Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 04 (of 16) - 17

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il segno della partenza: ma accortosi in sul fare del giorno che i
Fiorentini si disponevano ad inseguirlo, fece voltar faccia alle sue
truppe, e gli attaccò vigorosamente, quando credevano tutt'altro che
d'essere attaccati. Gli ausiliarj di Siena e di Colle furono subito
sgominati, e la debole loro resistenza lasciò esposta tutta l'armata
fiorentina alla cavalleria tedesca d'Uguccione. Per altro i Fiorentini
resistettero lungamente intorno al principe Filippo, ma finalmente
dovettero anch'essi fuggire disordinati. Pietro, fratello del re
Roberto, e Carlo, figliuolo del principe Filippo, rimasero sul campo di
battaglia, come pure il conte di Battifolle, Blasco d'Alagona,
contestabile dell'armata, e molti altri ragguardevoli personaggi.
Duemila furono i morti in battaglia, e millecinquecento rimasero
prigionieri. Molti de' fuggitivi, volendo porsi in sicuro a Fucecchio,
si annegarono nella Gusciana e nelle paludi di questa pianura sommersa.
Anche Uguccione perdette suo figliuolo Francesco, il nipote del
cardinale di Prato e molti valorosi soldati[312].
[312] _Storie Pistol. anon. t. XI, p. 409. — Gio. Villani l. IX, c.
70. — Leonardo Aret. l. V. — Bern. Marangoni Cron. di Pisa p. 632. —
Monum. Pis. t. XV._
Dopo la rotta de' Fiorentini, Montecatini e Monsummano s'arresero al
vincitore; il quale diede il comando di Lucca al suo secondo figlio
Neri, in luogo del primogenito ucciso; ed egli tornò a Pisa ove fu
ricevuto in trionfo.
Ma le vittorie d'un padrone non indennizzano lungo tempo il popolo della
sua tirannia. La nazione non tardò ad accorgersi che quando la gloria ed
i vantaggi più non possono essere suoi, la vittoria del principe è una
rotta de' cittadini. Onde i patriotti pisani trattarono segretamente con
Castruccio Castracani, perchè questi dal canto suo liberasse Lucca dalla
tirannide d'Uguccione. Castruccio aveva avuto molta parte nella vittoria
di Montecatini; era risguardato pel primo cittadino di Lucca, ed
Uguccione, che gli doveva molta riconoscenza, lo trattava con sommo
riguardo, senza però affidargli verun comando. Frattanto avendo
Castruccio attaccati ed uccisi alcuni contadini di Camajore che avevano
tentato d'assassinarlo, Neri della Fagiuola si valse di questo pretesto
per farlo arrestare[313], e scrisse subito a suo padre di venire a Lucca
colla cavalleria tedesca, non osando di mandare al supplicio un uomo che
godeva di così grande riputazione, senza essere sostenuto da
ragguardevoli forze. Infatti Uguccione partì alla testa della sua
cavalleria: era questo l'istante fissato per far ribellare le due città,
le quali per la strada del piano tenuta dalla cavalleria, sono l'una
dall'altra distanti quattordici miglia, e dieci miglia pel cammino della
montagna. Quest'istante fu dai congiurati colto con precisione. Il 10
aprile 1316 non aveva Uguccione ancora fatto due miglia sulla strada di
Lucca, che i patriotti pisani presero le armi. Avevano essi attaccato un
toro alla porta di san Marco di Chinzica, che staccarono in quel
momento, e colle armi sotto il mantello seguirono il furibondo animale
per le più frequentate strade, gridando: fermate il toro, fermate!
Adunarono in tal modo in mezzo alla città molta gente senza eccitare
alcun sospetto nel luogotenente d'Uguccione, il quale credeva il toro
fuggito dal macello. Vedendosi i congiurati in mezzo a sufficiente
numero di cittadini, colà tratti dalla stessa supposizione, gettarono a
terra il loro mantello, ed impugnando la spada ignuda, gridarono: _Viva
il popolo! morte al tiranno!_ A questo grido ripetuto all'istante
dall'un canto all'altro della città, tutti i cittadini presero le armi,
ed unitisi ai congiurati, attaccarono il palazzo d'Uguccione e la porta
di Parlascio; ed avendo ovunque rotti i satelliti del tiranno, li
cacciarono fuori di città. La cavalleria pisana non volle prender parte
a questa sommossa; ma quando fu terminata, si presentarono agli anziani
giurando fedeltà alla repubblica ed alla libertà[314].
[313] Il Macchiavelli racconta diversamente l'origine di questo
arresto. Dice che Pietro Agnolo Micheli, riputatissimo gentiluomo di
Lucca, fu assassinato da un suo nemico, che rifuggiossi in casa di
Castruccio, il quale prese a difendere l'uccisore. _Vita di
Castruccio_ tra le opere di Macchiavelli.
[314] _Monum. Pisana t. XV, p. 996. — Istor. Pistol. anon. t. XI, p.
411. — Gio. Villani l. IX, c. 76._
Lo stesso giorno presero le armi anche i Lucchesi, o, come vogliono
alcuni, prima che Uguccione entrasse nella loro città, o, secondo altri,
dopo che n'era uscito per reprimere la sedizione di Pisa. Adunaronsi
innanzi alla casa di Neri della Fagiuola, chiedendo altamente la libertà
di Castruccio. Neri non osò rifiutarsi e fece rilasciare il prigioniere,
il quale fu consegnato ai congiurati ancora avente le catene ai piedi ed
alle mani. Queste catene furono lo stendardo dei Lucchesi: essi le
portarono avanti a loro andando ad attaccare i forti ancor difesi da
Neri della Fagiuola; e cacciandolo dalla città co' suoi seguaci, prima
che il padre potesse soccorrerlo, ricuperarono in poco tempo quella
libertà, che già da due anni avevano perduta[315].
[315] _Vita Castruccii Antelminelli a Nic. Tegrimo t. XI. — Niccolò
Macchiavelli Vita di Castruccio._
Uguccione e Neri della Fagiuola, perduta ogni speranza di rientrare in
Pisa o in Lucca, si ripararono alla corte di Can grande della Scala in
Verona, ove trovarono un altro più illustre fuoruscito, il poeta Dante,
che si era recato a quella corte dopo la morte di Enrico VII. I Pisani
nominarono allora capitano del popolo e delle milizie il conte Gaddo
della Gherardesca, ed i Lucchesi affidarono per un anno la stessa carica
a Castruccio Castracani. Ma gli uni e gli altri, non essendo più
eccitati alla guerra da Uguccione, acconsentirono volentieri alle
proposte di pace loro fatte da Roberto. I Fiorentini vi si prestarono di
mala voglia, desiderosi di vendicarsi della rotta di Montecatini, ed
accusavano il re di viltà che sì tosto dimenticava la morte del fratello
e del nipote. Ad ogni modo per l'intromissione di Roberto la pace fu
segnata in aprile del 1317 tra tutti i popoli guelfi e ghibellini della
Toscana, restando tutti al possesso delle castella che avevano
conquistate: ai Fiorentini venne assicurata la franchigia del porto di
Pisa; i Pisani promisero di mantenere cinque galere agli ordini del re
Roberto, qualunque volta egli mettesse una flotta in mare, e si
obbligarono, dietro sua domanda, a fabbricare a san Giorgio in Ponte una
chiesa sotto l'invocazione della pace, pel riposo delle anime di coloro
ch'erano morti nella battaglia di Montecatini: la quale chiesa fu poi a
ragione risguardata dai Pisani piuttosto come un monumento della loro
vittoria, che come un segno di triste ricordanza.
Roberto, siccome tutti gli altri principi francesi che guerreggiarono in
Italia dopo Carlo d'Angiò, non ebbe talenti di lunga mano corrispondenti
alla sua ambizione o alla sua profonda politica. Roberto aveva avute
molte rotte anche nella guerra da lui trattata contro Federico di
Sicilia, e perciò, intimamente persuaso della sua incapacità militare,
preferiva, per ingrandirsi, le vie delle negoziazioni.
Un vasto piano era legato alla pace ch'egli aveva fatta segnare alla
Toscana. Le circostanze più favorevoli alla sua ambizione ponevano tutta
l'Italia nelle sue mani. In Germania due principali emuli, Luigi di
Baviera e Federico d'Austria, ambedue coronati nel 1314 come re de'
Romani, l'uno ad Aquisgrana, l'altro a Bonna, distrussero l'autorità
dell'impero volendosene impadronire colle armi. Nella corte d'Avignone
dopo l'interregno di due anni era succeduto a Clemente V, morto del
1314, un nuovo pontefice chiamato Giovanni XXII, affatto ligio a
Roberto: per ultimo questo principe approfittava delle lunghe
dissensioni della Lombardia e della Liguria per cercare di stabilire la
sua autorità in queste due province, e la repubblica di Genova era la
prima conquista che egli disegnava di aggiugnere a' suoi stati. Ma il
nuovo interregno dell'impero, il pontificato di Giovanni XXII e le
rivoluzioni che l'ambizione di Roberto di Napoli causarono all'Italia,
appartengono ad una nuova epoca di questa storia; che serbiamo per
l'altro immediato volume. D'altra parte la caduta dell'ultima repubblica
di Lombardia, dell'ultima fra le città dell'Italia settentrionale che
conservò la libertà democratica, la caduta di Padova, appartiene
all'epoca contemplata dal presente capitolo.
Di quante città aveano segnata la lega lombarda cento cinquant'anni
prima, Padova e Bologna eransi sole conservate in possesso di que'
privilegi pei quali avevano così valorosamente combattuto contro
Federico Barbarossa. Bologna, protetta dalla chiesa, sostenuta dalle
repubbliche toscane, si sottrasse lungo tempo al destino delle città
lombarde, tra le quali non era stata annoverata, sebbene facesse parte
della loro lega. Padova circondata quasi da tutti i lati dai tiranni
lombardi, e conservatasi fedele alla parte guelfa in mezzo ai più
potenti ghibellini, fu più presto esposta agli attacchi, sotto de' quali
doveva finalmente soggiacere.
Il lungo interregno dell'impero era stato per Padova l'epoca più felice.
Dopo la caduta della casa di Romano fino alla discesa d'Enrico VII in
Italia, nella lunga pace di cinquantasette anni[316] questa città,
sempre protetta dalla chiesa e dal partito guelfo, aveva ricuperato, per
la benefica influenza di un libero governo, quella popolazione e quelle
ricchezze ond'era stata spogliata verso la metà del precedente secolo
dalla tirannia d'Ezelino. La città di Vicenza erasi sottomessa ai
Padovani[317]; tutti i Guelfi della Marca Trivigiana si dirigevano a
seconda dei consigli di Padova; finalmente gli studj fiorivano in questa
città, la sua università essendo una delle più rinomate d'Italia; e la
celebrità de' suoi professori per ogni genere di arti liberali vi
chiamava scolari da tutta l'Europa[318]. Padova diede all'Italia nel
quattordicesimo secolo molti de' suoi più riputati storici. Non pertanto
in seno a tanta prosperità l'interna pace della repubblica era
doppiamente minacciata. I Vicentini, vergognandosi di vedersi soggetti
ad una città lungo tempo rivale, odiavano assai più il governo di
Padova, che il despotismo, e piuttosto che rimanere sotto lo stesso
giogo, erano disposti a porsi tra le braccia del primo tiranno della
Lombardia che fosse abbastanza potente per umiliare i Padovani. D'altra
parte la gelosia della nobiltà e del popolo erasi, come nelle altre
città italiane, manifestata anche in Padova, e più volte il governo era
venuto in mano degli artigiani, diretti dai tribuni del popolo detti
_Gastaldoni_: allora lo stato perdeva in faccia agli stranieri la sua
forza e la considerazione di cui godeva; ed i Padovani nel complesso
della loro condotta meritavano spesso tutti i rimproveri che sono stati
fatti alle assolute democrazie. Lo stesso senato era democratico,
venendo composto di mille cittadini che si rinnovavano ogni anno[319];
ed il popolo, sempre diretto dalla passione di dominare, non agiva a
seconda delle regole della più comune prudenza. Una violenta gelosia gli
faceva escludere dal governo que' nobili, che colle loro ricchezze, i
talenti, il coraggio e lo splendore del loro nome, avrebbero dato più di
risalto all'amministrazione: una prevenzione non meno imprudente faceva
loro incautamente confidare la più pericolosa autorità ad una sola di
queste nobili famiglie, a quella che più d'ogn'altra avrebbe potuto
meritare la sua gelosia, e che pure era la sola che n'andasse esente, la
famiglia dei Carrara. I più piccoli avvenimenti ispiravano a questo
popolo un'insensata presunzione, un ridicolo orgoglio; il più leggiero
rovescio ne abbatteva il coraggio, e lo disponeva a soggiacere a tutte
le umiliazioni. Fortunatamente che in que' momenti di terrore i nobili
riacquistavano la loro influenza sopra la moltitudine; ed in allora
guarentivano l'onore nazionale e salvavano la patria.
[316] _Albert. Mussati De Gestis Ital. l. II, Rub. 2._
[317] Verso il 1265. I Vicentini avevano già ubbidito quarantasei
anni ai Padovani, quando del 1311 fecero presso Enrico VII i primi
tentativi per iscuoterne il giogo. _Ferreti Vicent. Hist. l. IV._
[318] _Guglielmi Cortusii de novitatibus Paduæ l. I, c. 11, t. XII
Rer. Ital. p. 778. — Tiraboschi Stor. della Letterat. Ital. l. I, c.
3, § 12, t. V._
[319] _Ferreti Vicent. Hist. l. IV, p. 1070._
Durante la spedizione d'Enrico VII, in più modi manifestossi
l'inconseguenza de' Padovani. A vicenda ora volevano resistere, ora fare
con lui la pace. Due volte lo storico Albertino Mussato fu da loro
spedito all'imperatore; due volte comperò da lui sotto dure condizioni
la riconciliazione della repubblica; ed altrettante volte i Padovani
alternativamente gelosi, o di Cane della Scala, o dello stesso Enrico,
ruppero le convenzioni e ricominciarono la guerra: di modo che Enrico,
l'ultimo anno della sua vita, pronunciò in Pisa contro di loro una
sentenza che li privava di tutte le loro onorificenze e franchigie e li
metteva al bando dell'impero[320]. Sedendo nello stesso tribunale,
Enrico aveva pochi giorni prima condannato Roberto re di Napoli.
[320] _Albert. Mussati Hist. Aug. l. XIV, R. 6._
Gli è vero che le pretese d'Enrico VII erano propriamente fatte per
eccitare la diffidenza della repubblica, e la sua condotta poteva averle
dato giusto motivo di lagnanza. In marzo o in aprile del 1311 aveva
permesso ad un Vicentino emigrato, che trovavasi al suo servigio, di
sollevare cogl'intrighi la sua patria, procurandogli i soccorsi di Cane
della Scala ed istigando tutt'ad un tratto i Vicentini a prendere le
armi, a scacciare la guarnigione padovana e ad inalberare le aquile
imperiali[321]. Quest'avvenimento, che tenne dietro alla prima
infruttuosa missione d'Albertino Mussato, fu cagione di una guerra tra
Padova e Vicenza protetta da Cane della Scala. Nuovi trattati sospesero
subito la guerra ch'ebbe poi fine col trattato di pace di Genova tra
Enrico VII e Padova, di cui il Mussato fu mediatore.
[321] _Ferretus Vicent. l. IV. — Cortusior. Hist. l. I, c. 13._
Ma mentre l'imperatore, imbarazzato trovandosi nelle guerre di Toscana,
più non incuteva timore alle città lombarde ed alla Marca Trivigiana, il
suo principale campione in questa contrada, Cane della Scala, provocava
di nuovo i Padovani con ostili apparecchi. Fino al 1311 Cane aveva
diviso con suo fratello Alboino il governo di Verona; ma circa un anno
avanti la morte d'Enrico VII morì pure Alboino; perchè Cane più non
trovandosi ritardato o contraddetto ne' suoi vasti progetti da un
collega, diede libero corso al suo carattere inquieto ed audace. Dopo
avere con tutte le sue forze ajutato Enrico, chiese ed ebbe in
ricompensa il governo di Vicenza col titolo di vicario imperiale; e
sebbene ai Vicentini spiacesse di perdere così presto la libertà che
avevano di fresco ricuperata, gli aprirono le porte ed a lui si
sottomisero. Allora Cane della Scala introdusse in Vicenza i soldati
mercenarj ch'egli aveva assoldati di diversi paesi e lingue, e non
risparmiò ai Vicentini le vessazioni che, specialmente in quell'epoca,
accompagnavano un governo militare[322].
[322] _Ferr. Vicent. l. IV. — Albert. Muss. Hist. Aug. l. VI._
I Padovani, che avevano ragione di temere che Cane in virtù del suo
titolo di vicario imperiale nella Marca Trivigiana, non pretendesse di
avere sopra la loro città que' medesimi diritti ch'esercitava sopra
Vicenza, più non ascoltando che la loro impazienza e la loro collera,
armarono le loro milizie ed assoldarono mercenarj per intraprendere la
guerra. La gioventù aveva piacere che incominciasse: stanca della
monotonia della pace, di cui godeva da tanto tempo la sua patria. «Pure,
dice Ferreto di Vicenza, quando la guerra fu intimata dai due popoli,
gli abitanti delle campagne furono i primi ad essere attaccati: il primo
segno delle ostilità fu la rapina delle loro gregge e de' loro mobili. I
contadini che in questo subito attacco non furono fatti prigionieri,
sforzaronsi di condurre in città e di deporre in luogo sicuro tutto
quanto poteva essere trasportato. Allora si videro gli agricoltori
condurre un lungo ordine di carri, sui quali avevano frettolosamente
caricati i rustici loro mobili e i vasi delle loro cantine; mentre le
madri, coi loro fanciulli al seno o sopra le spalle, venivano a dormire
sotto gli stessi portici delle nostre case. Questa maniera di
guerreggiare, di uccidere e far prigionieri i cittadini, di rubare i
loro beni, e di bruciarne le case, veniva a noi insegnato dagli
stranieri mercenarj che avevano sempre vissuto nei campi. Quante volte
non abbiamo noi veduto strascinarsi da questi empi soldati, che Cane
pagava a prezzo d'oro, truppe di contadini padovani colle mani legate
alle reni? Essi custodivano questi prigionieri nella nostra patria e
crudelmente li maltrattavano per obbligarli a riscattarsi. Nè i
mercenarj di Padova trattavano più dolcemente i contadini di Vicenza:
come mai quest'infelici avevano meritate tante ingiurie!»[323].
[323] _Ferret. Vicent. l. VI._
La prima conseguenza della guerra fu l'aggravarsi della tirannia di Cane
sui Vicentini: quattro gentiluomini furono da lui incaricati
dell'assoluto governo di questa città; e perchè più prontamente
potessero percepire le imposte, tutte le immunità del popolo, tutte le
leggi furono abolite. Allora scoppiarono in Vicenza delle congiure
contro Cane, le quali giustificarono in certo modo le criminali
inquisizioni, l'esilio, la confisca dei beni di una parte della nobiltà
che rifugiossi in Padova, e che dopo tale epoca portò poi le armi contro
la patria. Ma la libertà non era meno in pericolo a Padova, ove ogni
zuffa era cagione di nuove animosità contro i Ghibellini: il loro capo
Guglielmo Novello, attaccato dai sediziosi nel palazzo pubblico fu
massacrato innanzi allo stesso pretorio; e de' suoi partigiani alcuni
fuggirono, altri come nemici della patria furono condannati a perpetuo
bando[324].
[324] _Ferreti Vicentini l. VI. — Cortusiorum Historia l. I, c. 15._
Il luogo in cui si veniva più frequentemente a battaglia tra i due
popoli, era quello in cui il Bacchiglione, fiume che attraversa il
Vicentino, si divide in due rami, uno de' quali, dirigendosi al
Sud-Ovest, bagna le campagne d'Este, e l'altro al Sud-Est quelle di
Padova. L'abbondanza delle acque raddoppia la fertilità di quelle ricche
campagne, ed il possesso del fiume per farne scendere una minore o
maggior parte dall'una o dall'altra parte era della più alta importanza
pei due popoli, i quali attaccarono, rovesciarono, rialzarono più volte
le dighe. In queste zuffe i Padovani erano sempre superiori di numero e
di ricchezze; ma Cane, la di cui armata era quasi esclusivamente formata
di mercenarj, accostumati fino dalla fanciullezza al mestiere delle
armi, e che non sapevano cosa fossero la fatica o la pietà, vinceva i
Padovani per conto della disciplina e dell'arte militare.
Avendo i Padovani adunate le truppe sussidiarie di Cremona, di Treviso,
del marchese d'Este e gli esiliati di Vicenza e di Verona; ed inoltre
avendo assoldati alcuni condottieri, tra i quali distinguevansi due
Inglesi, Bertrando ed Ermanno Guglielmo[325], formarono un'armata di
10,000 cavalli e 40,000 fanti; armata formidabile che pareva bastante a
conquistare tutta la Lombardia. Pure sì grande armata, invece di fare
qualche strepitosa impresa, non giovò ad altro che ad attirare sopra la
Venezia un altro flagello. Si tenne lungo tempo accampata, esposta
all'ardore del sole, in riva a' fiumi, le di cui torbide acque appena si
muovono; le malattie vi presero piede, ed una crudele epidemia distrusse
nello stesso tempo i due campi e le due città.
[325] _Ferret. Vicent. p. 1130._
Il massacro di Guglielmo Novello di Campo Sampiero, e l'espulsione de'
Ghibellini suoi partigiani non riuscirono utili soltanto alla parte
guelfa, ma ancora alla fazione aristocratica che acquistò maggiore
influenza ne' consigli della repubblica. Pel corso di più di mezzo
secolo Padova erasi conservata fedele alla Chiesa, e l'aristocrazia
spalleggiava sempre il partito che una città aveva seguìto più lungo
tempo. Per altro i capi del governo non appartenevano ad antiche
famiglie: erano Pietro Alticlinio, avvocato, e Ronco Agolanti. Avevano
amendue ammassate grandi ricchezze coll'usura, e l'uno e l'altro
abusavano del credito che loro dava lo stato, in particolare permettendo
ai loro figli di valersene per soddisfare alle proprie passioni. Amendue
in onta al partito ghibellino, di cui avevano divise le spoglie, ed in
onta al popolo che avevano escluso dal governo, non erano meno esosi
alla casa dei Carrara, la più ricca della nobiltà, la più popolare, e
quella che colla sua ricchezza minacciava più delle altre la libertà.
Due giovanetti di questa casa, Nicola ed Obizzo, eccitarono, contro il
sentimento de' loro parenti, una sedizione per disfarsi di questi due
capi della repubblica. Introdussero moltissimi contadini in città; ed
incontrando Pietro Alticlinio sulla piazza del mercato, gli furono
addosso e lo sforzarono a fuggire. Nello stesso tempo incominciarono a
gridare, _viva il popolo, viva il popolo solo!_ Da tutte le bande si
corse alle armi: invano il podestà co' suoi sgherri occupò la piazza del
pretorio, i sediziosi si attrupparono in tutte le altre; invano, così
consigliato dal vescovo, il podestà ordinò alle compagnie della milizia
di unirsi nella piazza grande per marciare di là al proprio quartiere:
si allontanarono a stento non più di cento cinquanta passi e ben tosto
tornarono a riempiere la maggior piazza. Intanto i Carrara, ripetendo il
grido di _viva il popolo_, vi aggiunsero quello di _morte ai traditori_;
ed i loro partigiani che si frammischiavano in ogni gruppo di persone,
andavano susurrando di affidare ai Carrara la vendetta nazionale. Ben
tosto fu per acclamazione rimesso lo stendardo del popolo ad Obizzo dei
Carrara; e questi alla testa della plebaglia, ripetendo il grido di
morte, si volse alla casa di Pietro d'Alticlinio. La casa fu
saccheggiata, ed il popolo, ad un tempo credulo e furibondo, si figurò
di avervi trovate le prove de' più odiosi delitti che si attribuivano a
Pietro ed a' suoi figliuoli: prigioni ov'erano stati chiusi di nascosto
i loro nemici; sepolcri nei quali trovaronsi i cadaveri di coloro che
avevano fatto perire; un albergo dipendente da loro, nel quale i
viaggiatori si uccidevano di notte affinchè il proprietario ne
acquistasse le spoglie; per ultimo gl'indizj d'altri inauditi delitti e
meno verosimili: tutte le quali accuse furono confermate con
asseveranza, siccome fatti indubitati[326]. Il primo giorno fu
interamente consacrato al saccheggio di questa potente casa.
All'indomani fu denunciato al popolo Ronco Agolanti, e, sorpreso nel
luogo ov'erasi nascosto, fu massacrato ed il suo cadavere strascinato in
pezzi per le strade. Suo fratello non tardò a provare la medesima sorte;
le loro case e quelle ch'ebbero la disgrazia di trovarsi vicine, furono
saccheggiate, e la plebaglia avida di bottino attaccò in appresso tutti
coloro che gli si denunciavano come amici delle prime vittime. Una voce
propose di vendicarsi di colui, il quale, preparando una nuova tariffa
delle gabelle, voleva impoverire il popolo con odiose contribuzioni.
Quello che veniva in tal modo indicato alla rabbia popolare era
Albertino Mussato lo storico, il quale, per far fronte alle spese della
guerra, aveva proposta una nuova tassa, che credeva più eguale, e stava
formandone il catastro. All'istante i sediziosi si precipitarono verso
la sua casa la quale era assai forte ed unita alle mura della città: ne
furono chiuse le porte, e mentre la furibonda plebe attaccava la
muraglia. Mussato salì a cavallo fuori della vicina porta, e fuggì a
briglia sciolta verso Vico d'Aggere, ove si pose in sicuro. La sua casa
fu salvata dal saccheggio perchè vennero proposte al popolo nuove
vittime. Si seppe che Pietro d'Alticlinio e i tre figliuoli eransi
rifugiati nel vescovado; Pagano della Torre, in allora vescovo di
Padova, fu forzato a consegnarli alla plebe, la quale soddisfatta del
loro supplicio cominciò a calmarsi[327].
[326] _Albert. Mussati De Gestis Italicor. l. IV, R. I. —
Cortusiorum Hist. de novitatibus Paduæ l. I, c. 22._
[327] _Alb. Mussat. Ibid. — Ferret. Vicent. l. VI._
All'indomani, ch'era il primo giorno di maggio del 1314, gli anziani
della città, accompagnati dai tribuni, o gastaldioni, con gli stendardi
del comune e del popolo convocarono l'assemblea dei cittadini. In questa
fu risolto di mettere fine alle vendette; che gli attruppamenti ed il
grido di morte nelle strade sarebbero vietati; che si darebbe opera a
ristabilire la pace tra le famiglie, guarantendola coi matrimonj; che il
governo verrebbe affidato a dieciotto anziani, secondo l'antica pratica;
che sarebbero assistiti dai tribuni; e che la repubblica continuerebbe a
governarsi colla protezione e sotto il nome di parte guelfa. Albertino
Mussato fu richiamato e compensato dal governo de' sofferti danni.
L'indisciplina dei campi non era minore della licenza della città: noi
siamo omai giunti a quegli sventurati tempi in cui la sorte della guerra
non dipendeva più dalle milizie nazionali, a que' tempi ne' quali la
sicurezza e l'onore dello stato venivano confidati a braccia mercenarie
e straniere. Ogni giorno i soldati arrogavansi nuovi privilegi, ed
aggravavano sui popoli i crudeli diritti della guerra; ed in pari tempo
ponevano in dimenticanza la disciplina, l'ubbidienza ed il coraggio
delle antiche repubbliche italiane.
Poco dopo la sedizione del mese di maggio, i Padovani, sotto la condotta
del loro podestà Ponzino Ponzoni cremonese, attaccarono la stessa città
di Vicenza. Cane della Scala erasene allontanato per soccorrere Matteo
Visconti. Il primo di settembre, all'ora de' vesperi, Ponzino alla testa
dell'armata padovana, d'un ragguardevole corpo di mercenarj sotto gli
ordini immediati di Vanne Scornazano e di mille cinquecento carri
destinati al trasporto delle bagaglie e delle armi dell'infanteria
pesante, prese la strada che da Padova conduce a Vicenza. Queste due
città non sono lontane che quindici miglia, ossia cinque ore di marcia,
di modo che l'adunanza de' carri che Ponzino aveva fatta venti giorni
prima, e col più grande segreto per questa spedizione, ci dà la più
straordinaria idea della maniera con cui facevasi allora la guerra; e
tale era la mollezza degli uomini d'armi, che durante questa breve
marcia notturna, la maggior parte avevano deposte le armi sui carri che
li seguivano[328].
[328] _Albert. Mussatus de Gestis. Ital. l. VI, R. I._
In sul far del giorno l'armata padovana giunse innanzi alle mura del
sobborgo di san Pietro a Vicenza, senza che la sua marcia fosse stata
annunziata da veruno esploratore: le guardie delle porte erano
addormentate; ed alcuni Padovani leggermente armati, attraversando la
fossa, si resero padroni dei ponti levatoj e gli abbassarono prima che i
Vicentini pensassero a difendersi. Le guardie risvegliandosi, fuggirono
in città e ne chiusero le porte; ed i Padovani senza adoperare le armi
rimasero padroni del sobborgo. Il suono delle trombe e le grida di _viva
Padova!_ annunciarono questa vittoria agli abitanti, i quali incerti
della loro sorte, desiderosi di tornare sotto l'amministrazione
repubblicana de' loro padri, desiderosi di scuotere il giogo di Cane, ma
inquieti dell'abuso che forse si farebbe del diritto della guerra,
guardavano tremando i loro vincitori. Ben tosto un proclama in nome di
Ponzino Ponzoni stabilì la pena di morte contro chiunque si rendesse
colpevole di furto o di morte: gli abitanti del sobborgo vi corrisposero
con grida di gioja, gridando ancor essi _viva Padova!_ e le madri
portando i fanciulli nelle braccia sotto i portici, insegnavano loro a
proferire questi due vocaboli.
Frattanto i Vicentini, per meglio difendere il corpo della città,
tentarono d'incendiare le case del sobborgo più vicine alle mura; ed i
Padovani, non sapendo approfittare della loro vittoria, stabilirono il
loro campo duecento passi lontano dal preso sobborgo, di cui affidarono
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