Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 04 (of 16) - 10

Total number of words is 4399
Total number of unique words is 1666
41.1 of words are in the 2000 most common words
55.7 of words are in the 5000 most common words
62.8 of words are in the 8000 most common words
Each bar represents the percentage of words per 1000 most common words.
potere che ponga limiti alla loro autorità, sebbene sappiano che lo
stesso potere si armerebbe per difenderli contro i loro nemici. I
signori di Lombardia governavano dispoticamente, e perciò l'esistenza
loro era breve come quella dei despoti. I parenti o gli amici erano i
primi a cospirare contro di loro; i nemici gli attaccavano apertamente,
e talvolta il popolo gli abbassava con quella stessa rapidità con cui
gli aveva innalzati.
Nell'ultima metà del tredicesimo secolo il Piemonte era stato testimonio
di due rivoluzioni che avevano precipitati due sovrani dall'apice della
grandezza nella più miserabile delle umane condizioni. Bonifacio conte
di Savoja, cui il _Guichenon_[182] dà pure i titoli di duca dello
Sciabalese e d'Aosta, di signore di Bugey e della Tarentesia, di
marchese di Susa e d'Italia, e di principe del Piemonte, non era, a dir
vero, sovrano di tutti i paesi de' quali il suo storico gli dà con
soverchia liberalità i titoli; ma univa alla Savoja ed ai vasti
possedimenti al di là delle Alpi la signoria di Torino e di altre città
del Piemonte. Però gli abitanti di Torino, stanchi del suo governo,
cacciarono improvvisamente fuori di città i suoi ufficiali e gli
dichiararono la guerra. Bonifacio, che allora trovavasi in Savoja,
attraversò le Alpi, l'anno 1262, ed avanzatosi fino a Rivoli, per
sottomettere i ribelli, venne colà sorpreso e fatto prigioniere dal
repubblicani poc'anzi suoi sudditi; i quali lo custodirono incatenato
fino alla morte, che lo tolse a tanta sventura l'anno susseguente, senza
che gli sforzi de' suoi amici e della potente sua casa gli ottenessero
la libertà.
[182] _Guichenon Hist. généalog. de la maison de Savoie t. I, c.
11._
Il marchese di Monferrato portava un nome forse ancora più illustre di
quello de' conti di Savoja: l'origine dell'una e dell'altra casa è
ugualmente nascosa nelle tenebre: ma le grandi imprese de' marchesi di
Monferrato in Terra santa ed a Costantinopoli, il possedimento del regno
di Tessalonica, loro accordato quando fu diviso l'Impero d'Oriente, e il
fresco parentado di Jolanda, figliuola del marchese Guglielmo con
l'imperatore Andronico Paleologo, aveva sollevato il marchese al rango
de' più ragguardevoli principi italiani. Oltre i feudi, ch'egli
possedeva per diritto ereditario, era, l'anno 1290, capitano e signore
generale di Pavia, Novara, Vercelli, Tortona, Alessandria, Alba ed
Ivrea. Bramava di avere sotto di sè anche la città di Asti, la più
bellicosa, la più ricca e commerciante repubblica del Piemonte. D'altra
parte i Visconti, signori di Milano, adombrati dalla crescente sua
potenza, favorivano sotto mano la città di Asti. Ma questa, non si
accontentando del loro ajuto, cercò alleati fra gli stessi sudditi del
marchese Guglielmo, ed offrì agli Alessandrini, che mostravansi omai
stanchi del dominio del marchese, trentacinque mila fiorini se volevano
discacciarlo e collegarsi con loro. Guglielmo, avvisato di queste
pratiche, corse verso Alessandria; e, sebbene la città tumultuasse, osò
d'entrarvi con debole accompagnamento, o perchè molto si ripromettesse
della sua presenza, o perchè alcuni traditori gli avessero promesso
l'ajuto d'un partito che poi rivolsero contro di lui. Guglielmo appena
giunto avanti al palazzo del comune fu imprigionato; indi chiuso in una
gabbia di ferro ed esposto al pubblico quale bestia feroce. Visse
miseramente diciotto mesi in questa gabbia, nella quale morì di dolore
l'anno 1292[183].
[183] _Guglielmi Venturæ Chron. Astense c. 14, t. XI. — Benven. de
S. Georgio Hist. Montisf. t. XXIII, p. 403._
Una terza catastrofe doveva tra poco far maravigliare la Lombardia,
dando una novella prova dell'instabilità del potere de' signori; fu
questa la caduta della casa Visconti. Matteo, che n'era il capo, aveva
approfittato della morte del marchese Guglielmo e dell'estrema gioventù
di suo figliuolo Giovanni, per estendere la sua signoria sul Monferrato.
Aveva colle armi sforzati i popoli a dargli il titolo di capitano
generale della provincia nella città di Casal Sant'Evasio, che n'era la
capitale: aveva in appresso obbligato il giovane marchese a ratificare
l'usurpato potere con un trattato, in forza del quale ponevasi per
cinque anni sotto la tutela del nemico della sua famiglia[184].
[184] _Trist. Calchi Hist. patriæ l. XVIII._
Matteo Visconti erasi intanto rinforzato con tali parentadi, che ben
dovevano assicurargli una lunga prosperità: perciocchè nel 1298 aveva
data sua figliuola in isposa ad Alboino della Scala, figliuolo
d'Alberto, signore di Verona, uno dei più potenti capi del partito
ghibellino; e nel 1300 ottenne per consorte di Galeazzo suo figliuolo
una figlia del marchese Azzo d'Este, vedova di Nino di Gallura, capo de'
Guelfi pisani. Questa principessa era stata promessa ad Alberto Scotto,
signore di Piacenza; ma Matteo, che voleva ad ogni costo imparentarsi
colla casa d'Este, signora a quell'epoca di Ferrara, Modena e Reggio,
suppiantò il signore di Piacenza, e contrasse una stretta unione coi più
potenti capi di parte guelfa in Lombardia[185].
[185] _Chron. Est. t. XV. — Chron. Parm. t. IX. — Dante Aligh. Purg.
c. VIII, v. 70, ec._ Il poeta rinfaccia a Beatrice le seconde nozze
con soverchia amarezza. Sembra preferire i Visconti di Pisa, da più
secoli sovrani di Gallura, ai Visconti di Milano, usurpatori che
dovevano in breve essere abbattuti. Gli storici milanesi, e
specialmente il Corio ed il Merula prendono da questi versi motivo
di farne acerbi rimproveri a Dante. Abbiamo altrove osservato che,
sebbene queste famiglie portassero lo stesso nome, non avevano però
un'origine comune.
Lo Scotto non dimenticò tanta ingiuria; e, se vi frappose qualche
indugio, no 'l fece che per ottenerne più strepitosa vendetta. Egli
formò contro i Visconti una lega de' signori che governavano in
Lombardia le città di secondo ordine. Il primo a prendervi parte fu
Filippone, conte di Langusco, che già da alcuni anni erasi reso padrone
di Pavia, cacciandone un altro tiranno, Manfredo Beccaria e la sua
fazione. Anche Filippone quasi in egual modo dello Scotto era stato
ingiuriato dai Visconti. Matteo aveva promessa sua figlia al figlio di
Filippone; ma reso orgoglioso da più elevato parentado, gli aveva
mancato di parola del 1302 dando alla figliuola un altro marito. Alberto
Scotto trasse in seguito nella sua lega Antonio Fisiraga, tiranno di
Lodi, Corrado Rusca, tiranno di Como, Venturino Benzone, tiranno di
Crema, la famiglia Cavalcabò, che aveva somma influenza in Cremona,
quella de' Brusati che dominava in Novara, e l'altra degli Avvocati che
aveva la stessa preponderanza in Vercelli. Per ultimo si unì alla lega
il marchese Giovanni di Monferrato, che il Visconti aveva spogliato de'
suoi stati.
I confederati adunarono la loro armata nella Ghiara d'Adda; e quelli
della Torre, esiliati da Milano già da 25 anni, si affrettarono di
unirsi alla lega, siccome altri molti nobili milanesi, segreti nemici di
Matteo, il quale ne fece imprigionare molti altri sospetti di voler
passare al campo nemico. Tra gli ultimi non risparmiò Matteo il proprio
zio Pietro Visconti; indi uscì di Milano alla testa di una parte delle
sue truppe, avendo lasciato in città il figliuolo Galeazzo con due mila
uomini per contenere i Milanesi, che invece di secondarlo andavano
gridando libertà[186].
[186] _Ann. Mediol. anonimi t. XVI, c. 74. — Gal. Flammæ Manip.
Flor. t. XI, c. 341. — Chron. Parm. p. 843. — Trist. Calchi Hist.
Patriæ l. XVIII. — Bern. Corio delle Stor. Milanesi p. II. — Gior.
Giulini Memorie della città e campagna di Milano t. VIII, l. LIX. —
Georgii Merulæ Alexand. Antiq. Vicecom. l. VI. apud Grævium t. III,
p. 118. — Paulus Jovius in Mathæum Mag. ib. — Petri Azarii Chron. de
gestis in Lomb. t. XVI, c. 11. — Chron. Placent. t. XVI, p. 484,
ecc._
La ribellione non tardò a scoppiare in campagna; onde il Visconti
circondato di nemici, e non vedendo giugnere i soccorsi che aveva
domandati al marchese d'Este, accettò la mediazione di alcuni
ambasciatori veneziani e si fece a trattare co' suoi nemici. Durissime
erano le condizioni che gli venivano offerte: tutti gli esiliati
dovevano essere richiamati; e Matteo, rinunciando al supremo potere,
doveva rientrare nella classe de' semplici cittadini. Matteo le accettò,
e licenziata l'armata ritirossi nel suo castello di San Colombano. Prima
che a Milano si avesse notizia di questa trattato, Galeazzo suo
figliuolo era stato dal popolo ammutinato cacciato fuori dalle mura, e
il ristabilimento della repubblica e della libertà proclamato. Con un
decreto del popolo tutti i Torriani venivano richiamati in patria, e
poco dopo con altro decreto esiliati tutti i Visconti.
Questa rivoluzione rinfrescò nell'alta Lombardia le fazioni guelfa e
ghibellina che quasi eransi dimenticate. I Visconti risguardavansi come
Ghibellini, Guelfi i Torriani; ma sì gli uni che gli altri in tempo
della loro signoria non eransi nelle loro alleanze lasciati dirigere
dallo spirito del rispettivo partito. Alberto Scotto per dare maggiore
consistenza al nuovo governo ed alla propria autorità, si diede a vedere
zelante partigiano de' Guelfi, proponendo una lega tra le città che lo
avevano assistito contro i Visconti. In conseguenza di che i deputati di
quelle città si unirono in luglio a Piacenza, ove si pubblicò l'alleanza
tra Milano, Piacenza, Pavia, Bergamo, Lodi, Asti, Novara, Vercelli,
Crema, Como, Cremona, Alessandria e Bologna. Alberto Scotto venne
proclamato capo della lega; e nello stesso tempo, come pacificatore
della Lombardia fu autorizzato a persuadere a tutte le città il richiamo
de' loro fuorusciti, adoperando al bisogno anche la forza[187].
[187] _Chronic. parmense t. IX._
Ma la potenza d'Alberto non ebbe lunga durata, avendo la stessa lega,
che fu sua opera, volte contro di lui le sue armi; perchè lo spirito di
partito, ch'egli aveva ravvivato, era troppo violento per piegarsi a
voglia sua come richiedeva la sua politica. I Guelfi s'adombrarono,
vedendo che Alberto accoglieva ed accarezzava gli emigrati di ogni
fazione. Perciò del 1303 lo costrinsero colle città d'Alessandria e di
Tortona a lasciare la loro alleanza. Allora Alberto offrì ajuto ai
Visconti per rientrare in Milano, di dove gli aveva egli stesso
scacciati; ma quelle forze che avevano potuto ruinarli, non bastarono a
rimetterli nel perduto stato. Per altro s'unì ai Visconti, ai signori di
Mantova e di Verona, e per ultimo a Giberto da Correggio, che si era
fatto allora nominare signore e difensore di Parma.
Del 1304 le truppe della lega guelfa vennero ad attaccare Alberto in
Piacenza; e perchè questa città, ch'egli governava già da quattordici
anni, era insofferente di più lunga signoria, si ribellò. I cittadini di
Cremona e di Lodi, che non volevano esporre al saccheggio una città
vicina e da lungo tempo loro alleata, si ritirarono, lasciando che
Alberto combattesse come poteva contro i suoi sudditi. Tutta l'armata
guelfa seguì l'esempio de' Cremonesi: ma per lo contrario Giberto da
Correggio, ch'era venuto da Parma con due mila soldati in ajuto dello
Scotto, entrò in città come mediatore, e consigliò l'amico a ritirarsi
al più presto che potesse co' suoi figliuoli, onde sottrarsi alla furia
degli ammutinati. Non era appena Alberto uscito di città, che l'amico
tentò di farsi proclamare in suo luogo dai soldati che lo circondavano,
signore di Piacenza. Ma il popolo, che non aveva scacciato un tiranno
per darsene subito un altro, prese le armi, e ripetendo il grido degli
Italiani liberi, _popolo, popolo!_ forzò Giberto a ritirarsi all'istante
coi suoi cavalieri, senza aver potuto cogliere il frutto del tradimento
meditato contro il suo alleato[188].
[188] _Chron. Parm. Synchron. t. IX, p. 852. — Chron. Placen. t.
XVI, p. 485._
(1306) Anche le città di Modena e di Reggio ricuperarono due anni dopo
la libertà. Nel 1289 Modena erasi data al marchese Obizzo d'Este, e del
1293 passò per diritto ereditario in dominio d'Azzo VIII suo figliuolo.
Il 26 gennajo del 1306 il popolo prese le armi e cacciò fuori delle
porte il podestà del marchese, sebbene avesse sotto i suoi ordini una
guarnigione di settecento cavalli e di mille fanti; richiamò tutti i
fuorusciti e ristabilì il governo popolare, manifestando la sua gioja
per la ricuperata libertà con feste continue, alle quali i cittadini
intervenivano ornati di cinture d'oro e di ghirlande di fiori[189].
All'indomani il popolo di Reggio, diretto dai gentiluomini ghibellini,
prese egualmente le armi contro le truppe del marchese, e le costrinse
ad uscire di città[190]. Dopo questa rivoluzione non rimaneva alla casa
d'Este che la sola città di Ferrara, la quale le fu tolta due anni dopo,
quando morì Azzo VIII, come tornerà in acconcio di parlarne nel
susseguente capitolo.
[189] _An. Vet. Mutin. t. XI. — Chron. Est. t. XV._
[190] _Chron. Rheg. Gazatœ t. XVIII._
Tante rivoluzioni, eseguitesi in nome dei due partiti guelfo e
ghibellino, potrebbero facilmente farci credere che recenti motivi di
discordia avessero inasprite queste fazioni, e che l'imperatore ed il
papa, pei di cui interessi pretendevano di combattere, avessero fatte
nuove pratiche per mettere loro le armi in mano. Niente di tutto questo;
che anzi Alberto d'Austria, re dei Romani, non si curando punto delle
cose d'Italia, era assai lontano dal dare ajuto ai Ghibellini, ed
osservava con indifferenza questa bella contrada del suo impero desolata
dall'anarchia. Da ciò l'imprecazione di Dante contro di lui:
«O Alberto Tedesco, che abbandoni
Costei che è fatta indomita e selvaggia,
E dovresti inforcar li suoi arcioni,
«Giusto giudizio dalle stelle caggia
Sovra 'l tuo sangue, e sia nuovo ed aperto,
Tal che il tuo successor temenza n'aggia.
«Che avete tu e 'l tuo padre sofferto,
Per cupidigia di costà distretti,
Che 'l giardin de lo imperio sia diserto»[191].
[191] _Purgat. C. VI, v. 97._ — Alcuni commentatori videro in questa
imprecazione il presagio della violenta morte d'Alberto d'Austria
ucciso in maggio del 1308 da suo nipote Giovanni; onde si volle
conchiudere che fosse scritto dopo: ma il caldo dell'imprecazione lo
mostra dettato quando Alberto ricusò d'ajutare i Ghibellini.
Dall'altro canto il papa, lungi dal fomentare la discordia tra le
nemiche fazioni, pareva che avesse dimenticato che la guelfa gli era
affatto ligia; onde impiegava i consigli, l'autorità e perfino i più
severi castighi spirituali per riconciliarle.
Nel 1303, dopo la morte di Bonifacio VIII, i suffragi de' cardinali
eransi uniti in favore di Niccola, cardinale d'Ostia, oriondo di
Trevigi. Le virtù ed i talenti lo avevano per gradi, da ignobile e
povero stato, sollevato alla dignità di cardinale[192]. Egli prese il
nome di Benedetto XI quando, soltanto quattro giorni dopo la morte di
Bonifacio, fu proclamato papa (14 ottobre). A tale epoca non contavansi
che diciotto cardinali, il più accreditato de' quali era Matteo Rosso
degli Orsini, quello che aveva tenuto fino alla morte papa Bonifacio in
una specie di prigione. Quattro cardinali suoi parenti gli davano in
collegio la più grande influenza; ma pare che Matteo Rosso non cercasse
di farsi nominare papa; ed è anzi probabile che cercasse di assoggettare
la chiesa ad un governo aristocratico, privando il capo di tutta la sua
autorità. Di fatti Benedetto XI non poteva sottomettere alla giustizia i
cardinali ed i magnati potenti, che, circondati di satelliti,
conquassavano la città di Roma colle loro passioni e non soffrivano il
giogo delle leggi. I Colonna, sebbene ancora proscritti, erano tornati
in città con un corpo di gente armata; altri non meno delinquenti
signori non avevano paura del pontefice; il quale isolato in mezzo ad
una procellosa corte, non aveva, per essere poveramente nato, nè
parenti, nè naturali alleati che lo circondassero e fossero depositari
del suo segreto. Vedevasi perciò sferzato a tollerare o dissimulare uno
scandalo e dei delitti che il suo cuore detestava[193].
[192] _Raynaldi Ann. Eccles. § 45 ad an._
[193] _Ferreti Vicentini Hist. l. III, t. IX._
Benedetto dovette soggiacere a tale tirannide fino al cessare
dell'inverno; ma avvicinandosi il caldo della state, del 1304, fece
conoscere la sua intenzione di soggiornare in Assisi finchè durasse il
cattivo aere di Roma. I cardinali si opposero risolutamente a tale
viaggio, ed il papa avrebbe dovuto dimetterne il pensiero, se per
qualche segreto motivo non prendeva a favorirlo Matteo Rosso degli
Orsini. Col di lui favore uscì ben tosto di Roma, e passando per Viterbo
e per Orvieto giunse a Perugia, ove fu ricevuto quale padre de' fedeli,
e non più come il servitore de' cardinali. Colà prese con mano più
sicura le redini della chiesa; e cercò di riconciliare i Bianchi ed i
Neri di Firenze, ordinando al governo di quella repubblica di chiamare
dall'esilio Vieri de' Cerchi: ma vedendo tornar vane le sue inchieste,
fulminò la scomunica contro Firenze.
Si diceva che Benedetto per liberarsi dalla tirannia de' cardinali e de'
grandi signori di Roma avesse risolto di portare la sede pontificia in
Lombardia. Mentre doveva incessantemente occuparsi della propria
sicurezza, mentre doveva far uso di tutta la sua autorità per
ristabilire la pace ne' paesi in cui pensava di soggiornare stabilmente,
non osava il papa di provocare l'inimicizia del più potente sovrano
d'Europa, di un uomo che aveva di già mostrato di tenere per legittimi
tutti i mezzi che potevano nuocere ai suoi nemici. Perciò Benedetto fece
molte pratiche per riconciliarsi con Filippo il bello, e lo assolse co'
suoi sudditi e ministri dalla scomunica in cui erano incorsi per avere
sostenuti quelli che andavano a Roma, o vi mandavano danaro. È pure
probabile che fossero colla stessa bolla assolti tutti coloro che
avevano presa parte alla sacrilega prigionia di papa Bonifacio, tranne
il solo Guglielmo di Nogareto[194].
[194] Questa bolla ed una lettera a Filippo il bello, datate amendue
in Perugia il giorno tre degl'idi di maggio, sono riferite dal
_Rayn. 1304, § 9 e 10_. — Due frasi incidenti, e che non hanno che
fare con tutto il resto della bolla, assolvono, senz'addurne motivo,
i complici della prigionia di Bonifacio. Io le credo aggiunte dopo
redatta la carta. È cosa abbastanza nota che gli atti di questo
pontefice e del suo predecessore furono adulterati sfrontatamente in
tempo della dimora della corte in Avignone. Intere pagine furono
levate dai registri papali, cancellate ed aggiunte delle linee,
secondochè il re di Francia lo credette a sè vantaggioso.
Intanto Benedetto ondeggiava irresoluto tra la politica ed i doveri
della sua carica: troppo grave era l'ingiuria sostenuta da Bonifacio e
di troppo pericoloso esempio, perchè i suoi successori la lasciassero
affatto impunita. Se Benedetto avesse ottenuta una perfetta
indipendenza, non avrebbe ommesso di chiedere ragione a Filippo della
sua sacrilega condotta. Manifestò pure scopertamente questa sua volontà
in una nuova bolla datata in Perugia il 7 di giugno. «Abbiamo, egli
dice, differita finora per giusti motivi la punizione dell'esecrabile
delitto che alcuni scellerati commisero contro la persona del nostro
predecessore, Bonifacio VIII di felice ricordanza. Ma non possiamo più
oltre differire a levarci, o piuttosto Dio stesso deve levarsi con noi
per castigare i suoi nemici, e scacciarli dal suo cospetto.» — Benedetto
annovera ad uno ad uno coloro che aveva egli stesso veduto prender parte
a tanta iniquità, fra i quali Guglielmo di Nogareto e quattordici
gentiluomini, quasi tutti italiani: e dopo aver dipinto il loro misfatto
co' più vivi colori, soggiugne: «Avendo dunque osservate le forme di
diritto, dichiariamo che tutti coloro che abbiamo nominati e tutti gli
altri che parteciparono allo stesso delitto, tutti quelli che colla
propria persona concorsero agli attentati commessi in Anagni contro
Bonifacio, e tutti quelli che diedero, per commetterli, soccorsi,
consigli, favore, sono incorsi nella sentenza di scomunica pronunciata
dai sacri canoni. Col consiglio de' nostri fratelli ed in presenza di
tanta moltitudine di fedeli, li citiamo perentoriamente a presentarsi in
persona avanti di noi prima della festa dei ss. Apostoli Pietro e Paolo,
per udire la giusta sentenza che coll'ajuto del Signore noi pronunceremo
sui notorj attentati di cui abbiamo parlato»[195].
[195] La bolla è riferita dal _Raynald. 1304, t. XIV, § 13_.
Filippo il bello poteva ritenersi colpito da questa nuova bolla di
scomunica, e non tardò ad accorgersi che il papa cominciava a credersi
indipendente; onde concepì forse allora l'ardito disegno, che poi eseguì
in tempo del primo interregno, di assoggettarsi interamente la corte
pontificia: e l'odioso carattere di questo principe che Dante chiamò _la
peste della Francia_, rende verosimile ogni delitto. Secondo Ferreto di
Vicenza, storico contemporaneo[196], avvertito Filippo che il papa stava
contro di lui preparando formidabili bolle, valendosi dell'opera di
Napoleone, cardinale degli Orsini, e di Giovanni le Moine, cardinale
francese, sedusse col danaro due scudieri del papa, i quali posero del
veleno ne' fichi fiori che presentarono al padrone. Il pontefice
sostenne otto giorni i tormenti del veleno che gli mangiava le viscere,
e morì il 4 di luglio del 1304. Giovan Villani accusa di questo delitto
i soli cardinali: e Francesco Pipino e Dino Compagni, altri coetanei,
confermando le circostanze del veleno, non ardiscono nominare alcuna
persona[197]. Il Raynaldo, nell'atto di dar principio alla scandalosa
istoria de' papi francesi di Avignone, par che tema ad ogni istante di
compromettersi, e sopprime quest'accusa di veleno, per lo meno
abbastanza autentica per essere da lui confutata.
[196] _Ferreti Vicent. Hist. l. III, t. IX._
[197] _Gio. Villani l. VIII, c. 80. — Fran. Pipini F. Ord. Præd.
Chron. l. IV, c. 48, t. IX. — Cronaca di Dino Compagni l. III._
Morto Benedetto XI, i cardinali, in numero di venticinque, adunatisi in
Perugia, si chiusero in conclave; ma quando vollero passare all'elezione
del papa, si divisero in due fazioni, dirette da due capi, ambedue della
casa Orsini. Matteo Rosso Orsino, che aspirava egli stesso alla tiara,
aveva nel suo partito il cardinale francese Caietano, nipote di
Bonifacio VIII, e tutti quelli ch'erano attaccati a quel papa, alla sua
famiglia ed all'antico partito guelfo. Napoleone degli Orsini, capo
dell'altra fazione, era appoggiato dal cardinale Niccola d'Acquasparta
di Prato e da tutti coloro ch'erano affezionati ai Colonna, al re di
Francia, al Ghibellini. Dopo sei mesi di replicate inutili prove, i
cardinali si persuasero che niuno dei due capi di parte e niuno dei
membri del sacro collegio riunirebbe giammai i due terzi dei suffragi
necessarj all'elezione.
(1305) Intanto i Perugini, intolleranti di tanto ritardo, cominciavano a
minacciare i cardinali ed a minorare le razioni dei viveri. Bisognava
finalmente uscirne in un modo o nell'altro, onde il cardinale di Prato
propose al cardinale Caietano, capo della contraria fazione, un
espediente che pareva conciliare i diritti di tutti, ed affrettare in
pari tempo l'elezione. Da che si tentò finora invano d'unire i suffragi
in favore di un Italiano, si provi, disse, a nominare un oltramontano: e
acciocchè le due parti abbiano un'eguale parte in questa nomina,
propongo che un partito presenti tre prelati, e che l'altro entro
quattro giorni debba scegliere tra i proposti, oltre di che lasciò al
cardinale Caietano ed alla sua fazione quella delle due funzioni che più
le aggrada. La proposizione essendo accettata ed approvata da tutti i
cardinali, se ne stese un atto che fu sottoscritto da tutti, ed il
partito antifrancese scelse di presentare i tre prelati, credendosi in
tal modo sicuro di avere un papa a modo suo, qualunque fosse l'eletto.
Per essere più certo delle future loro disposizioni, presentò tre
prelati notoriamente nemici del re Filippo, ponendo pel primo Bertrando
di Gotte, arcivescovo di Bordeaux, che aveva gravi motivi di dolersi di
Filippo e di Carlo di Valois suo fratello. Erano francesi anche gli
altri due prelati.
Appena fu questa scelta comunicata al partito ghibellino, che il
cardinale di Prato spedì un corriere a Filippo per informarlo della
convenzione fatta tra i cardinali, e per consigliarlo a scegliere
Bertrando di Gotte dopo essersene assicurato. Filippo, quand'ebbe
ricevuto quest'avviso a Parigi l'undecimo giorno, partì subito per la
Guascogna, invitando il prelato ad un abboccamento in una abbazia posta
in mezzo ad una foresta presso a san Giovanni d'Angely, ove recaronsi
ambedue con poco seguito: «udita insieme la messa, e giurata in su
l'altare credenza, lo re parlamentò con lui con belle parole per
riconciliarlo con messer Carlo di Valois; e poi sì gli disse: _Vedi,
arcivescovo, io ho in mia mano di poterti fare papa, s'io voglio, e però
sono venuto a te, perchè se tu mi prometti di farmi sei grazie, ch'io ti
domanderò, io ti farò questo onore; e acciò che tu sia certo ch'io ne ho
il podere_ trasse fuori e gli mostrò le lettere e le commissioni
dell'uno collegio e dell'altro. Il Guascone convidoso della dignità
papale, veggendo così di subito, come nel re era al tutta il poterlo
fare papa, quasi stupefatto d'allegrezza, li si gittò ai piedi e disse:
_Signore mio, ora conosco che m'ami più che uomo che sia e vuommi
rendere bene per male; tu hai a comandare, e io ad ubbidire, e sempre
sarò così disposto_. Lo re lo rilevò suso, e baciollo in bocca, e poi li
disse: _Le sei speziali grazie che io voglio da te sono queste. La prima
che tu mi riconcilj perfettamente colla chiesa, e facciami perdonare il
misfatto ch'io commisi per la presura di papa Bonifazio. La seconda di
ricomunicare me e miei seguaci. La terza che mi concedi tutte le decime
per cinque anni del mio reame per ajuto alle spese fatte alla guera di
Fiandra. La quarta che tu mi prometti di disfare e annullare la memoria
di papa Bonifazio. La quinta che tu renda l'onore del cardinalato a
messer Jacopoli e messer Piero della Colonna, e rimetterali in istato, e
facci con loro insieme certi miei amici cardinali. La sesta grazia e
promessa mi riserbo a luogo e a tempo, ch'è secreta e grande_.
L'arcivescovo promise tutto per saramento in sul _Corpus Domini_, e
oltre a ciò li diede per istadichi il fratello e due suoi nipoti; e lo
re promise e giurò a lui di farlo eleggere papa.»
Tutta questa negoziazione era stata condotta col più profondo segreto,
ed i cardinali Matteo Rosso e Caietano non sospettarono pure che il re
di Francia conoscesse la loro convenzione. Trentacinque giorni dopo la
partenza del suo corriere, il cardinale di Prato ricevette la risposta
di Filippo e l'ordine di eleggere l'arcivescovo di Bordeaux. Dopo aver
comunicato il riscontro al suo partito, fece prevenire l'altro d'essere
disposto a pronunciare. In una generale assemblea furono notificate con
nuovi giuramenti le precedenti convenzioni; indi il cardinale di Prato
recitò un sermone sopra un passo della scrittura, ed in virtù
dell'autorità conferitagli elesse papa messere Bertrando di Gotte,
arcivescovo di Bordeaux. Allora fu secondo l'usanza intuonato il
_Tedeum_, e con eguale allegrezza da ambo le parti, perchè ognuno
credeva d'avere un papa tutto suo. Quest'elezione si pubblicò il 5
giugno del 1305 dopo un interregno di dieci mesi e ventotto giorni[198].
[198] Il racconto di _Gio. Villani l. VIII, c. 80_ viene confermato
da sant'Antonino _p. III, tit. 21, c. 1_, ed adottato da Raynaldo,
che riportò ne' suoi Annali uno squarcio dell'ultimo, _t. XV, p. I,
Ann. Eccles._
O sia perchè Bertrando, che prese il nome di Clemente V, volesse far
pompa della sua nuova dignità in su gli occhi de' suoi compatriotti, o
che la maniera con cui i cardinali avevano trattati i due ultimi suoi
predecessori gli facesse paura, o finalmente che il re Filippo si
opponesse al suo viaggio, invece di recarsi a Roma, a seconda
dell'invariabile costumanza della chiesa, invece di venire a dirigere la
sua greggia, a prendere le redini del governo de' suoi stati, il papa
You have read 1 text from Italian literature.
Next - Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 04 (of 16) - 11