Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 04 (of 16) - 18

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la guardia a Vanne Scornazano ed a' suoi mercenarj: ma appena giunsero
al luogo in cui volevano fissare il campo, che lo stesso Scornazano,
sortendo dal sobborgo, si avanzò verso il podestà Ponzino e Giacomo di
Carrara, che stava co' principali capi dell'armata: «E qual è, disse,
cittadini di Padova, la vostra maniera di fare la guerra? che significa
quest'indulgenza pei vinti? voi non sapete approfittare della vittoria,
e la vostra pretesa dolcezza sarà da tutto il mondo giudicata debolezza
e pusillanimità. Quando le vostre genti furono vinte si sottrassero alle
ferite o alla morte? vi diedero mai i vostri nemici l'esempio di questa
indulgenza, o piuttosto di questa viltà? Coi nemici accaniti non devesi
risparmiare nè il ferro, nè il fuoco, nè il saccheggio. Accordate ai
vostri soldati il bottino del sobborgo, altrimenti tra poco gli abitanti
ben sapranno trafugare tutte le loro ricchezze[329].»
[329] _Albertinus Mussatus l. VI, Rub. I._
Ponzino ed i capi del popolo si rifiutarono a questa domanda; ma i
mercenarj non avevano aspettata la decisione del consiglio; ed il
saccheggio era già cominciato. Gli sventurati abitanti del sobborgo, cui
era stata guarentita la sicurezza, furono all'improvviso trattati con
tutto il rigore; e lo stesso Ponzino chiuse gli occhi sulla condotta de'
proprj satelliti che davano l'esempio di tutti i delitti. I mercenarj,
incaricati di custodire la porta che comunica colla città,
l'abbandonarono per ispargersi per le case, e ben tosto la ciurmaglia
del popolo padovano arrivò sollecitamente dal campo per dividere le
spoglie del sobborgo. Furono gettate ne' campi tutte le munizioni che
erano state portate sui carri che seguivano l'armata, onde caricarli de'
più preziosi effetti del bottino: nè i sacri vasi delle chiese, nè le
cose de' monasterj furono rispettate; e la brutalità de' soldati espose
agli ultimi oltraggi le spose e le figlie de' Vicentini, e perfino le
vergini consacrate a Dio[330].
[330] _Ferreti Vic. Hist. l. VI. — Albert. Mussatus Hist. Ital. l.
VI, Rub. I. — Cortus. Hist. l. I, c. 23._
Frattanto, avanti l'ora terza del giorno, era stato dato avviso a Cane
della Scala, che trovavasi a Verona, della presa del sobborgo; e tosto
gittatosi in ispalla l'arco, ch'egli soleva spesso portare all'usanza
de' Parti, corse a cavallo a Vicenza con un solo scudiere. Giunto in
città, dopo avere due volte mutato cavallo, chiamò i suoi compagni
d'armi; e non fermandosi che il tempo necessario per bevere un bicchiere
di vino che gli fu presentato da una povera femmina, fece aprire la
porta di Liseria e piombò sui Padovani con soli cento uomini d'armi
ch'eransi adunati intorno a lui. Tutta l'armata padovana era occupata
nel saccheggio o nella dissolutezza. Cane non trovò nel sobborgo veruna
resistenza; alquanto più in là venne fermato un istante da un piccolo
corpo di gentiluomini, fra i quali trovavasi Albertino Mussato, ma
questo pure fu sgominato, ed Albertino scavalcato, fu fatto prigioniere.
A non molta distanza toccò la medesima sorte a Giacomo di Carrara. Tutto
il rimanente dell'armata più non pensò a difendersi, ed era così grande
il terrore de' Padovani, che Cane trovossi, inseguendoli, con soli
quaranta cavalieri, preso in mezzo da cinquecento cavalli fuggitivi
ch'egli si era lasciati addietro. Questi ultimi sembravano agli occhi
de' primi fuggitivi far parte dell'armata di Cane, ed accrescevano il
terrore; essi medesimi conoscevansi posti tra due corpi nemici, e non
osavano di far fronte. In questa disfatta Vanne Scornazano, che l'aveva
procurata, Giacomo e Marsiglio di Carrara ed altri venticinque cavalieri
con circa settecento plebei furono fatti prigionieri. Il numero de'
morti indica il cominciamento di quelle guerre incruenti che avvilirono
il coraggio delle truppe italiane: non si trovarono sul campo di
battaglia che sei gentiluomini e trenta plebei[331].
[331] _Albert. Muss. l. VI, R. II. — Ferretus Vic. l. VI. — Chron.
Veron. t. VIII, p. 641._
Dopo tale disfatta i Padovani cercarono di fortificarsi, chiamando in
loro soccorso gli alleati di Treviso, Bologna e Ferrara. Dal canto suo
Cane della Scala fece domandare rinforzi al capo del partito ghibellino,
ai Buonacorsi di Mantova, al duca di Carinzia ed a Guglielmo da
Castrobarco, coi quali credeva di potersi rendere padrone di Padova.
L'eccessive piogge, che inondarono tutta la campagna, ritardarono dieci
giorni tutte le operazioni militari. Frattanto Cane della Scala riceveva
alla sua corte i suoi più distinti prigionieri, Giacomo di Carrara,
Vanne Scornazano ed Albertino Mussato. L'ultimo era nato nella più bassa
classe del popolo, da cui l'avevano innalzato i suoi talenti e la sua
erudizione; ed era risguardato come uno de' più letterati uomini del suo
secolo. «Peraltro, dice Ferreto di Vicenza, non era stato ancora
decorato di una corona di lauro o di ellera col titolo di poeta, non
aveva ancora pubblicata la sua storia, e la sua tragedia d'Ezelino non
comparve che dopo che gli fu dato il titolo di poeta. Ma egli
amministrava già con somma vigilanza gli affari della sua repubblica, ed
in pari tempo compilava con somma cura la storia de' fatti d'Enrico VII
e de' mali d'Italia. Era un uomo di vasti talenti, dotato di prudenza e
di facondia: non andò debitore che a sè medesimo, che ai proprj talenti
del titolo e della corona di poeta; perciocchè non essendo nato
d'illustri parenti non aveva ereditate nè ricchezze, nè credito nella
sua patria; ma sebbene uscito dall'ultima classe, fu dai tribuni e dai
magistrati del popolo innalzato al grado de' padri consolari ed ai primi
onori della repubblica Padovana. Egli ricevette per compenso de' suoi
talenti e delle sue fatiche grandissima fama e grandi ricchezze, che gli
furono assegnate sul tesoro pubblico[332].» Per tal modo il titolo di
poeta, ed una capacità che oggi non ci sembra singolare ottenevano
allora non solo la gloria, ma ancora le ricchezze ed il potere. Al
presente le poesie del Mussato e la sua tragedia non lo salverebbero
dall'obblio; la sua stessa storia è riputatissima solo per essere
contemporanea, e malgrado la molta luce che sparge intorno ai più
importanti avvenimenti di quei tempi, il nome del Mussato non è noto che
a pochi eruditi.
[332] _Ferretus Vicent. l. IV, p. 1145._
Frattanto la sospensione delle ostilità che non era che una conseguenza
delle inondazioni, e le frequenti conferenze dei capi de' Padovani con
Cane della Scala, ridussero le due parti a proposizioni di pace. Allora
fu che Giacomo da Carrara contrasse segreta amicizia con Cane, onde fu
posto in libertà per trattare personalmente intorno alla pace nella sua
patria.
Giacomo di Carrara ammesso nel senato di Padova dovette disputare contro
Macaruffo, capo de' patriotti, che diffidava della sua ambizione. Non
voleva Macaruffo che la repubblica compromettesse l'onor suo accettando
la pace dopo una disfatta; ma erano così eque le proposizioni di Cane,
che non erano ingiuriose a Padova: ogni città doveva tornare in possesso
del suo antico territorio; i diritti patrimoniali dei cittadini padovani
nel distretto di Vicenza dovevano essere loro restituiti; e la
repubblica di Venezia veniva chiamata garante del proposto trattato. A
tali onorevoli condizioni la pace fu infatti accettata dal senato di
Padova, e sottoscritta il 20 ottobre del 1314[333].
[333] _Alber. Mussatus l. VI, Rub. 10._
Questa pace per altro non ebbe lunga durata: i Padovani cercavano
opportunità di vendicarsi dell'avuta disfatta; i Vicentini soffrivano
impazientemente il giogo di Cane della Scala e domandavano spesso ai
loro vicini di ajutarli a scuoterlo. Macaruffo ed i suoi partigiani
favorivano i Vicentini malcontenti; ma Giacomo da Carrara era
segretamente attaccato a Cane. I primi si fecero lecito di entrare senza
il consentimento della repubblica in una congiura, che doveva esserle
cagione di grandi calamità.
Il 21 maggio del 1317 gli esiliati di Vicenza, quelli di Verona e di
Mantova ed i loro partigiani di Padova, che avevano prese le armi per
soccorrerli, si portarono di notte presso ad una porta di Vicenza che
alcuni traditori avevano promesso di consegnar loro: ma essi medesimi
erano traditi da coloro che credevano aver guadagnati col danaro. Cane,
avvisato del loro arrivo, gli stava aspettando in città; e quando
duecento di loro ebbero passato la porta, piombò sopra di loro e tutti
gli uccise o fece prigionieri. In seguito attaccò gli altri rimasti al
di fuori, li ruppe, e gl'incalzò fino sul territorio di Padova[334].
[334] _Ferr. Vicentini l. VII. — Historiæ Cortusiorum l. II, c. 11._
Cane della Scala si lagnò d'avere i Padovani rotta la pace con lui
conchiusa, e domandò che la repubblica di Venezia gli obbligasse a
pagare venti mila marchi d'argento; pena imposta a coloro che
commettessero le prime ostilità. Dal canto loro i Padovani assicuravano
di non aver presa parte nella congiura che non era stata diretta che dai
fuorusciti; ma Cane, dopo avere condannati a morte cinquantadue
congiurati fatti da lui prigionieri, venne colla sua armata a guastare
il territorio di Padova; e prima che terminasse la campagna s'impadronì
dei forti di Monselice, di Montagnana e di Este[335]. Anche nell'inverno
e nella susseguente primavera continuò a guastare le campagne de'
Padovani, senza che questi fossero a portata di fargli resistenza.
Risparmiò per altro le terre appartenenti alla casa da Carrara; ma era
tale la leggerezza del popolo padovano, che a quest'epoca aveva
collocata tutta la sua confidenza nella medesima casa da Carrara; e
rimproverando Macaruffo d'avere eccitata una così disastrosa guerra, lo
sforzò a cercare, con tutti i veri patriotti, sicurezza nell'esilio.
Finalmente come la repubblica soffriva ogni giorno nuovi mali, i
partigiani dei Carraresi, che occupavano soli tutte le magistrature,
adunarono il senato dei decurioni, onde provvedere ai pericoli della
patria. Poichè molti senatori ebbero parlato delle tristi circostanze in
cui trovavasi lo stato, Rolando di Placiola giureperito si levò: «Qual
bisogno di più lungo discorso, diss'egli, o cittadini! il rimedio per
noi salutare e per la nostra patria è bastantemente conosciuto. L'abuso
de' plebisciti l'abbiamo provato, egli ci conduce a certa ruina;
proviamo una volta se le leggi di un solo uomo ci possono procurare
miglior sorte. Ogni cosa sulla terra è sottomessa ad una sola volontà;
le membra ubbidiscono alla testa; le mandre riconoscono un capo. Se
tutto il mondo dipendesse da un re giusto si vedrebbero cessare le
carnificine, la guerra, la rapina e tutte le vergognose azioni. Siamo
docili alle voci della natura, seguiamo l'esempio che ci dà; facciamo
tra noi scelta del nostro principe. Egli solo si prenda cura del
governo, moderi la repubblica colla sua volontà, stabilisca le leggi,
rinnovi gli editti, abolisca quelli che più non si osservano; egli sia,
in una parola, il signore, il protettore di tutto quanto ci
appartiene[336].» Con questi luoghi comuni un partigiano del despotismo
determinò il popolo, stanco di tante agitazioni, a privarsi della
propria esistenza. Il suicidio politico si compì; niuno rispose al
discorso del Placiola, e Giacomo da Carrara fu universalmente indicato
come il solo capace di comandare alla nazione. Non si contarono i
suffragi, secondo l'antica costumanza, con palle segrete; ma con una
acclamazione, che parve universale, Giacomo da Carrara fu proclamato
principe di Padova. Circondato dai consiglieri, presentossi egli al
popolo sulla piazza pubblica, ove Rolando della Placiola replicò il suo
discorso; e le acclamazioni de' partigiani della casa di Carrara, che
occupavano tutte le uscite della piazza, parvero approvare la
risoluzione presa dal senato. Così ebbe fine la repubblica di Padova, e
cominciò il principato dei Carraresi il 28 luglio del 1318[337].
[335] _Cortusior. Histor. l. II, c. 1. — Albert. Mussatus
fragmentum, seu l. VIII._
[336] _Ferretus Vicent. l. VII._
[337] _Cortusior. Hist. l. II, c. 27, p. 814. — Ferretus Vicent. l.
VII, p. 1179. — Gattaro Istoria Padovana, t. XVII, p. 9. — Polistore
t. XXIV, c. 8, p. 724._
Non abbiamo annoverata tra le libere città dell'Italia settentrionale
quella di Cremona, sebbene di que' tempi si governasse a comune; ma
questa città, lacerata da interne fazioni, aveva così frequentemente
mutato governo e tante volte era venuta in dominio d'un solo, che non
conosceva la libertà più di quello che la conoscessero le città da lungo
tempo cadute in servitù. Quasi nello stesso tempo di Padova, Cremona
rinunciò di nuovo e solennemente al governo popolare.
Cremona era stata ruinata dall'imperatore Enrico VII e non erasi più
rialzata dal colpo allora ricevuto: il territorio di questa città era
affatto aperto, atterrate le fortificazioni de' suoi castelli e
villaggi; e nella crudel guerra ch'eransi fatte in quest'epoca le
nemiche fazioni, aveva la città medesima perdute in gran parte le sue
ricchezze e la sua popolazione. Cane della Scala, signore di Verona, e
Passerino dei Bonacorsi, signore di Mantova e di Modena, progettarono di
sottomettere questa città e quelle di Parma e di Reggio. Erano tutte tre
governate dal partito guelfo e sembravano situate a posta loro.
Convennero di dividerle tra di loro, ed attaccarono prima delle altre
Cremona, siccome la più debole e la più vicina[338]. Durante l'estate
del 1315, guastarono il territorio cremonese, occuparono molti villaggi
che non poterono resistere, altri ne presero d'assalto, trucidandone gli
abitanti. I Cremonesi tormentati dalla fame e dalla miseria, col nemico
alle porte, perciocchè Cane si era innoltrato fino al sobborgo di Cossa,
e col territorio tutto guasto, tranne pochissimi villaggi, erano inoltre
agitati da intestine discordie. Il popolo attribuiva ai grandi le
sventure della repubblica ed andava dicendo che per mettere fine alle
loro dissensioni conveniva dare un capo allo stato; che per difendere i
popoli dall'attuale maniera di trattare la guerra, non era vi che il
governo d'un solo; che Verona, Parma, Mantova, Milano, quasi tutte le
città della Lombardia, offrivano un esempio ch'era omai tempo d'imitare;
che tornerebbe minore vergogna ai Cremonesi dall'ubbidire ad un loro
concittadino, che a Cane o a Passerino; e che un principe potrebbe solo
far cessare gli odi che avevano fatto spargere tanto sangue e mandare in
esilio tanti cittadini.
[338] _Albertini Mussati de gest. Ital. l. VII, R. 19, p. 675. —
Campi Cremona Fedele, l. III, p. 89._
Frattanto il partito repubblicano cercava di protrarre l'esecuzione di
così funesto consiglio; ed alla testa degli amici della libertà Ponzino
Ponzoni, capo dei Ghibellini, andava ripetendo che preferiva di vedere
la sua patria preda delle fiamme, piuttosto che sotto il giogo di un
tiranno[339]. Malgrado la sua resistenza scoppiò tra la plebe una
sedizione il 5 settembre del 1315. Giacomo marchese Cavalcabò fu
condotto al pretorio dai sediziosi e proclamato signore della città. Gli
amici della libertà si ritirarono ne' villaggi e gli eccitarono alla
sommossa: Ponzino Ponzoni, citato da Cavalcabò a tornare in città,
rispose; «non aver fin allora combattuto contro i nemici dello stato che
per sottrarsi alla servitù; e non sapere adesso quale motivo potrebbe
mettergli le armi in mano contro gli stranieri, mentre la scure della
tirannide stava sospesa sopra tutte le teste; che per ultimo non
riconosceva altra patria che Cremona libera.» L'opposizione del Ponzoni
a questa infelice risoluzione non tardò ad essere giustificata dagli
avvenimenti; dopo sei mesi le guerre civili forzarono il marchese
Cavalcabò a rinunciare la signoria tra le mani di Giberto da Correggio;
le guerre esterne colmarono la miseria di Cremona; ed il giorno 17
gennajo del 1322, impadronitosene Galeazzo Visconti, la riunì alla
signoria di Milano[340].
[339] _Alberici Mussati de Gest. Ital. l. VII, Scr. Rer. It. 20. p.
667._
[340] _Ludov. Cavitelius Cremon. Annales, apud Graevium t. III, p.
1367._
Molte delle città della Lombardia e della Marca erano governate dai
signori, senza per altro avere rinunciato ad ogni desiderio di libertà.
Tante violenze erano state commesse in nome dei due partiti guelfo e
ghibellino, accesi tanti odj, tante vendette provocate, che il primo
desiderio dei cittadini e specialmente dei gentiluomini, era il trionfo
della propria fazione e la proscrizione degli avversarj. Una selvaggia
indipendenza era per loro preferibile alla libertà; essi misuravano i
loro diritti colle loro forze, e non supponevano che potessero essere
limitati dalle leggi. Nelle città poste nel centro della Lombardia, in
mezzo a quelle vaste campagne che avevano dato tanto vantaggio alla
cavalleria dei gentiluomini sopra l'infanteria de' borghesi, in Cremona,
Crema, Lodi, Piacenza, Pavia, Parma, Modena e Reggio, non eravi durevole
tirannide assicurata ad una sola casa, perchè l'eguaglianza delle forze
dei due partiti guelfo e ghibellino, non lasciava a veruna usurpazione
il tempo di consolidarsi; ma non perciò eravi maggior libertà che
altrove. Ogni anno veniva contraddistinto da qualche nuova rivoluzione;
per altro soltanto cambiavansi gli uomini senza che il governo lasciasse
mai d'essere militare e dispotico. A popoli divisi in partiti che mai
non posavano le armi, erano necessari capi assoluti, e quand'ancora
proclamavansi talora i nomi di libertà e di repubblica, e ripetevansi
per le contrade il grido di _popolo, popolo_, per iscacciare un tiranno
diventato esoso ai cittadini, non per ciò si ristabiliva un libero
governo. I consigli non erano organizzati con abbastanza di forza perchè
potessero ricuperare la sovranità, non conoscevasi omai che l'autorità
degl'individui, e gli atti arbitrari non venivano più risguardati dai
cittadini quale violazione dell'ordine sociale; non credevano illegale
tutto quanto non era ingiusto; ed applaudivano sempre ai podestà ed ai
giudici che castigavano i colpevoli, quand'ancora l'amministrazione
della giustizia era nelle loro mani diventata arbitraria, e che
disprezzavano tutte le forme prescritte dalle leggi andate in
dissuetudine.
Per altro allorchè qualche vittoria faceva entrare un capo di parte in
una di queste città, sebbene i suoi partigiani lo rivestissero del
potere militare e delle attribuzioni giudiziarie de' podestà, non però
doveva trovare abbastanza soddisfatta la sua ambizione: i suoi
partigiani volevano essere troppo indipendenti; i suoi nemici,
quantunque esiliati, non cessavano di essere pericolosi, tenendosi
sempre armati; l'esempio de' suoi predecessori e de' vicini lo avvertiva
che l'autorità sovrana era di breve durata, e che, lungi dal poterla
trasmettere ai suoi figliuoli, non potrebbe conservarla egli medesimo
fino alla morte. Tale incerta situazione eccitava tutte le passioni di
un ambizioso, il quale, dopo essersi innalzato coi talenti militari,
cercava di assicurarsi l'usurpata autorità con una politica, ora
perfida, ora crudele. Il marchese Cavalcabò a Cremona, Alberto Scotto a
Piacenza, Venturino Benzone a Crema, Giberto da Correggio a Parma,
Matteo Visconti a Milano, Manfredi Beccaria e Filippone di Langusco a
Pavia, ed altri venti tiranni occupavansi sempre di così fatte trame.
Abbiamo abbandonate le particolarità degli oscuri loro complotti, che
altro non sono che una lunga serie di tradimenti. Le frequenti
ripetizioni degli stessi atti di slealtà avevano accostumati i tiranni a
non vergognarsene, i popoli a non maravigliarsene: l'arte di tradire
riputavasi abilità, e la crudeltà un utile mezzo d'ispirar timore. Pure
non è che in mezzo ad una società virtuosa che il delitto può condurre
con maggior sicurezza al principato; perciocchè quando tutti disprezzano
egualmente la morale, il tradimento punisce il tradimento; il
delinquente riclama invano a favore del nuovo suo stato la guarenzia
sociale ch'egli stesso ha distrutta; ogni colpevole può rimproverarsi
d'avere gratuitamente violate le leggi protettrici di tutti; e la
perdita del sentimento e della venerazione della giustizia trae seco la
perdita per tutto il popolo d'ogni prosperità.
Le città del centro della Lombardia erano in allora, non v'ha dubbio, le
più infelici dell'Italia: governate con una mano di ferro da signori di
breve durata che ispirare non potevano che orrore o disprezzo, vedevano
continuamente il loro territorio in preda alla guerra civile: molte
castella mantenevansi sempre ribelli contro la capitale; gli emigrati
che vi si rifugiavano, uscivano frequentemente per guastare le campagne
ed abbruciare le messi, e si trovava più facile il punire questi
saccheggi colle rappresaglie, che non il reprimerli col mezzo delle
armi. Non conoscevasi l'esempio di verun signore che avesse potuto
conservare più di dieci anni la signoria d'una città; ed ogni
rivoluzione, preceduta da una zuffa che costava la vita a molti
cittadini, era accompagnata dall'esilio e dalla ruina di tutto un
partito, di cui venivano confiscati i beni e spianate le case.
Non pertanto in mezzo a tanti disastri la popolazione non diminuiva
sensibilmente, nè spegnevasi affatto l'energia nazionale. Eravi troppa
vita in tutte queste zuffe, troppe passioni in movimento perchè ogni
individuo non sentisse il bisogno di sviluppare tutto il suo essere, di
fidarsi alle forze proprie, piuttosto che a quelle della società, e di
conservare la sua morale indipendenza sotto la servitù politica.
L'avvenire che sotto un despotismo stabilito non presenta veruna
mutazione ad un padre di famiglia, ne offriva mille tra le rivoluzioni
di questi tiranni di un giorno. Tutti i cittadini invidiavano non solo
la sorte di quelle repubbliche in cui la costituzione guarentiva la
sicurezza colla libertà, ma perfino la sorte degli stabili principati,
ne' quali almeno godevasi il riposo; ma per altro restava loro almeno la
speranza, mentre non vi è più speranza sotto un despotismo costituito.
Contavansi di già alcune città ove qualche famiglia aveva stabile
signoria, e dove l'ereditaria successione di due o tre generazioni
pareva averne legittimato il dominio. La casa d'Este regnava a Ferrara
dall'epoca dello scacciamento dei Salinguerra e della disfatta dei
Ghibellini, accaduta del 1240, fino alla morte d'Azzo X nel 1308[341]. A
quest'epoca venne spogliata della sua sovranità dai Veneziani e dal
papa, che da prima avevano in qualità d'ausiliari preso parte in una
disputa di successione. Frattanto i marchesi d'Este furono richiamati
del 1317 alla sovranità di Ferrara dall'attaccamento del popolo. Una
casa meno illustre, quella de' Bonacorsi, erasi impadronita nel 1275
della sovranità di Mantova, e dopo averla conservata cinquantatre anni,
cedette il posto ai Gonzaga, che seppero mantenersene signori più lungo
tempo d'assai. Martino della Scala erasi innalzato in Verona al supremo
potere, del 1260, sopra le ruine della casa da Romano, e sebbene del
1277 fosse stato ucciso dai congiurati, la sovranità come una eredità
legittima passò a suo fratello, indi ai figli del fratello. L'anno 1275
Guido Novello da Polenta era stato dichiarato signore di Ravenna, che
senza nuove rivoluzioni restò in potere della sua famiglia. Finalmente
la casa da Camino succedeva a Treviso, Feltre e Belluno alla famiglia
d'Ezelino di cui era stata sì lungo tempo rivale. Eranvi dunque in
Italia alcuni esempi d'una monarchia ereditaria riconosciuta dai popoli
e che conservavasi piuttosto col loro tacito consenso che colla forza.
[341] Di già l'anno 1208 Azzo VI era stato onorato del titolo di
signore di Ferrara da una elezione dei Guelfi di questa città; ma
per lo spazio di trentadue anni egli ed i suoi figliuoli ne
disputarono la sovranità alla famiglia dei Salinguerra, senza
potersi solidamente stabilire.
Ma queste dinastie, in allora risguardate come antiche in confronto
delle altre, erano ancora nuove paragonate all'ordinaria durata
degl'imperj. Le più non erano giunte alla terza generazione; il principe
non poteva dispensarsi d'essere soldato, veniva educato in mezzo alle
armi ed era forzato di governare egli stesso sotto pericolo d'essere
balzato dal trono dal favorito cui si fosse confidato. La casa d'Este
non venne spogliata de' suoi stati che per essere, siccome più antica
delle altre, la più corrotta di tutte. Soltanto cinquant'anni dopo noi
vedremo regnare que' tiranni voluttuosi, deboli, pusillanimi, indegni
successori de' guerrieri fondatori delle loro dinastie.
Taluno di questi piccoli principi accordò ben tosto la sua protezione ai
letterati. Fino nel precedente secolo i marchesi d'Este avevano chiamato
alla loro corte i trovatori ed i poeti provenzali. Dante in tempo del
suo esiglio trovò asilo e protezione presso molti signori della
Lombardia: a Ravenna Guido da Polenta, il marchese Malaspina in
Lunigiana, e più d'ogni altro i signori della Scala, in Verona lo
accolsero cortesemente. Can grande, che vedremo in appresso sollevare
questa casa ad un altissimo grado di potenza, manifestò in principio del
suo regno il suo amore per le lettere ed aprì nella sua corte un onorato
ricovero a tutti i fuorusciti illustri d'Italia. Uno di costoro accolti
da Can grande era lo storico di Reggio, Sagacio Muzio Gazzata, che ci
tramandò la relazione del trattamento che i dotti avevano nella corte di
Cane[342]. «Diversi appartamenti venivano loro, secondo la diversa loro
condizione, assegnati nel palazzo del signore della Scala, e tutti
avevano domestici e mensa elegantemente imbandita. I varj appartamenti
erano indicati da simboli e da insegne; il trionfo pei guerrieri, la
speranza per gli esuli, le Muse per i poeti, Mercurio per gli artisti,
il paradiso per i predicatori. In tempo del pranzo, musici, buffoni,
giocolieri, giravano in questi appartamenti; le sale erano ornate di
quadri rappresentanti le vicende della fortuna, e Cane talvolta invitava
alla propria mensa alcuno de' suoi ospiti, specialmente Guido di Castel
di Reggio, che per la sua semplicità chiamavasi il semplice
lombardo[343], ed il poeta Dante Alighieri.» Senza dubbio tra i
proscritti guerrieri eranvene pochi cui la camera de' trionfi
appartenesse a più giusto titolo che ad Uguccione della Fagiuola, cui
Cane diede asilo dopo che questo capo di parte perdette la sovranità di
Lucca e di Pisa. Colà Dante legò con costui strettissima dimestichezza,
e prese occasione di dedicargli la prima parte del suo poema[344].
[342] Della storia di Gazzata non si conservarono che alcuni
frammenti pubblicati nel XVIII tomo degli _Scriptor. Rer. Ital._ Il
pezzo da noi citato, conservato nella prefazione d'una storia MS.
del Pancirolo, trovasi stampato nella prefazione dello stesso volume
XVIII, _p. 2_.
[343] Guido da Castello era un poeta di Reggio attaccato al partito
repubblicano della sua città, dalla quale fu esiliato cogli amici
della libertà. Vedasi _Benvenuto da Imola Comment. ad Dant. Purgat.
c. XVI, v. 124_.
[344] _Flaminio del Borgo, Dissert. II, p. 74._
La protezione che con tanta frequenza i principi accordano ai poeti
piccoli sacrificj loro costa e procaccia loro molta celebrità. In ogni
tempo, in tutti i paesi, i poeti misurarono la loro ammirazione per un
principe sulle sue liberalità; e non arrossirono di rendere coi versi
immortali le vili loro adulazioni, come non ebbero vergogna di riceverne
il salario. Non dobbiamo perciò essere sorpresi, se in questo e nel
susseguente secolo i più distinti poeti italiani frequentarono la corte
de' principi, dai quali erano festeggiati assai e più splendidamente
pagati che dalle repubbliche. Ma per altro i poeti non hanno potuto
sorgere che ne' tempi in cui lo spirito di libertà animava alcuna delle
parti della sacra terra d'Italia, che durante il tempo che nella stessa
lingua altri trattavano le quistioni che decidono della prosperità e
della gloria degli uomini. Quando la via del pensiero fu chiusa
agl'Italiani, si spense ancora la loro immaginazione. Un padrone non può
scegliere tra le facoltà dello spirito umano, non può dire a' suoi
sudditi: abbiate immaginazione e non intendimento; io vi concedo la
poesia, ma vi rifiuto la filosofia; vi permetto la fisica e vi proibisco
la morale; vi lascio le scienze esatte, ma prendete cura di non toccare
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