Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 04 (of 16) - 15

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aprire con lui negoziazioni, o di allontanare la burrasca; e non
calcolando i pericoli cui poteva in avvenire esporli la sua collera, nè
l'immediata ruina delle loro campagne, osarono di far testa colle forze
di una sola città all'imperatore della Germania: ma d'altra parte,
quand'ebbero riunita coi soccorsi degli alleati un'armata due volte
maggiore di quella del nemico, non perciò azzardarono una battaglia, ma
si chiusero invece entro le loro mura, non illudendosi intorno al poco
valore de' loro soldati.
Quando si seppe a Firenze l'arrivo dell'imperatore in Arezzo, la
signoria, senza aspettare i soccorsi delle città alleate, fece partire
quasi tutte le forze della repubblica, cioè 1800 lance ed un grosso
corpo di pedoni per il castello dell'Ancisa, posto in sull'Arno a
quindici miglia da Firenze. Speravano i generali fiorentini di fermare
lungo tempo Enrico avanti a questo castello senza poter essere forzati
di venire ad un fatto d'armi, ch'essi rifiutarono: ma l'imperatore,
diretto dai Ghibellini del paese, girò intorno al castello per una
strada che attraversa le montagne, e venne ad accamparsi tra l'Ancisa e
Firenze, dopo aver rotte alcune truppe della repubblica che volevano
opporsi al suo passaggio. L'armata fiorentina trovavasi per così dire
tagliata fuori all'Ancisa; e se l'imperatore si fosse avvisato di
strignerla, trovandosi questa quasi senza viveri, avrebbe corso un
grandissimo pericolo. Ma egli credette più utile consiglio il marciare
subito sopra Firenze. In fatti quando l'armata imperiale giunse il 19
settembre presso a questa città, abbruciando le case ed i villaggi di
mano in mano che andava avanzando, la riempì di terrore e di
costernazione; non potendo darsi a credere che fosse colà arrivata senza
aver prima distrutta l'armata fiorentina posta all'Ancisa, di cui non
sapevasene novella. Per altro al suono della campana del comune, tutte
le compagnie della milizia si adunarono nella piazza de' Priori,
essendosi armato anche il vescovo co' suoi preti, il quale, coi cavalli
che soleva impiegare nelle cerimonie religiose, venne a prendere la
guardia della porta sant'Ambrogio. Furono palificate le fosse, alzati i
ridotti, e tutto disposto per combattere. Soltanto dopo due giorni,
l'armata fiorentina, avanzandosi di notte per istrade sviate, potè
rientrare in Firenze. Erasi Enrico lusingato che l'improvvisa sua venuta
ecciterebbe qualche tumulto in città, ma non avendo che un migliajo di
cavalli con lui, non si credette abbastanza forte per attaccarla
regolarmente[282].
[282] _Gio. Villani l. IX, c. 45 e 46. — Ferretus Vicent. l. V, p.
1111._ — Il vescovo di Botronto pretende invece che l'armata
fiorentina entrasse in città prima dell'arrivo dell'imperatore.
_Hen. VII, Iter It. p. 925._
Ne' susseguenti giorni fu raggiunto dal rimanente dell'armata che aveva
lasciato a Todi ed in Val d'Arno di sopra. Ebbe pure rinforzi dai
Ghibellini e dai Bianchi della Toscana e della Marca, che venivano a
militare sotto le sue insegne; ma più considerabili soccorsi arrivarono
ancora ai Fiorentini. I Lucchesi mandarono alla signoria seicento
cavalli e due mila fanti, ed altrettanto fecero i Sienesi; Pistoja cento
cavalli e cinquecento fanti; Prato, Colle, Sanminiato e san Gemignano
duecento cavalli e mille pedoni; Bologna quattrocento cavalli e mille
pedoni; e le città della Romagna e dello stato della chiesa quattrocento
cinquanta cavalli e mille cinquecento uomini a piedi: sicchè i
Fiorentini si trovarono avere quattro mila cavalli, ch'erano il doppio
di quelli che aveva l'imperatore.
Tranquillizzati da forze tanto superiori, i Fiorentini si diedero alle
consuete loro occupazioni come in tempo di pace; tutte le porte erano
aperte, fuorchè quella che metteva direttamente al campo
dell'imperatore, e si spedivano le mercanzie come all'ordinario: ma pure
non osarono mai di attaccare Enrico, o di difendere contro di lui le
loro campagne colla forza; gli lasciarono perfino passar l'Arno e
guastare le campagne presso san Casciano, ove Enrico pose il suo nuovo
quartiere generale finchè finalmente il 6 gennajo 1313, vedendo che
nulla avvantaggiato avrebbe con un più lungo soggiorno e che le malattie
cominciavano a fare strage della sua armata, lasciò Firenze, ed andò a
stabilirsi a Poggibonzi sulla strada di Siena, ove si trattenne due
mesi[283].
[283] _Gio. Villani l. IX, c. 47. — Albert. Mussati Hist. Aug. l.
IX, Rub. 4._
I Fiorentini si lodarono senza dubbio di non avere posta in compromesso
la sorte della loro patria con una battaglia quando era noto che
l'armata dell'imperatore s'andava distruggendo per le malattie prodotte
dalle fatiche e dal bisogno; le quali malattie nè la salubrità dell'aria
di Poggibonzi, nè la stagione facevano cessare. A questo disastro
s'aggiungevano le molestie de' Sienesi e de' Fiorentini, i quali
scaramucciando ogni giorno cogl'imperiali, gli toglievano ogni giorno
qualche soldato, e gli rendevano difficile l'approvigionamento. Perchè
conoscendo l'imperatore lo svantaggio di più lunga dimora in Poggibonzi,
partì il 6 di marzo colla sua armata prendendo la strada di Pisa. Colà,
avendo eretto un tribunale imperiale, chiamò in giudizio tutte le città
che avevano a lui resistito, pretendendo di sottomettere colle sentenze
que' nemici che non aveva potuto vincere colle armi. I primi ad essere
condannati furono i Fiorentini; furono annullati i loro privilegi,
cassati i loro giudici e notai, il comune tassato in cento mila fiorini
e privato del diritto di battere monete, il quale fu accordato collo
stesso conio, lo stesso titolo e lo stesso valore ad Ubizzino Spinola di
Genova ed al marchese di Monferrato[284].
[284] _Gio. Villani l. IX, c. 48._
Finalmente il tribunale chiuse le sue procedure con una condanna più
ardita: il giorno 7 delle calende di maggio Enrico sentenziò Roberto re
di Napoli, dichiarandolo decaduto del trono, come verso di lui colpevole
di lesa maestà, sciogliendo in pari tempo i suoi sudditi dal giuramento
di fedeltà, e proibendo loro di ubbidire per lo innanzi al proprio
re[285].
[285] _Alber. Mussatus Hist. Aug. l. XIII, R. 5._
Ma queste condanne, nell'atto medesimo che l'imperatore le pronunciava,
erano piuttosto oggetto di derisione che di timore; perciocchè la
sua armata era talmente indebolita, che, se fosse rimasto in
campagna, correva rischio d'essere oppresso dalle truppe repubblicane.
Allora mandò ordine in Germania di formare un'altra armata, e
spedì l'arcivescovo di Treveri suo fratello per condurgliela
sollecitamente[286]. Finchè gli giugnesse questo tanto necessario
rinforzo, non avendo con lui che un migliajo d'uomini d'armi, passò
l'estate sotto la protezione della repubblica di Pisa, facendo guerra ai
Lucchesi per conto di questa città[287] e rendendosi degno fra le
angustie che lo circondavano, dell'elogio che fa di lui il Villani.
Giammai l'avversità turbò questo principe, nè la prosperità lo fece
presontuoso, o troppo lieto.
[286] _Alber. Mussatus l. XII, R. 6._
[287] _Cron. di Pisa di B. Marangoni p. 617._
In tempo di questo forzato riposo Enrico contrasse stretta alleanza con
Federico re di Sicilia, convenendo tra di loro di attaccare di concerto
Roberto re di Napoli, quale capo del partito guelfo e, più d'ogni altro,
loro pericoloso nemico. Federico di Sicilia, armate cinquanta galere,
sbarcò mille cavalieri, in Calabria, impadronendosi di Reggio e di poche
altre città. Dietro inchiesta dell'Imperatore le repubbliche di Pisa e
di Genova allestirono una flotta di settanta galere sotto il comando di
Lamba Doria, e la spedirono sulle coste del regno di Napoli. I Pisani
che si spogliavano per dare truppe di terra ad Enrico, equipaggiarono
meno vascelli dei Genovesi[288]. Dall'altro canto incominciavano ad
arrivare all'imperatore potenti rinforzi dall'Allemagna e dall'Italia;
onde il 5 agosto del 1313 si trovò in istato di lasciar Pisa per andare
contro Napoli con due mila cinquecento cavalieri d'oltremonte, mille
cinquecento Italiani, ed un proporzionato numero di pedoni.
[288] _Gio. Villani l. IX, c. 50._
Come Enrico vedeva nel re di Napoli il suo più potente avversario, i
Fiorentini credettero di averlo per loro ajuto e difensore. Sebbene
l'imperatore non avesse ottenuto contro di loro verun vantaggio, la
situazione della repubblica non era affatto prospera. Nell'inverno il
suo territorio era stato saccheggiato; molti de' suoi gentiluomini e
tutti gli emigrati, Bianchi e Ghibellini, eransi afforzati ne' castelli
delle montagne per farle guerra; il tesoro erasi esaurito negli
armamenti del passato anno, ed i continui rinforzi che andava ricevendo
l'imperatore rendeva inquieti i Fiorentini, non sapendo essi ove
volgerebbe le sue armi. Spedirono perciò due deputati a Napoli per
chiedere ajuto. Le città di Siena, Perugia, Lucca e Bologna unirono i
loro inviati a questa deputazione, che, introdotta in corpo innanzi a
Roberto, gli espose i pericoli della lega guelfa, sforzandosi di fargli
sentire che la sua sicurezza era attaccata alla conservazione
dell'indipendenza delle repubbliche toscane, che con tanto zelo avevano
abbracciato il suo partito. Roberto dava loro le più larghe
assicurazioni d'attaccamento, dichiarando che, se i pericoli del suo
regno non avessero resa necessaria la sua presenza, avrebbe egli stesso
comandate le truppe toscane e fattosi capitano dei Fiorentini; promise
di mandare in sua vece il fratello Pietro con un ragguardevole corpo di
cavalleria; ma in una seconda udienza scemò d'assai la confidenza che
aveva inspirata nella prima, chiedendo loro anticipatamente il soldo
delle sue truppe per tre mesi. L'esaurimento del tesoro della repubblica
fiorentina rendeva assai difficile il trovare la somma domandata da
Roberto, tanto più che le città di Bologna, Lucca, Siena e Perugia, più
lontane dal pericolo, negavano di aver parte a tale contribuzione. I
Fiorentini anticiparono bensì la parte fissata dal trattato di alleanza;
ma perchè non fu pagato il rimanente, le truppe napolitane non si
mossero, ed il danaro sborsato con tanto stento non produsse alcun
frutto.
I Fiorentini credettero pertanto che l'unico mezzo d'obbligare Roberto a
difenderli fosse quello di accordargli alcuni diritti, assicurandosi che
nel presente pericolo della guerra di cui era minacciato non avrebbe
tentato di cambiare l'accordata autorità in tirannide. I consigli
mandarono fuori quindi un decreto che dava ai priori la facoltà di fare
tutto quanto richiedesse la salute della repubblica, e questi con atto
solenne conferirono al re di Napoli i diritti e titoli di rettore,
governatore, protettore e signore della repubblica di Firenze, a
condizione ch'egli manderebbe in città uno de' suoi figli o fratelli per
difenderla, che non richiamerebbe gli emigrati, che conserverebbe le
leggi della repubblica, mantenendo la sovrana magistratura de' priori
nella presente forma[289].
[289] _Leon. Aretino Istor. Fior. l. V._
Intanto l'imperatore avanzavasi rapidamente colla sua armata sulla
strada di Sanminiato e di castel Fiorentino. Passò tra Colle e
Poggibonzi e venne ad accamparsi nel famoso piano di monte Aperto,
empiendo di terrore la città di Siena che lo vedeva vicino alle sue
porte con sì poderoso esercito. Ma in mezzo alla sua pompa militare,
quando niuna armata credevasi bastante a fermarlo, aveva già cessato di
essere formidabile: egli con lui portava i principj d'una malattia
mortale contratti nel cattivo aere di Roma, o forse più anticamente in
tempo de' patimenti sofferti nell'assedio di Brescia. La disposizione
del suo sangue erasi già manifestata con un carbonchio sotto al
ginocchio, ma perchè continuava a mostrarsi egualmente attivo, niuno
s'avvedeva del suo pericolo. Un bagno intempestivamente preso fece
scoppiare la malattia, che lo costrinse a fermarsi a Bonconvento, dodici
miglia al di là di Siena, ove il giorno 24 agosto del 1313 morì in mezzo
alla sua armata in un modo tanto inaspettato, che molti lo credettero
avvelenato, essendosi perfino sparsa voce che un frate domenicano, nel
comunicarlo, aveva posto del napello nell'ostia o nel vino
consacrato[290].
[290] _Hist. Aug. Alberti Mussati l. XVI, R. 8._ E tutti gli storici
citati nel presente capitolo, inoltre le _Note d'Uberto Benvoglienti
alla Cron. Sanese d'Andrea Dei t. XV_.
Un così inaspettato avvenimento che affatto cambiava la presente
condizione d'Italia, eccitò i più vivi trasporti di gioja ne' Guelfi, di
dolore ne' Ghibellini. I Pisani s'abbandonarono più degli altri alla
disperazione. Avevano consumata per questo monarca la prodigiosa somma
di due milioni di fiorini, ed invece d'aver nulla acquistato colla sua
assistenza, dopo essersi impoveriti di gente e di danaro, si vedevano
abbandonati a se medesimi per difendersi contro tanti nemici provocati
per piacere all'imperatore. Da prima tentarono di ritenere l'armata
sotto i loro ordini, offrendo ai soldati lo stipendio pagato da Enrico;
ma i Tedeschi, perduto il loro imperatore, più non pensavano che a
ripatriare, e molti di loro vendettero ai Fiorentini ed ai Guelfi le
fortezze di cui erano momentaneamente in possesso. Federico di Sicilia
venne personalmente a Pisa per concertare i mezzi di sostenere i
Ghibellini; ma fu in modo spaventato dalla loro situazione, che
rifiutossi di difendere la loro città, quand'anche ne fosse fatto
signore. Lo stesso onore, per lo stesso motivo, venne rifiutato dal
conte di Savoja e da Enrico di Fiandra, onde i Pisani chiamarono
Uguccione della Fagiuola, ghibellino della Romagna, che a quest'epoca
trovavasi vicario imperiale a Genova, e ritennero sotto i suoi ordini
circa mille cavalli tedeschi, brabantesi e fiamminghi. Tutto il
rimanente dell'armata ripassò le Alpi, risguardando l'Italia come un
paese per loro affatto straniero dopo la perdita dell'imperatore che li
conduceva.
Frattanto il corpo d'Enrico era stato portato a Pisa con grandissima
pompa; e fattigli dalla repubblica splendidi funerali, gli fu data
sepoltura in duomo, ove trovasi ancora di presente il suo mausoleo[291].
[291] Questo sarcofago fu però traslocato due volte, nel 1494 e nel
1727. Ora è nella cappella della Madonna, sotto l'organo, nel duomo
di Pisa.


CAPITOLO XXVIII.
_Consolidamento dell'aristocrazia veneziana; il maggior
consiglio reso ereditario. — Vittoria d'Uguccione della Fagiuola
ottenuta sui Fiorentini. — Sua espulsione da Pisa e da Lucca. —
Padova perde la sua libertà. — Signorie lombarde._
1313 = 1317.

In mezzo al vortice della politica italiana, la repubblica di Venezia
non prendeva mai parte agli avvenimenti che si succedevano ai suoi
confini, e pareva che, isolata dalle acque, non appartenesse all'Italia;
onde si rimase straniera perfino alle fazioni de' Guelfi e de'
Ghibellini, il di cui sangue bagnava tutte le rive delle sue lagune.
Aveva essa fatto conoscere ad Enrico VII il suo rispetto per l'impero,
mandandogli una solenne deputazione; ma nello stesso tempo faceva
solenni proteste pel mantenimento della propria indipendenza, e non
aveva divise nè le conquiste, nè le perdite dell'imperatore. L'assoluta
separazione dagli altri stati in cui si mantenevano i Veneziani non ci
permette di far avanzare di fronte la loro storia con quella degli altri
popoli d'Italia: e solo di generazione in generazione possiamo
riprenderne il filo per tener dietro al progressivo stabilimento
dell'interno loro sistema politico e per conoscere l'estensione e la
solidità che davano alla loro potenza le conquiste ed il commercio del
Levante.
L'anno 1297, epoca della chiusura del maggior consiglio (_serrata del
mazor consejo_), viene comunemente risguardato come l'epoca dello
stabilimento dell'aristocrazia ereditaria in Venezia. Ma siccome questa
rivoluzione si andò preparando in tutto il corso del 13.º secolo, e non
ottenne l'intero suo compimento da questo solo decreto; che anzi la
prima _reformagione_[292] ebbe bisogno d'essere sviluppata ed afforzata
con molte posteriori leggi; ho preferito di renderne conto all'epoca in
cui l'ultimo sviluppo dato al nuovo sistema d'aristocrazia ereditaria la
rese perpetua.
[292] Così chiamavansi le leggi del maggior consiglio.
Le lente e sorde usurpazioni del maggior consiglio avevano alla fine
risvegliata la gelosia del popolo, il quale in sul declinare del
tredicesimo secolo conobbe d'essere stato escluso affatto dal governo:
dolevasi specialmente di non essere più chiamato alle elezioni, onde la
nobiltà più non gli usava que' riguardi di cui era prodiga ai cittadini
quando i loro suffragi conferivano le cariche dello stato. Il doge,
spogliato di quasi tutte le prerogative, omai d'altro non si curava che
di piacere al maggior consiglio, di cui era la creatura e l'istrumento;
ma rammentando i plebei, che negli andati tempi il doge era il loro
magistrato, desideravano d'innalzare a questa dignità qualche individuo,
che, per ricompensarli della loro confidenza, li riponesse in possesso
delle prerogative spettanti ai cittadini sovrani d'uno stato libero.
Queste disposizioni si manifestarono del 1289 in occasione della morte
del doge Giovanni Dandolo. Mentre i quarantuno elettori, designati dalla
mescolanza della sorte coi suffragi del maggiore consiglio, deliberavano
intorno alla scelta del suo successore, il popolo si adunò sulla piazza
di san Marco e proclamò doge Giacomo Tiepolo, figliuolo di Lorenzo, che
aveva occupata la stessa carica dal 1272 al 1282. Tiepolo erasi
acquistato il favor popolare colle sue private virtù e colla dolcezza
del suo carattere, ma non era altrimenti fatto per essere capo di
partito: niuna parte aveva egli presa ad un movimento popolare che lo
voleva innalzare alla prima dignità della sua patria; anzi egli stesso,
dietro gli ordini del maggior consiglio, aveva cercato di dissiparlo; e,
quando vide che non poteva in verun altro modo rifiutarsi alla
confidenza de' suoi concittadini, fuggì segretamente a Treviso, ove
rimase finchè colle consuete forme fu eletto il nuovo capo della
repubblica[293].
[293] _Sandi Stor. civ. Venez. p. II, l. V, c. 1. — Andr. Navag.
Stor. Venez. t. XXIII, Scr. Rer. It. p. 1006. — Marin Sanuto, Vite
dei Duchi di Venezia t. XXII, p. 577. — Laugier Hist. de Venise l.
IX, t. III, p. 154._
Gli elettori si tennero dieci giorni chiusi in san Marco, non osando di
dare al popolo un doge diverso da quello nominato da lui. Finalmente
quando il fermento popolare parve calmato, elessero Pietro Gradenigo, in
allora podestà di capo d'Istria. Ma questa scelta accrebbe a dismisura
il malcontento de' plebei, perchè il Gradenigo, uomo vendicativo e
caparbio, aveva in ogni tempo manifestato il suo zelo per il sistema e
per la parte aristocratica. Tiepolo tornò prima di lui a Venezia per
calmare colla sua dolcezza il fermento del popolo; e Gradenigo fece il
suo ingresso in città con dieci galere armate ch'erano andate in Istria
a prenderlo.
Il nuovo doge si trovò ben tosto impegnato in una pericolosa guerra coi
Genovesi, guerra che dal 1293 al 1299 minacciò perfino l'esistenza della
repubblica. Di questa guerra, siccome della rotta de' Veneziani a
Corsola, in conseguenza della quale le due nazioni fecero la pace,
abbiamo di già parlato nel capitolo XXVI. Pare che il popolo, distratto
da così grave motivo, andasse dimenticando il suo malcontento, e
chiudesse gli occhi sui progressi dell'aristocrazia: ma non fece però
perdere di vista a Gradenigo l'esecuzione del suo progetto per abbassare
i plebei, e vendicarsi dell'odio di una parte de' suoi compatriotti.
L'annuale elezione del maggior consiglio era la sola parte della
costituzione che ancora conservasse qualche cosa di popolare. Il modo di
eleggere aveva negli ultimi anni sofferto qualche cambiamento che
difficilmente potrebbe comprendersi senz'essere iniziati nell'interna
polizia e nelle formalità della repubblica: tale cambiamento non aveva,
gli è vero, ratificato il diritto ereditario della nobiltà, ma non aveva
nè meno limitata l'onnipotenza del maggior consiglio, che in fondo si
rinnovava sempre in se medesimo. Nel 1286 dai tre capi della quarantia
era stato proposto un assai più importante cambiamento. Avevano
domandato che si prescrivesse agli annuali elettori di non far entrare
nel maggior consiglio che coloro che ne erano già stati membri, o che
proverebbero che i loro antenati vi erano stati ammessi dopo
l'istituzione di questo consiglio del 1172[294]. Questa proposizione che
mirava a designare in un modo tanto preciso la classe dei nobili, non fu
allora adottata. Senza dubbio ciò che ritrasse il consiglio
dall'adottarla, si fu che tutti i cittadini, nuovi membri del consiglio,
temettero che riconoscendo così espressamente la preminenza della
nobiltà, ad ogni nuova elezione non si andasse escludendo coloro che non
appartenevano alla classe dei nobili, dando la preferenza alle più
antiche famiglie.
[294] _Vettor Sandi Storia civ. p. II, l. V, c. 1, p. 6._
Pietro Gradenigo non tentò di rinnovare questa legge, sebbene tendesse
direttamente allo scopo preso di mira da lui e da tutto il partito
aristocratico. Invece di farne prova, l'ultimo giorno di febbrajo del
1267, giorno che chiudeva l'anno veneziano, propose quel decreto che fu
poi risguardato come la _serrata_ del maggior consiglio, e che ne
conservò il nome; ma che presentando una più immediata esca agli attuali
membri di questo corpo, apparentemente si allontanava meno dalle usitate
forme e dalle elezioni nazionali.
Gradenigo espose al consiglio, come cosa indubitata, che da oltre un
secolo l'elezione cadeva sempre press'a poco su le stesse persone o
famiglie, di modo che coloro che avevano parte all'amministrazione, o
erano attualmente membri del consiglio, o lo erano stati negli ultimi
anni. In conseguenza propose di non più considerare, rispetto ai membri
del consiglio, se dovevano essere rieletti, ma se avevano meritato di
essere esclusi da un corpo di cui facevano parte; corpo risguardato come
la scelta della nazione, e che da lungo tempo trovavasi in pieno
possesso della sovranità. Un così fatto giudizio sui diritti politici
dei primi uomini dello stato, non poteva attribuirsi, soggiungeva il
Gradenigo, che al primo tribunale dello stato, alla quarantia. In
conseguenza il doge domandò che la lista del maggior consiglio degli
ultimi quattro anni venisse sottomessa al tribunale della quarantia; che
i giudici, uno dopo l'altro, ballottassero i nomi di ogni cittadino
iscritto su queste liste, e che chiunque, di quaranta suffragi, ne
avesse dodici favorevoli, fosse ritenuto membro del maggiore consiglio.
Per altro il doge dichiarò non essere sua intenzione di chiudere affatto
agli altri cittadini l'ingresso al maggior consiglio; per lasciare ai
quali, secondo diceva egli, quel medesimo accesso a questo corpo sovrano
che avevano avuto finora, propose che dal maggior consiglio si
nominassero tre elettori, incaricati di fare un elenco suppletorio di
altri cittadini, limitato al numero che verrebbe determinato dal doge
nel suo piccolo consiglio; il quale elenco, siccome il precedente,
doveva sottoporsi ai suffragi della quarantia; bastando pure ai nuovi
eleggibili d'avere, come i primi, soltanto dodici voti dei
quaranta[295].
[295] _Sandi l. V, c. I, p. II_, dietro il testo della Parte deposta
all'Avogaria del Comune. — _Marin Sanuto vite dei duchi di Venezia,
p. 580, t. XXII._
Fin qui tale decreto non pareva avere altro scopo che quello di deferire
il diritto d'elezione alla quarantia criminale, non essendo apertamente
enunciata l'istituzione posta in suo arbitrio d'una nobiltà ereditaria
esclusivamente sovrana. In fatti il popolo non ne conobbe subito le
conseguenze, nè s'avvide che il rinnovamento del maggior consiglio che
si fece nel susseguente anno colle stesse norme, trovavasi ridotto ad
una vana formalità: perciocchè la quarantia raffermò tre anni di seguito
que' medesimi ch'ella aveva eletti la prima volta. I tre elettori
nominati ogni anno dal maggior consiglio per formare la lista degli
altri cittadini eleggibili (questo era il vocabolo adoperato dalla
legge) seguivano lo stesso principio aristocratico, e soltanto
prendevansi cura di supplire alle vacanze prodotte dalla morte di alcuni
membri. Un decreto del 1298, richiamando quello ch'era stato proposto
del 1286, ordinava agli elettori di non presentare se non individui che
avessero già seduto nel maggior consiglio, o i di cui maggiori ne
fossero stati membri; nel 1300, fu più espressamente vietata
l'ammissione di _uomini nuovi_; nel 1315, nel consiglio della quarantia,
fu aperto un libro nel quale tutti coloro che avessero le qualità
richieste per essere eleggibili, dovevano, giunti che fossero ai
diciott'anni, farsi iscrivere dai notari del consiglio, affinchè gli
elettori avessero sott'occhio tutti coloro ch'era loro permesso di
presentare; l'anno 1319 queste iscrizioni vennero sottomesse
all'ispezione degli _avogadori di comune_, obbligati di verificare, nel
termine di un mese col mezzo di una procedura inquisitoriale, se la
persona iscritta aveva tutte le richieste qualità; e finalmente nello
stesso anno con un decreto che perfezionò il sistema aristocratico,
vennero soppressi i tre elettori annuali, abolito il rinnovamento
periodico del maggior consiglio, che ritenevasi eseguito nella festa di
san Michele; ed ammessi a farsi iscrivere di pieno diritto nel libro
d'oro quelli che in età di venticinque anni avessero i necessarj
requisiti per essere accettati, senza la formalità di nuova elezione,
nel maggior consiglio. Di qui ebbe origine quella formola adoperata
ancora nella nostra età per le prove di nobiltà a Venezia: _per suos et
per viginti quinque annos_: provare, che i suoi ascendenti paterni erano
stati membri del maggior consiglio e provare d'avere 25 anni.
Per tal modo quella rivoluzione, che molti storici rappresentarono come
l'opera d'un giorno[296], non ottenne compimento che nello spazio di 23
anni, sebbene fosse stata preparata nel precedente secolo. Tale lentezza
può sola spiegare la pazienza e la rassegnazione del popolo veneziano
addormentato da una dissimulata politica, ma che non sarebbesi tutt'ad
un tratto lasciata togliere la preziosa eredità dei diritti politici che
aveva fin allora posseduti. Malgrado l'arte adoperata dal Gradenigo per
nascondere al popolo i suoi progetti e le ambiziose mire del maggior
consiglio, non si compì la sedizione senza resistenza e senza
spargimento di sangue.
[296] Tra gli altri vedasi _Laugier, Hist. de Venise, l. X. t. III_.
La prima sedizione scoppiò nel 1299, poco dopo la pace fatta colla
repubblica di Genova, e ne furono capi i popolari, Marino Bocconio,
Giovanni Baldovino e Michele Giuda. Se la costituzione non avesse subite
mutazioni, costoro e per le loro ricchezze e pei loro talenti avrebbero
a ragione preteso di entrare nella magistratura: onde si proponevano di
ottenere colla forza l'ingresso nel maggior consiglio agli uomini del
loro ordine; ma si trovarono prevenuti dalla vigilanza di Gradenigo, che
fece perire i capi sul palco, esiliare e punire in altri modi i meno
colpevoli.
Una più calda congiura scoppiò del 1310, nella quale presero la
principale parte le più nobili e potenti famiglie di Venezia. Alcuni
gentiluomini eransi veduti esclusi dal maggiore consiglio nella riforma
del 1297, di modo che si trovavano d'inferiore condizione a molti plebei
che vi erano stati ammessi; altri, sebbene avevano luogo nel maggior
consiglio, non erano perciò soddisfatti della rivoluzione; perciocchè
invece d'accrescer l'autorità loro, l'aveva anzi diminuita,
confondendoli nella folla de' consiglieri, dai quali prima d'allora li
separava il favor popolare. Boemondo Tiepolo, fratello di quel Giacomo
che il popolo aveva tentato d'opporre a Gradenigo, si pose alla testa
dei congiurati, associandosi i principali capi delle case Querini e
Badoero. L'ultima di queste famiglie, che prima portava il nome di
Partecipazio, aveva ne' primi secoli della repubblica posseduta quasi
per diritto ereditario la dignità ducale. I Dauri, Barbari, Barocci,
Vendelini, Lombardi ed altri gentiluomini si associarono ai congiurati,
e si resero forti colla massa de' plebei malcontenti e col nome della
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