che gli Arragonesi avevano tolta ai giudici di Gallura,
inquartò i suoi stemmi coi loro[328]. I Pisani desideravano ardentemente
la sua alleanza, e le loro forze riunite avrebbero potuto togliere agli
Arragonesi quest'isola, sulla quale i Pisani avevano così giusti
diritti, ed il di cui possesso era tanto necessario alla sua potenza
marittima. Ma Azzo Visconti fu colpito dalla morte nel colmo delle sue
prosperità e de' suoi vasti progetti. Spirò il 16 agosto del 1339 nella
fresca età di 37 anni[329]; e perchè non lasciava figliuoli maschi, i
suoi due zii, Giovanni, vescovo di Novara, e Lucchino, ambedue figliuoli
di Matteo, furono dall'elezione della nobiltà e del popolo chiamati
insieme alla sovranità di Milano[330]. Il primo rassegnò ben tosto al
fratello la parte della sua signoria, per sollecitare l'investitura del
vacante arcivescovado di Milano, che ottenne dalla corte d'Avignone
contro il pagamento di cinquanta mila fiorini, e la riserva di dieci
mila fiorini di rendita[331].
[327] Milano, Como, Vercelli, Lodi, Piacenza, Cremona, Borgo san
Donnino, Bergamo e Brescia.
[328] _Galvan. de la Flamma Opusc. de Gestis Vicecomitum t. XII, c.
1028._
[329] _Gio. Villani l. XI, c. 100._
[330] _Galv. de la Flam. Opusc. p. 1030._
[331] _Gio. Villani l. XI, c. 100._
Fu pure quest'anno memorabile per una importante rivoluzione nella
repubblica di Genova. Dopo liberata dall'assedio, ci siamo limitati,
rispetto a questa città, d'indicare sommariamente gli avvenimenti della
guerra civile che laceravano questa repubblica: indebolita da continue
zuffe, non impiegava nelle sue guerre intestine tali forze che richiamar
potessero l'attenzione dell'Italia. Ma le nuove fazioni, che si
manifestarono nel presente anno, meritano di essere più
circostanziatamente descritte, poichè produssero nel governo della
repubblica un durevole cambiamento, che forma epoca nella sua storia.
Era questo il tempo in cui Filippo di Valois sosteneva contro gl'Inglesi
una ruinosa guerra. L'anno 1338 aveva prese al suo servigio venti galere
armate dai Guelfi di Monaco e venti armate dai Ghibellini genovesi.
Queste quaranta galere passarono in Francia sotto il comando d'Antonio
Doria. I marinai genovesi dopo un anno di servigio lagnaronsi che questo
ammiraglio loro non pagasse l'intero soldo. In una sedizione, ch'ebbe
luogo sopra le galere, furono scacciati il Doria ed i suoi capitani, ed
i marinai nominarono altri ufficiali[332]. Il re di Francia si dichiarò
a favore dell'ammiraglio; fece porre in prigione Pietro Capurro di
Valtaggio risguardato quale capo dei sediziosi e quindici suoi compagni.
La subordinazione si ristabilì sulla flotta, ma fu abbandonata da
moltissimi marinai, che tornarono alla loro patria lagnandosi
dell'ammiraglio.
[332] _Georg. Stellae Ann. Genuens. t. XVII, p. 1071._
Al loro arrivo questi uomini inquieti trovarono molti concittadini mal
disposti contro gli Spinola, i Doria, i Fieschi ed i Grimaldi. Da oltre
sessant'anni queste quattro grandi famiglie avevano scossa la repubblica
colle loro rivalità. A vicenda vittoriose o fuggitive, avevano a vicenda
oppressi gli altri nobili ed il popolo. Sembrava che aspirassero ad
assoggettare Genova ad una oligarchia ereditaria; attribuivansi tutte le
funzioni onorevoli sia nella capitale, sia nelle città e castelli che ne
dipendevano, come nelle flotte e nelle armate. Gli abitanti di Valtaggio
presero i primi le armi per difendere o vendicare il loro compatriota
Pietro Capurro, capo de' sediziosi della flotta. Il loro esempio fu
seguìto dagli abitanti delle valli della Polsevera e di Bisagno ed in
ultimo dai cittadini di Savona; nella quale città i sediziosi si
adunarono nella chiesa di san Domenico, ove uno de' loro capi, salito
sulla cattedra dei predicatori, e richiamando alla memoria de' suoi
uditori le ingiurie e l'orgoglio della nobiltà, gli eccitò a scuotere il
giogo di quest'ordine, ed a vendicarsi. «L'arroganza de' nobili è tanto
grande, egli disse, che sdegnansi perfino che il popolo riclami i
diritti guarentiti dalle leggi. Colui che alza gli occhi sopra di loro,
e che ricordandosi d'essere Genovese osa invocare la libertà, viene
strascinato in prigione o punito di morte come un ribelle. Chi dobbiamo
però accusare di una così ingiuriosa oppressione? La nobiltà che
l'impone, o noi che la soffriamo? La nobiltà prima di tutto nulla fece
di nuovo, nulla che non sia conforme alla sua natura: ma noi con una
vergognosa viltà, con una imperdonabile debolezza, noi non impieghiamo
in nostra difesa le armi che d'ogni tempo sono state riservate al
popolo. Non lo sappiamo noi forse, che agli oppressi non rimane che una
risorsa, la sollevazione? E che in questa sola trovano la guarenzia dei
loro diritti? Speriamo noi forse che un giudizio, o procedure giudiziali
ne ridonino i nostri privilegi? Che potremmo noi sperare dai consigli
composti di soli nobili, da tribunali creati da loro, da giuristi che
sviano con tutti i sutterfugi della cavillazione? Il popolo ha egli un
mezzo regolare d'ottenere giustizia quando la domanda contro i suoi
magistrati? Può egli invocare in suo soccorso l'ordine sociale, quando
questo istesso ordine sociale è corrotto? Non temete, cittadini, i
giudizj dei tribunali venduti ai vostri nemici, l'obbrobrio di cui
vorrebbero vedervi coperti, o i supplicj di cui vi minacciano; non
temete i nomi di ribelli e di sediziosi di cui vi caricano; voi
conoscete i vostri diritti, le leggi che devono proteggervi, e ch'essi
violano senza pudore; voi le avete tutte scolpite nella vostra memoria;
queste medesime leggi si sono fatte delle vostre braccia l'ultima
guarenzia[333].»
[333] _Uberti Folietae Genuens. Hist. l. VII._
Gli abitanti di Savona, riscaldati da questo discorso, assediano il
pretorio, ove Odoardo Doria governatore della città erasi rifugiato coi
magistrati e con pochi gentiluomini. Dopo averli costretti ad
arrendersi, li rinchiusero nella fortezza di santa Maria; nominarono
capitani del popolo due plebei, e formarono loro un consiglio di venti
marinai. Marciarono in appresso contro Genova, ove tutto era disposto
per un'eguale rivoluzione che non tardò a scoppiare. La repubblica era
governata da due capitani di parte ghibellina, un Doria ed uno Spinola,
i quali avevano spogliato il popolo dell'elezione del suo Abate,
magistrato che come i tribuni di Roma era specialmente incaricato della
protezione e della difesa de' plebei. I malcontenti di Genova, tosto che
videro arrivare in loro soccorso gli ammutinati di Savona, domandarono
che fosse loro restituito il diritto d'eleggere il magistrato del
popolo; ed il governo riconobbe la giustizia di questa domanda.
Venti plebei scelti dai loro concittadini per l'elezione dell'Abate
adunaronsi in pretorio il 23 settembre del 1339[334]. I capitani, i
nobili ed il popolo riuniti intorno a loro ne aspettavano la decisione;
quando un uomo oscuro, alzando la voce, propose di nominare alla vacante
piazza Simone Boccanigra, uomo attivo e pieno d'esperienza, che a somma
prudenza univa un coraggio a tutte prove, e che sempre aveva protetti i
plebei sebbene appartenente ad una delle più antiche famiglie della
nobiltà. Questo nome venne ripetuto con entusiasmo; il popolo unendo la
sua voce a quella degli elettori proclama il nuovo Abate che malgrado la
sua resistenza fu costretto a sedersi tra i due capitani del popolo, e
gli fu posta in mano la spada del comando.
[334] _Georgii Stellae Annal. Gen. p. 1072._
Quando Boccanigra potè ottenere un istante di silenzio, disse: «Io
sento, cittadini, tutta la riconoscenza ch'io debbo a tanto zelo, a
tanta benevolenza; ma il titolo che voi mi date, non era ancora entrato
nella mia famiglia, ed io non voglio essere il primo ad introdurvelo.
Accordate dunque, vi prego, quest'onore ad alcun altro cui meglio che a
me si convenga[335].» I cittadini sentirono allora che il titolo di
Abate del popolo non poteva appartenere che ad un plebeo, e che
Boccanigra, che contava un capitano del popolo tra i suoi antenati, non
poteva, senza far loro torto, accettare una così diversa
magistratura[336]. «Siate dunque nostro signore, nostro doge, gridarono
essi; ma siete voi, voi solo che vogliamo riconoscere per nostro
protettore.» I medesimi capitani del popolo, temendo che la rivoluzione
si rendesse più feroce, supplicarono Boccanigra ad accettare la sua
elezione; e perchè il titolo di doge, che per accidente eragli stato
offerto, ricordava il doge di Venezia, capo d'uno stato libero simile a
Genova, la nuova costituzione, stabilita in mezzo ai clamori popolari,
rimase libera e repubblicana: Boccanigra ebbe un consiglio popolare, e
la sua autorità venne limitata dai poteri che si riservò la
nazione[337].
[335] _Georg. Stellae Ann. Genuens. p. 1073. — Ann. Mediol. t. XVI,
c. 11._ Quest'ultimo non è, a dir vero, che un miserabile plagiario
che qui copia verbalmente lo Stella, come in altri luoghi. _Galv.
Flamma e Azario._
[336] Un Guglielmo Boccanigra aveva il primo, del 1257, portato il
titolo di capitano del popolo; e come Simone era stato eletto dalla
fazione democratica. Veggasi nel _tomo III, il cap. 20_.
[337] _Georgii Stellae Annal. Gen. p. 1074._
Boccanigra nel corso de' cinque anni che tenne l'affidatogli potere, ne
usò gloriosamente: con mano vigorosa represse gli eccessi cui il popolo
si abbandonava ne' primi istanti della rivoluzione; trasse di mano ai
sediziosi Rebella Grimaldi, sebbene suo particolare nemico; contenne il
marchese del Carretto e gli altri feudatarj che commettevano frequenti
ladronecci in vicinanza de' loro feudi; assoggettò ai magistrati della
repubblica le fortezze tutte ed i castelli delle due riviere, tranne
Monaco, difeso dai Grimaldi, e Ventimiglia in cui si erano uniti i capi
delle quattro grandi famiglie[338]. E la sua amministrazione fu pure
illustrata da alcune vittorie ottenute dalle flotte della repubblica sui
Turchi nel mar nero, sui Tartari presso Caffa, ed in Ispagna sui
Mori[339].
[338] _Ubertus Folieta Genuens. Hist. l. VII._
[339] _Ivi. — Georgii Stellæ An. Gen. p. 1076._
Peraltro dovette lottare incessantemente contro gl'intrighi delle
quattro potenti famiglie escluse dal governo; le quali avevano
dimenticate le vicendevoli nimistà ed i nomi di Guelfi e di Ghibellini,
che le tennero tanti anni divise, per collegarsi contro di lui; ed
unitesi in Venti miglia mossero guerra alla repubblica ed al suo
capo[340]. Vedremo altrove il Boccanigra, stanco di così lunga guerra,
deporre spontaneamente il comando, e lasciare in altrui mano la cura di
proteggere il popolo contro la nobiltà.
[340] _Uberti Folietæ Gen. Hist. l. VII._
E per tal modo gli stati d'Italia o monarchici o repubblicani andavano
perdendo per le interne loro convulsioni i vantaggi dell'ordine sociale;
verun riposo compensava sotto il governo dei principi la perdita della
libertà; nelle repubbliche veruna stabile amministrazione rassicurava
dai timori d'un tempestoso avvenire. Ogni anno un'improvvisa rivoluzione
precipitava dal suo trono un principe italiano, o in una città libera
privava un partito dell'autorità che godeva. Masnadieri riuniti in
regolari corpi d'armata movevano guerra ai sovrani, e ne minacciavano
l'esistenza; avventurieri, scesi in Italia dalla Francia e dalla
Germania, innalzavano rapidamente grandiosi edificj di nuovi potentati
che venivano rapidamente distrutti. Siamo perciò costretti di presentare
ai nostri lettori, come sopra una mobile scena, nuovi stati e nuovi
personaggi che si premono e incalzano e distruggono gli uni gli altri,
senza dar tempo di fissare sopra di loro lo sguardo. Non è da dubitarsi
che i popoli soffrissero per questa instabilità d'istituzioni, ma i loro
patimenti ci pajono ancora più grandi di quel che lo fossero realmente,
perchè nella narrazione storica gli avvenimenti lontani si vanno gli uni
sugli altri ammucchiando. Era l'Italia più tosto agitata che infelice; e
lo sforzo energico e costante di tutti i cittadini rialzava la fortuna
nazionale abbattuta da ogni pubblica calamità: la piccolezza degli stati
favoreggiava la fuga de' proscritti, cui prestava facile asilo la
gelosia de' sovrani, e conforto nel loro esilio la speranza di non
lontana vendetta. Quell'attività di spirito, quella energia di
carattere, quella fermezza di volontà, di cui i moderni tempi non ci
offrono verun esempio, erano per l'intera popolazione il risultato d'una
vita agitata. L'uomo non può giungere alla grandezza, cui fu destinato
dalla divinità, finchè ogni individuo non si risguarda come un essere
indipendente, e come una potenza isolata rimpetto agli altri. Guasto è
l'ordine sociale e degradata l'umana natura, quando ogni uomo cessa
d'essere lo scopo della sua propria esistenza, e non è che un mezzo
impiegato dal sovrano per soddisfare alla propria ambizione.
Passioni più violenti di quelle della presente età strascinavano gli
uomini nei pubblici affari: ma al potere politico non andava congiunta
molta celebrità; e nell'agitamento d'una vita tanto attiva, più che la
vanità, era soddisfatta l'ambizione. Il magistrato d'una repubblica, il
ministro d'un principe appena potevano sperare di rendersi noti a tutta
l'Italia; e un nome che fosse noto a tutta Europa, non poteva
acquistarsi che colla superiorità dell'ingegno. La considerazione era la
ricompensa accordata ad una vita consacrata al ben pubblico; la gloria
si acquistava soltanto colle lettere; e questa divisione riusciva
egualmente utile all'amministrazione ed alla scienza. La piccolezza
degli stati tanto favorevole alla indipendenza, diminuendo alquanto il
lustro de' principi, dava ai sommi ingegni un rango superiore a quello
de' sovrani.
Era infatti convenevole cosa che a coloro, i quali consacravano allo
studio que' talenti che avrebbero potuto procurar loro le principali
cariche ed il supremo potere dello stato, si accordassero le più
onorevoli ricompense. La lingua era appena formata, ed il capo d'opera
di Dante faceva soltanto conoscere quel che poteva diventare. Non erano
per anco stabilmente fissati i confini tra l'italiano ed il latino
idioma; il primo non aveva ancora la sua grammatica, ed ancora incerto
ne era il carattere. Il Villani, il Boccaccio e Franco Sacchetti
formarono la prosa, e lasciarono eccellenti esemplari d'eleganza, di
chiarezza, d'ingenuità e di gusto, che i susseguenti secoli non
superarono. Cino da Pistoja, Cecco d'Ascoli, Petrarca, Zanobio Strada
crearono, o perfezionarono la poesia lirica; facendo a vicenda parlare
ne' loro versi l'amore, la religione, l'immaginazione e l'entusiasmo;
fissarono per l'Italiano il linguaggio poetico, quel linguaggio
pittorico, ove non sono ammessi vocaboli che non presentino alcuna
immagine. L'antichità era mal conosciuta, e su la terra la più doviziosa
d'ogni altra per antiche memorie, il popolo poteva appena approfittare
dell'esperienza de' passati secoli. Ma Albertino Mussato, Ferreto
Vicentino e Giovanni da Cermenate mostrarono come doveva studiarsi la
lingua de' Romani per possederla come se fosse la propria. Cola da
Rienzo, Petrarca e Boccaccio insegnarono il modo di cercare lo spirito
dell'antichità ne' suoi monumenti e ne' suoi scrittori, di spiegar gli
uni col soccorso degli altri, riunendo in un solo corpo le parti
staccate dell'erudizione classica. Giovanni Calderino e Giovanni Andrea
consacrarono un'erudizione dello stesso genere nell'interpretazione
delle leggi civili e canoniche; Giovanni Gianduno e Marsiglio di Padova
rischiararono coi lumi della filosofia i rapporti che esistono tra
l'autorità civile e l'autorità religiosa; la medicina, la fisica, le
scienze naturali cominciarono in pari tempo ad uscire dalle tenebre che
le avevano affatto ricoperte. Lo zelo dei discepoli era più caldo di
quello de' maestri: ogni città voleva avere un'università, per leggere
nella quale chiamava gli uomini più famosi per dottrina, cercando colle
ricompense e cogli onori, che loro accordava, di soverchiare le città
vicine. A fronte di tanti studi pubblici, nella sola Bologna contavansi
dieci mila scolari che udivano le lezioni de' più illustri professori.
In altro tempo non eransi giammai con tanta passione coltivate le
scienze e le lettere; al merito letterario non era mai stata accordata
così larga ricompensa di gloria, nè così magnifici trionfi ai poeti ed
ai filosofi.
Tra i sommi ingegni, che illustrarono il quattordicesimo secolo, parve
che il Petrarca fosse scelto dai suoi contemporanei per ricevere in nome
di tutti i poeti e di tutti i dotti la più luminosa ricompensa che sia
mai stata accordata al merito letterario. Nel 23 agosto del 1340
ricevette una lettera dal senato di Roma, che lo invitava in quella
capitale del mondo, per ricevervi in Campidoglio la corona d'alloro, che
ne' tempi della romana grandezza accordavasi talvolta ai poeti in
occasione de' giuochi capitolini. La sera dello stesso giorno ebbe
Petrarca una seconda lettera da Roberto de' Bardi Fiorentino,
cancelliere dell'università di Parigi, in allora la più celebre
dell'Europa, che in nome della medesima lo invitava colle più
lusinghiere espressioni a Parigi per esservi egualmente coronato
d'alloro. Francesco Petrarca aveva in allora trentasei anni, e vivea nel
suo tranquillo ritiro di Valchiusa, presso Avignone, quando le due più
grandi città del mondo sembravano disputarsi l'onore di preparargli un
trionfo[341].
[341] _Memorie per la vita del Petrarca dell'ab. de Sade t. I, l.
II, p. 428._
Petrarca, per la sua coronazione, diventò un personaggio affatto degno
di storia: e fu così altamente collocato nell'opinione del suo secolo,
che da qui innanzi lo vedremo pronunciare i suoi oracoli sulla politica
e sulla letteratura; giudicare i pontefici e gl'imperatori, ed ottenere
un rispetto talvolta esagerato da que' medesimi ch'egli condannava.
Notabile fu l'influenza di tanta gloria sopra un carattere pieno di
vanità: Petrarca non cessò mai nella sua carriera politica di essere un
trovatore; e tutti i tiranni d'Italia, lusingando il suo amor proprio,
ottennero da lui ricompensa di bassa adulazione. Alcuni lo impegnarono
in azioni contrarie a' suoi principj ed a' suoi doveri come cittadino di
Fiorenza e come Guelfo[342]. Anche il suo merito letterario medesimo può
essere attaccato. Molti critici accusarono le sue poesie di ricercatezza
e di affettazione; molti osservarono che nelle sue lettere ed altre
opere latine traspare una stentata vanità, mentre in mezzo ai continui
sforzi che fa l'autore per comparire eloquente, non sanno ove trovare i
suoi veri sentimenti e pensieri; per ultimo molti lo accusano in
particolare d'avere guasto il gusto della sua nazione, ritraendo
gl'Italiani dal cercare il vero bello per farli tener dietro a futili
gentilezze, ad apparenti bellezze. Ma per altro costoro devono
confessare che Petrarca fu dotato di talenti tali, di un tal genio, di
cui non possono forse portar essi giudizio; imperciocchè non è possibile
di riscuotere l'ammirazione d'un intero secolo, nè di trasmettere il
proprio nome alle più remote nazioni, e di generazione in generazione
alla posterità, se tali veri o supposti difetti non vengono largamente
compensati da una vera grandezza degna di una gloria così universale e
durevole.
[342] Petrarca non era di nulla debitore alla sua patria, da cui
visse sempre in esilio e che solo assai tardi gli mandò Giovanni
Boccaccio col decreto del suo richiamo. Desiderò la libertà
d'Italia, ma non prese alcuna parte ben decisa nè pel partito
guelfo, nè pel ghibellino.
Era Petrarca figlio di ser Petracco dell'Ancisa, notajo fiorentino,
originario del castello dell'Ancisa posto sulla strada d'Arezzo,
quattordici miglia lontano da Firenze. Ser Petracco era notajo delle
riformagioni[343] quando furono esiliati i Bianchi di Firenze. Bandito
con Dante del 1302, si stabilì in Arezzo, ove nacque Petrarca nella
notte del 19 al 20 luglio del 1304 quasi all'epoca del mal diretto
tentativo fatto dai Bianchi sotto la condotta di Baschiera dei Tosinghi,
per rientrare in Firenze[344].
[343] Così chiamavasi l'archivista delle deliberazioni della
signoria.
[344] Il 22 luglio del 1304. Vedasi nel _tomo IV, il cap. XXVI_. —
_Memorie per la vita del Petrarca t. I, p. 16._
Il nome di Petrarca dato al poeta toscano non è che il nome del padre
alquanto alterato, Petracco, ossia Pietro. Pare che questa famiglia non
avesse ancora nome proprio, come di que' tempi non lo avevano ancora
molte famiglie della plebe. Petrarca incominciò di otto anni a studiare
in Pisa la grammatica; di dove, perduta ogni speranza di rientrare in
patria, suo padre lo trasportò con tutta la famiglia in Avignone
allorchè morì Enrico VII. Avignone, diventata residenza dei papi,
apparteneva in allora al re Roberto; ma il contado limitrofo Venosino
formava da oltre trent'anni parte del dominio della Chiesa. Filippo
l'ardito, re di Francia, aveva ceduta quella piccola provincia alla
chiesa in forza d'un trattato conchiuso nel 1228 tra il papa e Raimondo
VII, conte di Tolosa.
Petrarca trovò a Carpentasso, lontano quattro sole leghe da Avignone, il
precettore toscano Convannole, che gli aveva date le prime lezioni di
grammatica in Pisa[345], e proseguì a studiare sotto di lui pel corso di
cinque anni la grammatica, la dialettica e la rettorica. Di 14 anni fu
mandato a Monpellier per istudiare il diritto; ma ne' quattro anni che
vi si trattenne trascurava lo studio commessogli per leggere Cicerone;
pel quale fino da quell'epoca sentiva una così violenta passione, che
propose di averlo a suo unico esemplare; e in fatti l'imitazione dello
stile ciceroniano fu la cagione principale della sua gloria. Del 1322 fu
dal padre mandato a Bologna per continuarvi lo studio del diritto sotto
il famoso canonista Giovanni Andrea, sotto Giovanni Caldarini ed altri
riputatissimi professori: ma anche in Bologna lo studio de' classici lo
alienavano in modo da quello della giurisprudenza, che suo padre
credette indispensabile un viaggio a quella città per toglierlo a così
gagliarda seduzione, gettando sul fuoco tutti i prediletti suoi
libri[346].
[345] _Memorie di Sade t. I, p. 30._
[346] _Memorie di Sade t. I, p. 44._
Ma in Bologna eranvi di que' tempi, oltre i legisti, altri maestri dai
quali poteva Petrarca ascoltare lezioni al suo gusto più confacenti.
Scelse adunque quelle di Cino da Pistoja e di Cecco d'Ascoli, dopo
Dante, i due più illustri poeti di que' tempi, sebbene fosse il primo
professore di diritto, l'altro di filosofia e di astrologia. L'uno e
l'altro ispirarono a Petrarca il gusto per la poesia lirica italiana
leggendogli le loro poesie ch'egli superò di lunga mano. Del 1327,
sotto il governo del duca di Calabria, il professore d'astrologia
Cecco d'Ascoli, che appunto in tale anno era pure astrologo del
duca, fu abbruciato in Firenze come fattucchiere dal tribunale
dell'Inquisizione[347].
[347] _Gio. Villani l. X, c. 39, p. 625._
Petrarca aveva, del 1325, perduta la madre, cui nel susseguente anno
tenne dietro anche il genitore; onde gli fu forza di lasciare Bologna e
di recarsi in Avignone col fratello Gerardo per raccoglierne la piccola
eredità[348]. I sottili redditi del loro patrimonio consigliarono i due
fratelli ad abbracciare lo stato ecclesiastico; e Petrarca, già
conosciuto per alcune poesie alla corte pontificia, vi fu cortesemente
accolto da alcuni principali signori romani e da alcuni prelati. Era
Petrarca di gentile aspetto, e gagliardamente inclinato a conversare
colle donne, la di cui protezione, in allora potente alla corte
d'Avignone, conduceva facilmente a grandi fortune. Petrarca, volendo
cattivarsene il favore coi versi, fece scelta della lingua italiana;
perfezionando la quale, e dandole maggiore armonia, si acquistò tanta
gloria[349].
[348] _Memorie de Sade, t. I, p. 54._
[349] «Questo dialetto» così parlò l'A. de Sade del maraviglioso
linguaggio di Dante, «questo dialetto era tuttavia assai grossolano,
quando Petrarca si degnò di sceglierlo per le sue poesie.» _Memor.
l. I, p. 80._
La rima formava una parte essenziale della poesia italiana e della
provenzale; e Dante aveva artificiosamente alternate le rime in modo che
si legassero le une alle altre, onde giovare alla memoria di coloro che
canterebbero i suoi versi, senza affaticare l'orecchio con una monotona
consonanza. Petrarca non fu forse di così fino gusto nell'avvicendare le
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