Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 04 (of 16) - 03

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cardinali in Sicilia per conferire coi ribelli, e liberare se era
possibile l'unico suo figliuolo, loro prigioniero. Carlo sotto il peso
delle traversie, che da due anni lo perseguitavano incessantemente,
aveva alquanto perduto di quel fermo ed intrepido carattere che aveva
sempre mostrato, e di quella confidenza nella propria fortuna, cui più
che a tutt'altro era debitore delle altre sue qualità. Quantunque avesse
sotto i suoi ordini una flotta di centodieci vascelli, si lasciò
aggirare dai negoziati de' Siciliani, e passò l'estate senza far nulla.
La mancanza di vittovaglie e l'avvicinarsi dell'equinozio l'obbligarono
a tornare a Brindisi. Nell'inverno andò in Puglia, ammassando danaro,
vittovaglie ed uomini, per rinnovare in primavera la guerra con maggior
vigore; ma un amaro presentimento della sua rapida decadenza e del
trionfo di nemici che aveva prima disprezzati, lo rodevano internamente.
Lo sforzo che egli faceva per comprimere il suo dolore ed il suo
scoraggiamento, guastavano la sua salute; sicchè cadde finalmente
infermo a Foggia. Le ultime sue parole furono dirette all'ostia sacra
nell'atto di ricevere la comunione nel suo letto della morte. «Signore
Iddio, diss'egli, io credo veramente che tu sei il mio salvatore, onde
ti prego ad aver pietà della mia anima. E così com'io feci la conquista
della Sicilia più per servire alla santa Chiesa, che pel mio interesse,
o per altra cupidigia, tu perdonami i miei peccati[26].» Morì poco dopo
il giorno 7 di gennajo del 1285 in età di sessantacinque anni, dopo
averne regnato diecinove in Napoli. Malgrado la testimonianza che
rendeva a sè medesimo negli ultimi istanti di vita, non possiamo
facilmente credere che un uomo tanto ambizioso e crudele non avesse
altro scopo nelle ingiuste conquiste che costarono tanto sangue, che la
gloria di Dio.
[26] _Gio. Villani l. VIII, c. 93 e 94, p. 302 e 303._
La sua morte precedette di poco quella de' principali monarchi, che come
suoi amici, o rivali, avevano con lui travagliata l'Europa. Filippo V
l'ardito, dopo una rovinosa campagna in Arragona, morì a Perpignano il 6
ottobre dello stesso anno; Pietro d'Arragona cessò di vivere a
Barcellona l'otto di novembre per le ferite avute nella stessa campagna;
e Martino IV, fedele creatura e cieco strumento di Carlo, era morto il
25 marzo dello stesso anno a Perugia.
Il principe di Salerno, erede del regno, trovavasi prigioniero degli
Arragonesi, che dalla Sicilia lo avevano trasportato in Catalogna;
sicchè fu il suo figlio primogenito, allora in età di soli dodici in
tredici anni, che prese possesso del regno sotto la direzione di Roberto
conte d'Artois, suo cugino, e d'un consiglio di baroni francesi. In tale
occasione papa Onorio IV, successore di Martino, pubblicò una bolla
intorno al governo del regno e per riformare gli abusi che vi si erano
introdotti[27]. D'altra parte don Giacomo, il secondo figliuolo di
Pietro d'Arragona, fu incoronato re di Sicilia, mentre il fratello
maggiore ereditava gli stati paterni nelle Spagne: e la lotta del mezzo
giorno d'Italia che aveva cominciato a guisa d'una guerra di giganti, si
prolungò molti anni fra deboli principi, i di cui fatti più non meritano
l'attenzione dell'Europa.
[27] Quest'ordinanza o capitolare viene riportato dal Giannone,
_Stor. Civile l. XXI, c. 1_.
La debolezza della casa d'Angiò agevolò alla repubblica fiorentina i
mezzi d'impadronirsi dell'amministrazione della parte guelfa fin allora
diretta dal re di Napoli, e di chiamare a sè i negoziati di tutta la
fazione. Ma la repubblica fiorentina in tempo che acquistava tanta
influenza sulle altre province d'Italia, non era meno delle repubbliche
sue rivali travagliata da intestine discordie. Lo zelo che i Fiorentini
mostrarono in favore della loro patria, cui, sacrificando vita ed averi,
innalzarono ad un grado di potenza assai superiore alle loro ricchezze
ed alla popolazione, era un risultamento del loro amore di libertà, di
quella sediziosa democrazia che, solleticando l'amor proprio e le
passioni d'ogni classe di persone, le rendeva tutte energiche e
valorose.
L'anno 1282 fu quello in cui i Fiorentini fissarono quella forma di
governo che poi mantennero fino alla caduta della repubblica, e della
quale sussistono anche al presente alcune istituzioni. Io intendo
parlare dei priori delle arti e della libertà, il cui collegio ebbe il
nome di _Signoria_. Il governo di Firenze, dopo che il cardinal Latino
vi potè stabilire la pace interna, venne affidato a quattordici savj,
otto guelfi e sei ghibellini. Da questa forma di reggimento, il di cui
potere esecutivo era affidato ad un consiglio troppo numeroso per agire
di perfetto accordo, ad un consiglio che fino dalla sua istituzione
medesima aveva in sè gli elementi della discordia e dove regnava lo
spirito di parte, pareva derivarne danno allo stato: inoltre la gelosia
della plebe verso i grandi riusciva pure pregiudicevole a questo
collegio, ove trovavansi molti gentiluomini; e perciò si andava dicendo
che d'una repubblica mercantile dovevano averne l'amministrazione i soli
mercanti. Quindi i Fiorentini verso la metà di giugno del 1282
istituirono una nuova magistratura affatto democratica, i di cui membri
ebbero il titolo di priori delle arti, per indicare che l'assemblea de'
primi cittadini d'ogni mestiere rappresentava tutta la repubblica. Nella
prima elezione non furono ammessi tutti i mestieri indistintamente alla
prerogativa di dare i capi allo stato. La prima volta ebbero quest'onore
tre sole arti, risguardate come le più nobili; ma nella seconda elezione
(cioè due soli mesi dopo, perchè l'elezioni dovevano rinnovarsi tutti i
due mesi) si raddoppiò il numero de' priori, onde ognuna delle sei arti
maggiori, a cadauna delle quali corrispondeva un quartiere della città,
avesse il suo priore. L'arte dei giudici e de' notaj, che per altri
rispetti aveva parte nel governo, fu la sola non chiamata a dare priori
alla repubblica.
Tutto il potere esecutivo e la rappresentanza dello stato fu data a sei
priori. Per tenerli uniti ed accrescerne la vicendevole benevolenza,
furono chiamati a vivere insieme, spesati dal pubblico ed alloggiati nel
suo palazzo. Finchè rimanevano in carica non si permetteva loro d'uscire
di palazzo, diventato ad un tempo carcere pei priori e fortezza per lo
stato[28]. Ma o sia affinchè questa vita interamente pubblica non
tenesse troppo tempo lontani i mercanti dai loro affari, sia perchè non
avessero tempo di maturare ambiziosi progetti e di aspirare alla
tirannide, o perchè si facesse luogo ad un maggior numero d'aspiranti,
la durata d'ogni signoria fu fissata a due mesi, dopo i quali, coloro
che uscivano di carica, non potevano nè raffermarsi, nè rieleggersi se
non passati due anni[29]; di modo che il governo rinnovavasi tutt'intero
sei volte all'anno nella repubblica fiorentina, ed in tutte le altre che
tosto ne adottarono la costituzione.
[28] _Gio. Villani l. VII, c. 78, p. 279._
[29] Ciò chiamavasi il _Divieto_. Vedansi gli statuti fiorentini
raccolti del 1415 e stampati in Firenze del 1787 sotto la data di
Friburgo in 3 vol. in 4º.
I priori uniti ai capi ed ai consigli di tutte le arti maggiori e ad un
determinato numero d'aggiunti che sceglievano essi medesimi in tutti i
quartieri della città, eleggevano i nuovi priori. Questo consiglio
d'elezione nominava a squittinio segreto ed a pluralità di suffragi. In
seguito si fecero eleggere da una commissione, o _balìa_, tutti
gl'individui che dovevano successivamente per tre o per cinque anni
esercitare il priorato, facendone dipendere l'ordine dalla sorte.
Siccome molti gentiluomini erano mercanti, e facevano parte delle arti e
mestieri, non furono a principio esclusi dalla signoria; ma un governo
di mercanti, lo spirito di corpo e la gelosia di quest'ordine di
cittadini doveva provocare, e provocò ben tosto l'esclusione assoluta di
tutti i gentiluomini dalle cariche del governo.
L'anno susseguente i Sienesi, imitando i Fiorentini, abolirono il
consiglio de' quindici magistrati che governava la loro città, e vi
sostituirono la nuova signoria, che chiamarono i _nove governatori e
difensori della comunità e del popolo di Siena_, o più brevemente, i
_nove_. Come i priori di Firenze, furono ancor essi uniti nello stesso
palazzo, e nudriti alla medesima mensa, fissata la durata delle loro
funzioni a due mesi, e scelti nell'ordine de' mercanti, essendone
assolutamente esclusi i nobili. Questo modo di limitare la scelta ad una
sola condizione, che pure non era la principale dello stato, diede
origine ad una nuova oligarchia, ad una oligarchia plebea, che in Siena
chiamossi l'ordine dei _nove_, perchè i mercanti che si erano
appropriato il governo, escludendone i nobili ed il popolo, formarono in
seguito un registro dei nomi delle famiglie che stimavano ammissibili
all'elezione dei nove difensori. Gl'iscritti su questo registro
formarono a Siena una casta particolare non meno orgogliosa della
nobiltà, non meno ambiziosa, non meno avida del potere esclusivo, e
perciò non meno di quella esposta alla gelosia del popolo e spesso alle
sue persecuzioni[30].
[30] _Andrea dei Cron. Sanese ad an. 1283, t. XV, p. 38. — Malavolti
Stor. di Siena p. II, l. III, fol. 50._
La gelosia del popolo verso la nobiltà aveva fatta nascere anche in
Arezzo una somigliante rivoluzione; ma perchè questa città era meno
popolata, ed i nobili proporzionatamente più forti e protetti dal
vescovo Guglielmo degli Ubertini, del 1287 fecero nascere una
controrivoluzione, la quale, rimettendo nelle loro mani tutto il
governo, li consigliò a dichiararsi pel partito ghibellino che in tale
epoca era oppresso in tutta la Toscana. I gentiluomini ed i Ghibellini
perseguitati rifugiaronsi in Arezzo; perchè i Fiorentini, i Sienesi e
tutta la lega guelfa, vedendo innalzarsi in tanta vicinanza lo stendardo
dell'aristocrazia e del partito ghibellino, dichiararono la guerra a
quella città[31].
[31] _Cron. Aret. di Ser Gorello_ in terza rima _t. XV, c. 3, p.
822. — Gio. Villani l. VII, c. 109, 114, p. 314_ ec. — _Leon. Aret.
l. III, p. 102._
Del 1288, poco dopo quella d'Arezzo, scoppiò la rivoluzione di Pisa,
della quale si è detto di sopra in questo capitolo: il conte Ugolino fu
gettato in prigione, e la repubblica dichiarossi pel partito ghibellino,
cui il popolo aveva in ogni tempo segretamente aderito. E per tal modo
due prelati, Ruggeri degli Ubaldini arcivescovo di Pisa, e Guglielmo
degli Ubertini vescovo d'Arezzo, trassero di concerto nel medesimo tempo
le due città alle spirituali loro cure affidate nella fazione opposta
alla Chiesa. Per altro i Pisani, per essere più in istato di sostenere
la guerra loro dichiarata dalla lega toscana, chiamarono il conte Guido
di Montefeltro, e lo nominarono loro capitano. Aveva costui acquistata
opinione di valoroso guerriero nella difesa di Forlì contro il conte
d'Appia, ma in appresso era stato obbligato a pacificarsi colla Chiesa,
ed a ritirarsi in Piemonte nella città d'Asti assegnatagli come luogo
del suo esilio.
Nel 1289 la fortuna non mostrossi egualmente favorevole alle due città
ghibelline nella guerra ch'ebbero a sostenere contro la lega toscana:
gli Aretini, dopo essere rimasti vittoriosi dei Sienesi, furon rotti dai
Fiorentini a Certomondo presso di Campaldino nel Casentino il giorno 11
giugno del 1289, perdendo due mila quattrocento quaranta uomini tra
morti e prigionieri. Contavasi tra i primi il vescovo Guglielmo degli
Ubertini, il fiore della nobiltà aretina, ed i principali ghibellini
emigrati da Firenze. Ma coloro che salvaronsi dalla strage, essendo
entrati in Arezzo, posero la città in tale stato di difesa, che l'armata
combinata di Firenze e di Siena non potè impadronirsene[32].
[32] _Gio. Villani l. VII, c. 130, 131, p. 326-330. — Dino Compagni,
Cronaca delle cose de' tempi suoi t. IX, p. 475._ Quest'ultimo
descrive la battaglia come uno che v'ebbe parte.
Intanto i Pisani condotti dal bravo conte di Montefeltro, malgrado
l'infinita superiorità de' nemici, tra i quali contavansi pure il
giudice di Gallura, i partigiani del conte Ugolino e tutti i Guelfi
fuorusciti di Pisa; e malgrado che i Genovesi ritenessero undici mila
valorosi pisani nelle loro prigioni, trattarono la guerra quasi sempre
con prospero successo, ricuperando per sorpresa o di viva forza quasi
tutte le castella del loro territorio[33]. Il conte ch'era stato ad un
tempo nominato podestà e generale delle armate per tre anni col soldo di
dieci mila fiorini all'anno e con obbligo di seco condurre cinquanta
uomini d'armi e trenta scudieri, incominciò dal cambiare l'armatura
dell'infanteria; indi formò un corpo di tre mila balestrieri, che
diligentemente addestrò all'armi per lo spazio di due mesi; talchè quei
pedoni, risguardati fin allora come truppe di niun conto, diventarono
formidabili alla stessa cavalleria, e sotto alla sua condotta ebbero
fama d'essere i migliori balestrai di Toscana[34]. In appresso pose su
tutti i cittadini un'imposta di guerra per assoldare in comune un corpo
di cavalleria; e mantenendo viva corrispondenza con quasi tutte le
castella del vicinato, colla rapidità delle sue manovre, e coi suoi
prosperi successi, impose in modo alla lega toscana de' Guelfi, che
l'anno 1293 dovette accordare alla repubblica pisana onorevole pace. I
Fiorentini ottennero franchigia da ogni gabella nel porto di Pisa; i
Guelfi furono rimessi in possesso de' loro beni, e, tranne poche
castella lasciate ai Lucchesi, la repubblica di Pisa ricuperò i suoi
antichi confini[35].
[33] _Gio. Villani l. VII, c. 140, p. 335, 147, 369._
[34] Frammenti d'un anonimo pisano contemporaneo, _t. XXIV, p. 655 e
seg._
[35] _Cronica di Pisa anonima t. XV, p. 980-982. — Falso Marangoni
Cronica di Pisa p. 597._
Per altro la pace dai Fiorentini accordata ai Pisani non dovevasi alle
sole armi del conte Guido di Montefeltro, ma ancora alle interne
turbolenze della città di Firenze. Le antiche famiglie guelfe dopo lo
stabilimento dei priori delle arti e della libertà, non eransi mai
riunite per ricuperare quella influenza sul governo, di cui erano state
spogliate; anzi ogni casa nobile era in guerra con altra egualmente
nobile, e la città sempre turbata dai reciproci insulti e dai privati
loro combattimenti[36]. Queste dissensioni facevano perdere ai
gentiluomini ogni influenza nel governo della loro patria, ed il popolo
non aveva motivo di nutrire gelosia verso un ordine che aveva così poca
politica; ma se la nobiltà non dava al governo coll'inconseguenza delle
sue intraprese ragionevole motivo di gelosia, non lasciava di provocare
la collera del governo e dei cittadini con passaggere violenze, e
coll'abituale disprezzo dell'ordine e delle leggi. Ogni famiglia nobile
avrebbe creduto d'avvilirsi assoggettandosi ai tribunali; e se alcun suo
individuo veniva arrestato dal capitano del popolo o tratto in giudizio,
tentava di liberarlo a mano armata, senza curarsi di sapere qual delitto
avesse commesso. Non eranvi più trasgressioni personali, perchè
un'intera famiglia s'associava sempre al delitto ed agli sforzi del
colpevole per sottrarsi al castigo. Il governo sentivasi troppo debole
per lottare contro questi potenti avversarj, onde tutte le violenze
usate dalla nobiltà alla plebe rimanevano sempre impunite. Finalmente il
popolo, irritato da tanti insulti privati della nobiltà, si dispose di
volerla in tutto reprimere con tali severissime leggi, che, fino a
quest'epoca, in veruna repubblica, non era stato assoggettato a così
tirannico ed arbitrario trattamento il primo ordine dello stato.
[36] _Gio. Villani l. VIII, c. 1, p. 343._
Era in Firenze un gentiluomo chiamato Giano della Bella, il quale,
comechè discendesse da una delle più nobili famiglie toscane, o per non
avere una fortuna proporzionata alla sua ambizione, o perchè i disordini
di cui la nobiltà si rendeva colpevole gli avessero ispirato avversione,
rinunciò ai privilegi de' suoi natali per associarsi al popolo contro la
sua casta[37]. Essendo Giano uno de' priori delle arti, approfittò
dell'opportunità d'un'assemblea del popolo, o parlamento, per arringare
sulla pubblica piazza i suoi concittadini[38]. Domandò loro in nome
della libertà di voler mettere fine all'insubordinata insolenza dei
nobili ed agl'insulti cui erano i plebei continuamente esposti. Accusò i
nobili di esercitare l'assassinio a mano armata, di strappare i
querelanti davanti ai tribunali, di allontanarne a forza i testimoni,
d'incutere timore agli stessi giudici e di sospendere o distruggere le
leggi. Domandò altamente che la podestà pubblica si rendesse superiore
alle forze private che osavano di starle a fronte; che si punissero
l'intere famiglie, poichè queste non volevano abbandonare gl'individui
alla correzione dei tribunali; che si rendesse la signoria più forte,
chiamando il poter militare in soccorso dell'autorità civile; e che si
organizzassero in modo le guardie borghesi da non abbandonare giammai il
palazzo de' priori delle arti e della libertà[39].
[37] La famiglia della Bella, siccome quelle dei Pulci, Nerli,
Gangalandi e Giandonati erano state fatte nobili da Ugo vicario
imperiale d'Ottone III avanti il 1000. _Dante Parad. C. XVI, v.
127._
[38] _Cronaca di Dino Compagni t. IX, p. 474._
[39] _Leon. Aretino l. IV. — Scip. Ammirato Ist. Fiorent. l. IV, p.
188._
Il popolo in conseguenza di questo discorso nominò una commissione per
riformare gli statuti della repubblica e reprimere colle leggi
l'insolenza de' nobili. Una famosa ordinanza, conosciuta sotto il nome
di _Ordinamenti della Giustizia_, fu l'opera di questa commissione[40].
Per la conservazione della libertà e della giustizia sanzionò la più
tirannica ed ingiusta giurisprudenza. Trentasette famiglie delle più
nobili e più rispettabili di Firenze furono per sempre escluse dal
priorato, senza che loro potess'essere in avvenire permesso di
ricuperare i diritti della cittadinanza, facendosi inscrivere sulla
matricola di alcun corpo di mestiere, o esercitando qualunque
professione[41]. Questa esclusione appoggiavasi al favore che i nobili,
dicevasi, accordavano sempre agli altri nobili; si accusavano di avere
inceppate le operazioni della signoria, la quale non fece mai verun atto
vigoroso qualunque volta qualche gentiluomo sedette coi priori. Si
autorizzò inoltre la signoria ad aggiugnere nuovi nomi d'esclusione
qualunque volta alcun'altra famiglia, seguendo le orme della nobiltà,
meritasse d'essere egualmente punita[42]. I membri di queste trentasette
famiglie furono additati anche nelle leggi col nome di grandi e di
magnati; e per la prima volta videsi un titolo d'onore convertito non
solamente in un peso oneroso, ma in castigo. Fu dalla medesima ordinanza
stabilito che quando un grande si farebbe reo di qualche delitto, la
voce pubblica attestata da due probe persone, sarebbe pel tribunale
sufficiente prova a convincere e condannare il prevenuto, poichè fin
allora la violenza de' gentiluomini aveva allontanati i querelanti dal
palazzo della giustizia e costretti a tacere i testimonj. Per ultimo i
complici di coloro che turbassero l'ordine pubblico, si associavano
nelle pene ai principali colpevoli[43].
[40] _Gli ordinamenti della Giustizia_ sono compresi negli statuti
di Firenze raccolti del 1415. Sono composti di 101 rubriche o
titoli, e formano 108 pagine in 4º. Il latino è barbaro come quello
di tutti gli statuti fiorentini.
[41] _Ordinamenta Justitiæ Rub. 32-90._
[42] _Ordinamenta Justitiæ Rub. 22-31._
[43] _Ibid. 63, 65, 96._
Per eseguire questa nuova giurisprudenza si divisero i borghesi in venti
compagnie, ognuna di cinquant'uomini e indi a poco di duecento; e fu
assegnata ad ogni compagnia la sua piazza d'armi e la sua bandiera.
Furono poi tutte assoggettate ad un nuovo ufficiale, chiamato
confaloniere o porta bandiera della giustizia[44]. Il confaloniere era
un ufficiale civile e non militare, il quale non ispiegava la bandiera
in guerra contro i nemici dello stato, ma soltanto nelle spedizioni, per
riunire sotto le insegne nazionali gli amici dell'ordine e della
libertà. Quando appendeva alle finestre del palazzo pubblico, in cui
abitava coi priori, il confalone della giustizia, i capi d'ogni
compagnia dovevano adunare i loro uomini e raggiugnerlo. Allora usciva
dal palazzo alla testa di questa milizia nazionale, attaccava i
sediziosi e puniva i colpevoli.
[44] _Ibid. Rub. 18._
Il primo confaloniere fu nominato dai priori, e perciò rimase loro
subordinato; ma l'importanza delle sue funzioni lo fece ben tosto
risguardare da prima come loro eguale, poscia come superiore, come il
capo della repubblica ed il rappresentante della sua maestà. Eletto
collo stesso metodo dei priori, per rimanere in carica soltanto due mesi
come i primi, ed alloggiato insieme nel palazzo pubblico, mise a numero
il collegio della signoria. Non dobbiamo veramente giudicare dai titoli
dell'eccellenza d'un governo; ma pure non può non riconoscersi un certo
che di nobile nella scelta di quelli adoperati dalla repubblica
fiorentina. La giustizia, la libertà, la bontà, tutte le virtù pubbliche
erano chiamate colle arti al governo, e lo stato veniva amministrato dal
_confaloniere della giustizia, dai priori delle arti e della libertà e
dal collegio de' buonomini_.
L'uno de' primi confalonieri di Fiorenza, e ad un tempo il più elegante
scrittore italiano del tredicesimo secolo, ispirò un profondo terrore ai
gentiluomini eseguendo la più importante funzione della sua carica. Alla
testa delle compagnie del popolo spianò le case dei Galigai[45] per aver
uno di quella famiglia ucciso in Francia un cittadino fiorentino. Per
altro i grandi si riebbero ben tosto dal concepito spavento, e trovarono
il modo di porsi in sicuro dalla furia popolare, e sopra tutto di
vendicarsi di Giano della Bella, che risguardavano quale disertore e
traditore del suo ordine e del suo partito. Scoprirono che molti dei più
riputati cittadini erano gelosi della sua influenza; che questi per
isfogare il loro odio contro la nobiltà, erano di sentimento non poter
eccepire lo stesso gentiluomo _demagogo_ che aveva abbassati i suoi
compagni; videro che il suo rango, di cui pareva averne fatto
sacrificio, se gli accresceva riputazione presso la plebe, lo rendeva
esoso in faccia ai capi della cittadinanza. Si avvicinarono a questi
ultimi, e l'odio comune fu il cemento della loro unione.
[45] Altri li chiamarono Galli o Galetti; ma dobbiamo prestare
maggior fede a Dino Compagni, ch'era confaloniere. Questo nome di
Galigai si associa a molte ricordanze. _Cron. t. IX, p. 475. — Gio.
Villani l. VIII, c. 1, p. 344._
Giano della Bella godeva troppa riputazione presso il popolo perchè
potess'essere vantaggiosamente attaccato a forz'aperta, onde la
proposizione fatta da Berto Trescobaldi di ucciderlo in una sommossa
venne disapprovata come pericolosa. Si preferì piuttosto di approfittare
dei difetti del suo spirito e delle qualità del suo carattere per
alienargli i suoi partigiani. Giano era incapace di transigere tra il
suo interesse e la severità de' suoi principj. Alcuni uomini, ch'egli
credeva suoi amici, gli rappresentarono gli abusi introdottisi
nell'ordine de' giudici e de' notaj, il modo con cui spaventavano il
podestà ed i rettori, minacciandoli di un'estrema severità nel
sindacato, di cui venivano incaricati quando i rettori uscivano
d'ufficio, e le ingiuste grazie che con tal mezzo essi ottenevano da
loro. Giano intraprese subito a reprimere colle leggi così perniciosi
abusi, e con tale tentativo s'inimicò il potente e numeroso ordine de'
giudici e de' notaj.
Quanto quest'ordine aveva di credito innanzi ai tribunali, altrettanto
ne acquistava la corporazione de' macellai in tutte le sommosse: erano
questi gente accostumata al sangue, che niente intimidiva e che nelle
sedizioni era pronta sempre a pigliar le armi. Si stimolò Giano a
rivedere gli statuti de' macellai ed a reprimere le frodi che
commettevano; per tal modo egli si creò de' nemici ardenti e pericolosi
in mezzo a quella plebe medesima che gli era così ben affetta. Siccome
si andava sollecitandolo con nuove denuncie a farsi nuovi nemici, lo
storico Dino Compagni, che aveva scoperte le perfide mire di coloro che
lo consigliavano, ne fece parte a Giano, pregandolo di rinunciare per
alcun tempo ad una pericolosa severità. «Pera piuttosto, rispose, la
repubblica, ed io con lei, anzi che soffrire l'iniquità per un
miserabile privato interesse, anzi che distruggere la vera libertà con
vile tolleranza»[46].
[46] _Dino Compagni Cronaca de' tempi suoi, l. I, t. X, p. 475-478._
Frattanto i nemici di Giano nella nuova elezione de' priori ottennero di
far cadere la scelta sopra sei de' principali capi di quella
aristocrazia plebea ch'era subentrata alla nobiltà. Tosto che costoro
furono in carica, aprirono innanzi al capitano del popolo
un'inquisizione intorno alla condotta di Giano della Bella, accusandolo
d'avere in segreto eccitata un'insurrezione, che aveva avuto luogo pochi
mesi prima.
Da prima la plebe parve irritarsi per somigliante accusa; si adunò
intorno alla casa di Giano esibendogli di prendere le armi in sua difesa
quand'anche avesse dovuto per ciò impadronirsi della città: il fratello
di Giano si recò pure collo stendardo del popolo fino ad Orsanmichele,
lontano duecento passi dal palazzo della signoria. Ma Giano avvedendosi
di essere tradito da coloro stessi che d'accordo con lui avevano
innalzata la potenza del popolo, e che i suoi nemici erano potenti e
riuniti in armi avanti al palazzo dei priori, non volle esporre la
patria sua ad una guerra civile, nè presentarsi al tribunale de' giudici
la cui equità eragli per lo meno sospetta. Cedette adunque ed uscì di
Firenze il 5 marzo del 1294, sperando che il popolo non tarderebbe a
richiamarlo; ma invece fu condannato dal capitano del popolo e morì in
esilio[47]. «Fu per contumacia condannato nella persona e sbandito, e
morì in esilio, e tutti suoi beni disfatti, e certi altri popolani con
lui; onde di lui fu grandissimo danno alla nostra città e massimamente
al popolo, però ch'egli era il più leale uomo e diritto popolano di
Firenze, amatore del bene comune, e quelli che mettea in comune non ne
traeva. Era presuntuoso e voleva le sue vendette fare, e fecene alcuna
contro gli abati suoi vicini col braccio del comune, e forse per li
detti peccati fu per le sue leggi medesime, ch'avea fatte, a torto e
senza colpa per li non giusti giudicato. E nota che questo è grande
esemplo a quelli cittadini, che sono a venire, di guardarsi di non
volere essere signori di loro cittadi, nè troppo presuntuosi.... Di
questa novitade ebbe grande mutazione e turbazione il popolo e la città
di Firenze, rimanendo al governo de' popolani grossi e possenti[48]».
[47] _Machiavelli Stor. Fior. l. II. — Dino Compagni Cronaca l. I,
p. 478. — Leonardi Aret. Stor. Fior. l. IV._
[48] _Gio. Villani l. VIII, c. 8, p. 350-351._


CAPITOLO XXIV.
_Pontificato di Bonifacio VIII. — Il partito guelfo si divide in
due fazioni dei Bianchi e dei Neri. — I Bianchi perseguitati si
uniscono ai Ghibellini._
1294 = 1303.

Appena nel precedente capitolo abbiamo avuto occasione di nominare i
pontefici che governarono la Cristianità, perchè nello spazio di dieci
anni la loro influenza fu quasi nulla rispetto all'Italia, sia che non
potessero tra le civili rivoluzioni delle repubbliche acquistare sulle
medesime quell'ascendente che avevano avuto ne' gabinetti de' principi,
o sia che la successione di molti papi, che tutti morivano pochi mesi
dopo la loro elezione, scemasse alla sede pontificia gran parte della
sua potenza. Dopo Martino IV, Onorio IV della nobile famiglia de'
Savelli di Roma, regnò due anni[49]. Attratto dalla gotta, incapace di
levarsi, di sedere, d'aprire o chiudere le mani, era stato obbligato,
per celebrare la messa e adempirne le funzioni, di far fare una macchina
che lo alzava, lo abbassava e lo volgeva verso l'altare o verso il
popolo, mentre un altro meccanismo suppliva alle sue dita per sostenere
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