Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 04 (of 16) - 11

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sorprese tutta la Cristianità coll'ordinare ai cardinali di raggiugnerlo
a Lione per la sua incoronazione, fissata nel giorno di san Martino del
1305. I cardinali furono malgrado loro costretti di ubbidire: il re di
Francia, Carlo di Valois ed i principali baroni al di là delle Alpi,
assistettero alla cerimonia della consecrazione; ed il 17 dicembre
Clemente creò dodici nuovi cardinali, cioè Giacomo e Pietro Colonna
deposti da Bonifacio, e dieci Francesi o Guasconi, tutte creature di
Filippo il bello[199].
[199] _Ann. Eccles, Raynald. t. XV._
La vergognosa condotta tenuta da Clemente e la vile sua ubbidienza a
tutti i capricci della corte di Francia provarono abbastanza a quali
scandalose condizioni aveva acquistata la tiara. Dopo avere introdotte
nel sacro collegio tante creature di Filippo, rivocò tutte le censure
fulminate contro di lui, de' suoi ministri e complici, annullò tutte le
costituzioni di Bonifacio che potevano dargli qualche ombra; accordò al
re Filippo la decima sul clero, e ne accordò delle altre al conte di
Fiandra, affinchè con tale mezzo potesse pagare un tributo ai Francesi,
autorizzò Filippo a prendere in nome della religione tutti gli Ebrei del
suo regno il giorno della festa di santa Maria Maddalena, a confiscare
tutti i loro beni ed a bandirli; finalmente prodigò bolle, prediche,
indulgenze per formare una nuova crociata, la quale sotto la condotta di
Carlo di Valois doveva conquistare l'impero di Costantinopoli, allora
occupato da Andronico, figlio di Michele Paleologo: e la più importante
ragione, allegata contro questo sventurato principe, era quella di non
essere egli abbastanza forte per resistere alle armi turche, onde la sua
disfatta aprirebbe l'Europa ai Musulmani[200].
[200] Bolla del 6 degli idi di marzo. _Raynald. § 6._
Quale più vergognoso motivo poteva addursi per attaccare Andronico? e se
il papa era veramente intenzionato d'opporre una diga ai barbari, la sua
politica non era meno falsa che ingiusta; poichè fulminando nuovi
anatemi contro Andronico, il suo clero e la sua nazione[201], accresceva
sempre più l'animosità che da molto tempo divideva i Greci dai Latini, e
riduceva i primi a preferire il giogo musulmano a quello de' cattolici
persecutori. Onde è chiaro che il papa non aveva altro oggetto che
quello di soddisfare alla cupidigia ed all'ambizione dei principi della
casa di Francia, di quel medesimo Valois che era stato suo mortale
nemico: e purchè facesse cosa grata al re, egli non calcolava i funesti
effetti della sua politica sul bene della Cristianità.
[201] Scomunica d'Andronico in data di Poitier, 3 degli idi di
giugno 1307. _Raynald. § 7._
È per altro vero che la debole e sospettosa amministrazione d'Andronico
esponeva tutta l'Europa alle maggiori calamità. La nazione, e forse in
questo secolo il clero, in nome della nazione europea, avrebbe per
avventura avuto il diritto di deporre questo principe imbecille; ma
soltanto per sostituirgli un principe che, godendo l'amore e la
confidenza de' suoi popoli, potesse fermare gli spaventosi progressi dei
Turchi.
Il vecchio Andronico era succeduto a suo padre Michele Paleologo
l'undici dicembre del 1282[202]: aveva mostrate alcune virtù private,
che facilmente si trovano nel più debole sovrano; di quelle virtù che
l'adulazione degli storici conserva alla posterità, coprendo i vizi che
sempre le accompagnano in un carattere pusillanime. Egli non cominciò ad
avere relazioni coll'Italia che in principio del XIV secolo. Prima
d'allora, perduto tra gl'intrighi della sua corte e del suo clero, aveva
distrutta con imprudente economia la flotta allestita da suo padre con
enorme dispendio per difendersi dal re di Napoli[203]. Suo fratello,
Costantino Porfirogeneta, che aveva eccitata la sua diffidenza, era
stato imprigionato con tutti i suoi amici. Egli introdusse nell'impero
gli Alani, che per sottrarsi al giogo dei Tartari avevano domandato un
asilo nelle province dell'Asia, ma che riuscivano più dannosi a quelle
province de' Turchi medesimi contro de' quali dovevano combattere[204].
Finalmente, dopo avere provocati questi ultimi, opponeva loro una così
debole resistenza, che invadendo essi tutte le province dell'Asia, le
avevano divise in pascialaggi, e cacciati i Greci oltre
l'Ellesponto[205].
[202] _Nicephorus Gregoras Hist. l. VI. c. 1._
[203] _Niceph. Gregoras Hist. l. VI, c. 3._
[204] _Ib. l. VI, c. 10._
[205] _Id. l. VII, c. 1._
Tali furono gli avvenimenti de' primi vent'anni del regno d'Andronico il
vecchio, quando del 1302 fattasi la pace tra i re di Napoli e di
Sicilia, questi licenziò le veterane milizie che pel corso di venti anni
avevano così valorosamente difesa la Sicilia contro i Francesi. Que'
soldati collettizj di differenti paesi non avevano campi nè focolari che
li chiamassero; ed accostumati a vivere insieme nella licenza, e
talvolta di ladroneccio, temevano il ritorno dell'ordine e della
tranquillità che la pace delle due Sicilie procurava all'Italia
meridionale. Lo stesso spirito avventuriere de' soldati animava ancora i
loro capitani; onde invece di disperdersi in differenti paesi, prendendo
servigio, pensarono di tenersi uniti e di porre tutta l'intera armata al
servigio del primo sovrano che volesse adoperarla[206]. In tale maniera
ebbero cominciamento le compagnie propriamente dette di ventura. I capi
di quest'intrapresa erano Ruggero de Fior, vice ammiraglio di Sicilia,
Berengario di Entença, Ferdinando Ximenes de Arenos e Berengario di
Rocafort, tutti personaggi assai distinti[207]. Il primo, sebbene nato a
Brindes, era originario tedesco; era stato Templario, ed aveva
rinunciato, si disse, a questa vocazione, dopo la presa di san Giovanni
d'Acri, per dedicarsi interamente alle armi, o per dir meglio alla
pirateria[208]. Gli altri erano _ricos hombres_ Arragonesi o Catalani.
[206] _Gio. Villani l. VIII. c. 50._
[207] _Hist. de Costant. de Ducange l. VI, c. 23._
[208] _Georg. Pachymeris Hist. Andron. l. V, c. 12._
I generali della compagnia di ventura offrirono i loro servigi ad
Andronico, per ricuperare le province dell'Asia occupate dai Turchi, e
furono accettati a braccia aperte. Andronico decorò Ruggero della
dignità di gran duca, e gli diede per moglie la propria nipote. Sotto la
condotta di questi capi passarono in Grecia circa otto mila uomini
catalani ed arragonesi detti _Almogavari_[209]. Con tal nome indicavasi
la fanteria spagnuola per lo più composta di Mori e di Cristiani. Questi
soldati si acquartierarono a Cizica, ove vissero colle spoglie de' Greci
ch'eransi incaricati di difendere. I diritti della guerra non
esercitaronsi giammai con maggior barbarie in una città nemica[210].
Questa vita da assassino pareva tanto dolce agli Almogavari, che non
volevano a niun patto lasciarla per andare contro ai nemici. A stento
per altro si ridussero in primavera del 1305 a marciare contro i Turchi
che avevano assediata Filadelfia. L'armata turca comandata da Ali Syras
fu disfatta ad Aulax, mortalmente ferito il generale, e la potenza greca
precariamente ristabilita al di là del Bosforo. Ma la licenza de'
Catalani faceva ai Greci egualmente temere le vittorie e le disfatte.
Andronico, che anche in Tessaglia era stato attaccato dai Bulgari,
desiderava dividere la grande compagnia, onde avere il doppio vantaggio
di renderla meno potente, e di opporre valorosi soldati ai due più
temuti nemici. Invitò quindi Ruggero ad unire parte delle sue truppe a
Michele Paleologo suo figliuolo. Ruggero, dietro tale domanda, passò il
Bosforo, non con alcune truppe, ma con tutta la sua armata, e prese i
quartieri d'inverno e si fortificò a Gallipoli[211].
[209] Esiste una relazione di questa spedizione, scritta sulle
memorie di uno de' suoi capitani, intitolata: _Espedicion de Los
Catelanos y Aragoneses contra Turcos y Griegos por D. Francisco de
Moncada Conde de Osona_. Io non l'ho ancora veduta.
[210] _G. Pachymeris Hist. Andron. l. V, c. 21._
[211] _Ducange Hist. de Costan. l. VI, c. 31. — Niceph. Gregoras l.
VII, c. 3. — Pachymeris l. VI, c. 3._
(1307) Tale era lo stato dell'Oriente quando Clemente V volle far
rivivere i diritti di Carlo di Valois, sposo di Caterina di Fiandra,
alla successione dell'impero de' Latini. Prima scrisse all'arcivescovo
di Ravenna ed ai vescovi di Romagna, a quelli della Marca d'Ancona e
dello stato di Venezia, come pure ai più vicini prelati della Grecia,
perchè predicassero la crociata contro i Greci[212]. Proibì sotto pena
della scomunica ad ogni principe cristiano l'alleanza con il
Paleologo[213]; e fece ogni sforzo perchè prendesse parte in questa
sacra guerra Federico di Sicilia. Voleva Federico, se gli fosse stato
possibile, conservare qualche autorità sull'armata catalana che lo aveva
servito tanto tempo prima di passare in Grecia; e perciò aveva mandato
presso ai capi di quest'armata, già divisa dalle fazioni, l'infante
Ferdinando di Majorica, suo cugino germano, per riunirla sotto i suoi
ordini: di modo che se questo trattato riusciva, il re di Sicilia era
quello de' principi latini che poteva più facilmente comandare alla
Grecia. Per ultimo il papa scrisse pure ai Veneziani ed a' Genovesi per
ridurli a secondare colle loro flotte l'impresa di Carlo di Valois[214].
[212] Sua lettera dei 2 degli idi di marzo. 1307. _Rayn._
[213] Bolla del 3 delle none di giugno. _ib._
[214] Lettera pontificia del 19 delle calende di febbrajo 1306.
_Rayn. § 3._
Ma le due repubbliche non erano altrimenti disposte a far causa comune,
intraprendendo per conto de' Francesi la conquista dell'Oriente. Pel
corso di sette anni si erano battute con accanimento per l'esclusivo
dominio dei mari. A questa guerra, cominciata dal 1293, aveva dato
motivo una battaglia accidentale nel mare di Cipro tra quattro galere
veneziane e sette navi mercantili dei Genovesi. L'odio nazionale e
l'estrema gelosia dei due popoli aveano chiusa la via ad ogni
accomodamento per un affare, cui i loro governi non avevano avuto parte,
e ne' cinque susseguenti anni sforzaronsi di opprimersi vicendevolmente
con formidabili apparecchi[215]. Nel 1295 i Genovesi posero in mare
cento sessanta galere, ognuna montata da duecento venti uomini, tutti
abitanti di Genova o delle due Riviere. Questa formidabile flotta
rientrò in porto senza avere incontrato il nemico, dopo averlo
inutilmente cercato nei mari della Sicilia. Nel susseguente anno le due
flotte nemiche si cercarono di nuovo senza trovarsi; ma sessantacinque
galere veneziane, comandate da Ruggero Morosini, vennero ad attaccare i
Genovesi abitanti a Galata in faccia a Costantinopoli, i quali, non
avendo bastanti forze per difendersi, si ritirarono tutti coi loro
effetti nella capitale dell'impero greco, mentre i Veneziani
incendiavano le loro case[216].
[215] _Ann. Gen. l. X. — Uberti Folietæ Hist. Genuens. l. VI._ — Gli
annali di Genova, scritti per ordine pubblico da autori
contemporanei, continuatori di Caffaro, terminano precisamente a
quest'epoca. L'ultimo continuatore è Giacomo Doria, autore del
decimo libro.
[216] _Niceph. Gregoras l. VI, c. 11. — Chron. Januers. Jacobi a
Voragine t. IX, p. 56._
I Genovesi, protetti in questa circostanza da Andronico, strinsero
sempre più l'alleanza che da molti anni gli univa ai Greci; mentre i
Veneziani dichiararonsi apertamente nemici dell'impero. Ma la potenza di
questi soffrì un terribile crollo l'anno 1298 per la battaglia di
Corzola, o Corcira la nera, che terminò la guerra. L'ammiraglio genovese
Lamba Doria erasi avanzato fino a quest'isola, posta in fondo
dell'Adriatico, per incontrare Andrea Dandolo, il quale con una flotta
di novantacinque galere non ricusò la battaglia. Fu questa lunga e
sanguinosa; ma la vittoria si decise a favore dei Genovesi benchè
alquanto più deboli di forze, tostochè quindici navi, staccate
dall'ammiraglio Doria per avere il vento in poppa, attaccarono di fianco
la flotta veneziana tutta impegnata col rimanente della squadra nemica.
La disfatta fu così compiuta, che si salvarono appena dodici galere,
avendone i Genovesi abbruciate sessantasei e condotte diciotto a Genova
con sette mila prigionieri, tra i quali trovavasi l'ammiraglio Andrea
Dandolo[217]. Dopo così terribile battaglia, le due nazioni, quasi
egualmente snervate dalla vittoria e dalla sconfitta, acconsentirono a
fare la pace, che fu segnata l'anno 1299 colla mediazione di Matteo
Visconti, e restituiti i prigionieri da ambo le parti. Lo stesso anno fu
pure conchiusa la pace tra i Genovesi ed i Pisani in conseguenza della
quale avevano, dopo sedici anni di prigionia, ricuperata la libertà gli
sventurati superstiti della disfatta di Meloria.
[217] _Ubert. Folietæ Gen. Hist. t. VI. — Marino Sanuto Vite dei
Duchi di Venez. t. XXII. — Stor. Ven. di And. Navagero t. XXIII. —
And. Danduli Chron. t. XII, p. II._
Siccome la pace non aveva spente le animosità de' Genovesi e de'
Veneziani, doveva prevedersi che nella guerra di Oriente avrebbero
abbracciato opposti partiti; e così appunto accadde. Il 19 dicembre del
1306 i Veneziani convennero con Carlo di Valois di equipaggiare una
flotta che partirebbe da Brindisi in maggio del 1308, e porterebbe
un'armata capace di ricuperare l'impero di Costantinopoli; promettendo
inoltre di mantenere fino a quell'epoca dodici galere armate nei mari
della Grecia per proteggere i partigiani dell'impero latino[218].
Intanto i Genovesi si univano con più stretti vincoli al Paleologo; lo
avvisarono de' trattati che si andavano maneggiando dai Francesi e da
Federigo di Sicilia coi Catalani, e lo persuadevano a mettersi in istato
di difesa contro quella truppa mercenaria.
[218] Raccolta di documenti per la storia di Costantinopoli _p. 33_.
Per la morte di Caterina, sposa di Carlo di Valois, che gli dava un
diritto all'impero, e fors'anco per l'esaurimento del suo tesoro, così
vasti progetti di conquista andarono a vuoto. Ma sebbene il principe
francese rinunciasse alla spedizione, e mancasse di parola ai Veneziani,
non per ciò le due repubbliche lasciarono di prendere una parte assai
viva in questa contesa; i Genovesi come alleati dei Greci, ed i
Veneziani quali alleati de' Catalani, la di cui grossa compagnia di
ventura, divenuta sospetta all'imperatore ed esosa ai sudditi, trovavasi
con loro in aperta guerra. Ruggero de Fior venne assassinato dagli Alani
che seguivano il figlio dell'imperatore, e Berengario di Entença cadde
in mano de' Genovesi in un fatto d'armi presso Reggio di Calabria: onde
la grande compagnia, privata da' suoi due capi, si assoggettò ad altri
due da lei nominati; e formando una specie di regolare governo con un
consiglio di reggenza, s'intitolò _armata dei Franchi in Tracia ed in
Macedonia_[219]. Questa formidabile armata, collegatasi coi Turchi,
saccheggiò tutte le province dell'impero greco, e dopo una serie di
curiosi avvenimenti passò del 1311 nel ducato di Atene, che in allora
apparteneva a Gualtieri di Brienne; ed essendosi inimicata col duca, lo
sfidò a generale battaglia, nella quale fu ucciso con circa settecento
cavalieri francesi, i discendenti degli antichi conquistatori della
Grecia. Atene, Tebe e tutto il ducato, caddero in potere dei Catalani, i
quali fissarono il loro soggiorno in quella provincia[220], in tempo che
il figlio dell'ultimo duca francese, chiamato Gualtieri di Brienne come
il padre, passava in Italia, ove lo vedremo in appresso diventare
tiranno di Firenze; così per lo contrario, alquanto più tardi, un
Fiorentino prese possesso del ducato d'Atene.
[219] _L'hueste de los Francos que reynan en Tracia y Macedonia._
[220] _Stor. di Costant. del Ducange l. VI, c. 7, ed 8. — Nicephor.
Gregoras l. VII, c. 7. — Laonici Calcocondilae de rebus Turcicis l.
I, t. XVI, Biz. Ven. p. 8._
Mentre in Ispagna, in Francia e fino in Grecia, Clemente V dava sicure
prove della sua vile dipendenza da Filippo il bello, e della sua
parzialità, la condotta da lui costantemente tenuta rispetto alle città
toscane fu quella di pacificatore al tutto straniero alle fazioni guelfa
e ghibellina, e più portato a favorire i Bianchi che i Neri, pel solo
motivo che quelli erano esiliati e perseguitati. Per farli ripatriare
Clemente fece, benchè inutilmente, i più lodevoli sforzi. Non era egli
fino dalla fanciullezza stato nodrito ne' pregiudizj di quelle antiche
fazioni, nè ve lo attaccavano le sue parentele. Sebbene i reali di
Francia siano stati gli alleati dei Guelfi, Filippo, in tempo delle sue
contese con Bonifacio, erasi unito ai Colonna ed al cardinal di Prato,
che erano Ghibellini; e l'ultimo, cui Clemente V andava in particolar
modo debitore della sua elezione, aveva sotto il pontificato di
Benedetto XI avuta particolare cagione di essere scontento dei Neri che
governavano Firenze. È d'uopo ripigliare questa parte della storia
toscana, che abbiamo dovuto lasciare imperfetta per non rompere il filo
degli altri avvenimenti.
Abbiamo detto che Benedetto XI desiderava di riconciliare i Bianchi ed i
Neri, e che per tale motivo aveva mandato in Toscana il cardinale di
Prato. Entrò questi in Firenze il 10 maggio del 1303, e dopo avere
adunati tutti i cittadini nella piazza di san Giovanni, diede loro parte
della pacifica missione di cui era incaricato e dell'autorità che il
papa gli aveva data; poi chiese ai Fiorentini di rimettersi
confidentemente alla sua mediazione. Il popolo cominciava ad essere mal
soddisfatto del nuovo governo, e vedeva il pericolo dipendente da una
discordia che guastava tutta la repubblica ed aveva omai ruinata la metà
de' suoi cittadini; di modo che in un parlamento acconsenti di dare al
cardinale piena _balìa_ per riformare la repubblica; non accordandogli
soltanto i poteri necessarj per conchiudere parziali paci tra le
famiglie nemiche, ma in oltre il diritto di nominare il gonfaloniere, i
priori e tutti i magistrati fino al primo di maggio del 1304: la quale
balìa fu in seguito prorogata per un altro anno. Il cardinale approfittò
dell'affidatagli autorità per rappacificare, durante la sua dimora in
Firenze, molte delle più potenti famiglie: rese più forte l'influenza
del popolo sul governo, rinnovando i gonfalonieri delle compagnie; e di
consenso de' nuovi priori ammise in città i deputati dei Bianchi per
trattare col partito dominante. Trovavasi fra i primi Petracco
dell'Ancisa padre del poeta Petrarca[221].
[221] _Cron. di Dino Compagni l. III. — Gio. Villani, l. VIII. c.
68._
Ma la cacciata de' Bianchi da Firenze aveva accresciuto a dismisura il
credito dell'antica nobiltà guelfa, la quale vedeva di mal occhio i
tentativi del cardinale per abbassarla di nuovo. Cercò quindi con fina
avvedutezza d'indisporre contro di lui il popolo, e di preparare segreti
ostacoli alla pace generale ch'egli meditava. Questa fazione falsificò
una volta il suggello del cardinale, e spedì da sua parte ordine ai
Bianchi ed ai Ghibellini di Bologna di venire in suo soccorso.
L'avvicinamento di quest'armata eccitò l'indignazione del popolo in
maniera, che il cardinale protestò invano di non aver avuto parte a tale
chiamata ed invano ordinò ai Bolognesi di ritirarsi: la confidenza che
si era con tanta fatica acquistata presso il popolo, fu in un istante
perduta per sempre.
I capi dei Neri domandarono in appresso al cardinale di occuparsi della
pace di Pistoja prima di terminare quella di Firenze. La parte Bianca
dominante a Pistoja, dicevano essi, doveva accordare ai Neri le medesime
vantaggiose condizioni, che i Neri dominanti a Firenze sono disposti di
accordare ai Bianchi fuorusciti. Il cardinale, recandosi a Pistoja,
passò per Prato, che, sebbene fosse la patria de' suoi maggiori, egli
non aveva ancora veduta; ed il rispettoso e distinto accoglimento che
gli fece quel popolo, accrebbe la gelosia dei Neri. I Guazalotti, capi
di questo partito in Prato, ne fecero amara vendetta al suo ritorno da
Pistoja, ove nulla aveva potuto ottenere. Gli fecero chiudere in faccia
le porte della città e ne proscrissero i parenti ed i loro partigiani,
che dovettero salvarsi colla fuga. Il cardinale irritato scomunicò la
città di Prato ed accordò le indulgenze della crociata a coloro che
prenderebbero le armi contro la sua patria. Rientrato in Firenze, non
tardò ad accorgersi che l'accadutogli a Pistoja e Prato aveva distrutta
in modo la sua riputazione, che, in occasione di una sommossa, la
famiglia de' Quaratesi, vicina al palazzo da lui abitato, fece tirare
contro la sua persona. Allora il cardinale volgendosi al popolo che lo
circondava, gridò: «poichè voi volete essere in guerra e maledetti,
ricusando di ascoltare il messaggiere del vicario di Dio; poichè non
volete nè riposo nè pace, rimanetevi adunque colla maledizione di Dio e
della santa Chiesa.» Partì il giorno 4 giugno del 1304, lasciando la
città scomunicata, e Benedetto XI confermò a Perugia questa scomunica.
In Firenze tenne dietro alla partenza del cardinale una sedizione:
mentre coloro che l'avevano forzato a ritirarsi, battevansi contro
quelli che volevano la pace, un prete, chiamato ser Neri Abbati, appiccò
il fuoco alle case dei Bianchi in due diversi luoghi della città.
Questi, occupati trovandosi nella zuffa, non poterono fermare
l'incendio, il quale, stendendosi rapidamente verso il centro della
città, distrusse mille settecento case ne' quartieri occupati dai
magazzini dei mercanti, cagionando un'immensa perdita a molte delle più
ricche famiglie e specialmente ai Cavalcanti ed ai Gherardini, che
furono al tutto ruinati[222].
[222] _Gio. Villani l. VIII, c. 71. — Dino Compagni Cronica, l.
III._
In conseguenza della scomunica fulminata contro Firenze furono dal papa
citati a Perugia dodici capi di parte nera con cento cinquanta cavalieri
loro amici. Il cardinale di Prato scrisse allora ai Ghibellini ed ai
Bianchi di Pisa, d'Arezzo, di Bologna e di Pistoja, essere questo il
momento di sorprendere Firenze e di vendicarsi. Infatti i Bianchi si
adunarono e s'avanzarono segretamente; ma gli emigrati fiorentini erano
arrivati alla Lastra, due sole miglia sopra Firenze, coi Bolognesi, gli
Aretini, ed i Romagnoli il 21 luglio 1304, in cambio del 23, ch'era il
giorno destinato. Essi formavano un corpo di mille seicento cavalli e di
nove mila uomini d'infanteria. Il conte Fazio doveva raggiugnerli da
Pisa ed era già arrivato al castello di Marti con quattrocento cavalli;
doveva arrivare da Pistoja Tolosato degli Uberti con trecento cavalli e
molti pedoni, il quale prese la strada della montagna quand'ebbe avviso,
che i suoi alleati erano giunti innanzi tempo presso a Firenze.
Baschiera dei Tosinghi, giovane emigrato fiorentino, comandava il primo
corpo che arrivò alla Lastra. Molti messaggi ricevuti dai Bianchi di
Firenze lo incoraggiavano ad avanzarsi senza aspettare le truppe di Pisa
e di Pistoja, e ciò ch'era ancor peggio, senza aspettare la notte, che
avrebbe calmato quel calore soffocante che opprimeva gli uomini ed i
cavalli, ed inoltre avrebbe permesso agli amici di Firenze di recarsi al
loro campo. I Bianchi entrarono senza trovare resistenza per la porta di
san Gallo, che in allora non era che la porta di un sobborgo, ed
arrivarono fino alla piazza di san Marco, ove si posero in ordine di
battaglia colla spada alla mano, ma colla testa coronata d'ulivo e
gridando _pace! pace!_ Frattanto non essendo raggiunti dai Bianchi della
città, spedirono un piccolo corpo per sorprendere la porta degli Spadai,
ove provarono qualche resistenza. Di là la stessa divisione si avanzò
verso il duomo, e si vide attaccata per le strade da que' medesimi che
sarebbersi creduti pronti a secondare gli emigrati; sia perchè loro
sembrasse l'impresa imprudente e mal condotta, oppure, come racconta il
segretario fiorentino, perchè volevano bensì accordare la pace alle loro
preghiere, ma non alle armi[223]. In questo frattempo, appiccatosi il
fuoco ad alcune case vicine alla porta, i Bianchi ch'erano entrati in
città, temettero di rimanere divisi dal corpo principale, e ripiegarono
verso Baschiera sulla piazza di san Marco. I Bolognesi, rimasti alla
Lastra senza fare alcun movimento, avuto avviso della loro ritirata e
credendo rotta tutta l'armata ghibellina, ripresero subito la strada di
Bologna. Invano Tolosato degli Uberti, che gl'incontrò, venendo co' suoi
Pistojesi, tentò di ricondurli verso Firenze; essi vollero ad ogni modo
abbandonare l'impresa. Intanto Baschiera sulla piazza di san Marco, più
sostener non potendo l'eccessivo calore e la mancanza d'acqua, dovette
dare il segno della partenza. Inseguito nella sua ritirata dai
Fiorentini, perdette molta gente[224]: per tal modo la parte de' Bianchi
che aveva quasi in pugno la vittoria, fu per una continuata serie
d'errori compiutamente disfatta.
[223] _Machiavelli Stor. Fior. l. II._
[224] _Gio. Villani l. VIII, c. 72. — Dino Compagni Cronaca l. III.
— Istorie Pistolesi anonime t. XI._
Fu precisamente all'epoca di quest'attacco disgraziato, che morì
Benedetto XI. Mentre i cardinali erano chiusi in conclave per l'elezione
del suo successore, credettero i Neri di poter dare compimento alle loro
vendette senza timore di esserne impediti dall'arrivo di qualche nuovo
paciere. I due governi di Firenze e di Lucca stabilirono perciò di
occupare Pistoja, ov'eransi ritirati molti dei loro emigrati, ed ove
dominava Tolosato degli Uberti, l'erede di quella famiglia in ogni tempo
ghibellina, che aveva prodotto il magno Farinata. I Fiorentini
differirono l'impresa di Pistoja al mese di maggio del 1305, e
s'impegnarono a non abbandonarne le mura finchè la città non
s'arrendesse. Fecero domandare un generale a Carlo II re di Napoli, il
quale mandò loro Roberto di Calabria, suo figlio ed erede presuntivo,
con trecento cavalieri aragonesi o catalani, ed un ragguardevole corpo
di fanteria almogavara. Queste truppe spagnuole, non diverse da quelle
passate in Grecia con Ruggeri di Flor, erano state licenziate da
Federico di Sicilia, e prendevano soldo da tutte le potenze che
volessero approfittare de' loro servigi.
Il duca di Calabria partì da Firenze il 22 maggio del 1305 alla testa
delle milizie di quella repubblica, ed incontrò in vicinanza di Pistoja
le truppe lucchesi. Le due armate si divisero i lavori dell'assedio ed
alzarono ridotti di distanza in distanza mezzo miglio lontani dalle
mura: dopo di che il duca fece bandire che accordava tre giorni di tempo
per uscire di Pistoja a tutti coloro che non volessero essere
considerati come nemici della Chiesa e del re di Sicilia; ma che dopo
tale termine tutti coloro che rimarrebbero entro l'assediata città,
verrebbero trattati di ribelli, e permesso a chicchessia sarebbe di
ucciderli. Perchè i Pistojesi non avevano sufficiente provvisione di
vittovaglie, approfittarono della concessione del duca di Calabria per
far uscire dalla città molte bocche inutili[225].
[225] _Istorie Pistolesi anonime t. XI._
Pistoja è posta in un piano; era cinta di mura in allora assai forti e
di poco esteso giro, con larghe fosse piene di acqua che ne impedivano
gli approcci; le porte erano gagliardamente fortificate, e varj ridotti
sostenevano le mura, di modo che l'arte degli assedj, essendo di que'
tempi ancora troppo imperfetta, gli assedianti non potevano lusingarsi
di prendere la città per forza. Perciò i generali guelfi cercarono di
affamarla, e fecero scavare dall'uno all'altro ridotto larghe fosse che
guarnirono di palizzate; ondechè terminato questo lavoro più non fu
possibile di vittovagliare la città. I Pistojesi per interrompere i
lavori facevano frequenti sortite e combattevano valorosamente, ma erano
talmente inferiori di numero, che venivano sempre respinti con perdita.
Tali scaramuccie erano spesse volte seguite da atti crudelissimi, troppo
odiosi perchè se ne debba conservare la memoria. Un violento odio di
partito ed un infinito numero di vendette personali s'aggiungevano
all'animosità nazionale.
I Pisani mandavano bensì alcuni soccorsi di danaro, ma non si trovavano
abbastanza forti per rompere la loro tregua coi Fiorentini, ed avanzarsi
con un'armata capace di far levare l'assedio; ed i Bolognesi, poco
affezionati a Pistoja, non si davano pensiero di soccorrerla. Frattanto
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