Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 04 (of 16) - 14

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perder tempo spedì tutte le sue truppe ad attaccare quelle case, prima
che fossero più gagliardamente fortificate. Frattanto egli era
estremamente agitato; non dissimulandosi che con un pugno di cavalieri
tedeschi non avrebbe potuto tener fermo in mezzo ad una città nemica,
qualora i Visconti si fossero uniti ai Torriani e la nobiltà al popolo.
Ma pare che Matteo Visconti avesse ordito un doppio tradimento, e che,
avendo persuaso Guido della Torre ad impugnare le armi, egli avesse
adunati i suoi antichi partigiani per essere a portata di piombare
addosso al suo antico rivale. Galeazzo suo figliuolo comandava un grosso
corpo di Ghibellini, i quali dopo essere rimasti alcun tempo indecisi,
probabilmente per vedere da qual parte piegava la vittoria, vennero a
far causa comune coi Tedeschi. I nobili ed i Ghibellini che combattevano
tra le file dei Torriani, non vedendosi comandati da verun capo
ghibellino, uscirono dalla zuffa. Allora le barricate furono rotte, le
case dei Torriani saccheggiate ed incendiate, e Guido e suo figlio
costretti di mettersi in salvo colla fuga[262].
[261] Questo fatto è una luminosa prova dell'osservazione del
maggior politico italiano, essere più sicura la fede de' governi
liberi che de' piccoli principi. _N. d. T._
[262] _Henrici VII, Iter Ital. t. IX, p. 897. — Abb. Mussati Hist.
Aug. l. II, R. I, t. X. — Ferret. Vicent. l. IV. — Trist. Calchi
Hist. patriæ, l. XX._
Questa sommossa di Milano parve un segnale dato a tutte le città guelfe
di Lombardia per ribellarsi e scacciare i vicarj imperiali cogli
emigrati richiamati da Enrico nella loro patria. Crema, Cremona,
Brescia, Lodi e Como si ribellarono tutte ad un tempo, e si allearono
con Guido della Torre, che aveva seco tutti i Milanesi fuorusciti. Ma
queste città non eransi preparate a fare una lunga resistenza: senza
vittovaglie e senza denaro, erano più atterrite della sorte dei
Torriani, che disposte a vendicarli; di modo che, appena passato quel
primo inconsiderato impeto che loro aveva poste le armi in mano, le più
deboli implorarono la clemenza di Enrico, tosto che lo conobbero
determinato a volerle sottomettere. Lodi e Crema gli aprirono le porte
ed ottennero il perdono, che per altro non le salvò da molte particolari
molestie. I capi de' Guelfi cremonesi fuggirono, ed i Ghibellini, avendo
resa la città, furono dall'imperatore crudelmente puniti di una colpa,
cui non avevano avuta parte. Duecento de' principali cittadini, venuti a
gittarsi ai suoi piedi per ottenere il perdono, furono cacciati in
orribili prigioni; furono atterrate le mura e le rocche di Cremona; il
comune fu assoggettato ad un'emenda di cento mila fiorini, e le
proprietà e le persone de' cittadini abbandonate alla licenza ed alle
molestie de' Tedeschi vincitori.
La sola città di Brescia, non peranco sottomessa, aveva ricevuti i
fuggitivi di Lodi e di Crema, onde, udendo dagli ultimi quanto fossero
pentiti d'essersi arresi, determinò di volersi difendere. Il 19 di
maggio del 1311, Enrico l'assediò con tutte le sue genti. In questa
città era capo del partito guelfo Tebaldo Brusati, al quale colla cura
della difesa della patria era stato dato il titolo e l'autorità di
signore e di principe[263]. La città si difese valorosamente tutta la
state, avendo in molte sortite battuti gl'imperiali; e, sebbene una
volta fosse fatto prigioniero Tebaldo, non vollero salvargli la vita a
prezzo della libertà. Anzi questo generoso capo, benchè prigioniero,
esortava i suoi concittadini a difendersi, onde Enrico, per punire tanta
audacia, lo dannò a crudelissimo supplicio, che i Bresciani vendicarono
barbaramente, facendo appiccare ai merli delle loro mura sessanta
prigionieri tedeschi. Poco dopo Valerano, conte di Luxemburgo, fratello
d'Enrico, fu ucciso in una scaramuccia, ed il monarca che si moriva di
voglia di ricevere a Roma la corona imperiale, e che d'altra parte
trovava l'onor suo interessato a vendicare gli affronti ricevuti sotto
Brescia, vedevasi ridotto in difficile posizione, tanto più che le
malattie incominciavano a fare stragi nel suo campo.
[263] _Jacobi Malvecii Chron. Brixian. Distin. IX, c. 4. t. XIV. —
Ferreti Vicent. l. IV._
In tale stato di cose pensò di ricorrere alle armi spirituali della
chiesa. Era egli accompagnato da tre cardinali legati, incaricati
d'incoronarlo a Roma in nome del papa, onde pregò uno di loro a
fulminare la scomunica contro i Bresciani; ma questi gli rispose che
sebbene avesse il potere di sciogliere e di legare in suo nome, non
voleva compromettere l'autorità della chiesa senza speranza di felice
riuscita, e soggiunse: «che gl'Italiani si prendevano poco fastidio
delle scomuniche; che i Fiorentini non avevano fatto verun caso di
quelle del cardinale vescovo d'Ostia; che i Bolognesi non temettero
quelle del cardinale Napoleone Orsini, nè i Milanesi quelle del
cardinale Pelagrua. Se la spada temporale non li riduce per timore al
dover loro, meno potrà farlo la spirituale[264].»
[264] _Henrici VII, Iter Ital. t. IX, p. 903._
I cardinali adunque, invece di fare il dubbio esperimento della
scomunica, cercarono d'interporre il loro credito personale ed i loro
consigli. Avendo potuto entrare in città ottennero dai Bresciani, che
cominciavano a mancare di vittovaglie, un'onorevole capitolazione che
poi fu male osservata. L'imperatore entrò in città per la breccia, ed
ebbe dai Bresciani sessanta mila fiorini; indi, prendendo la strada di
Cremona, Piacenza, Parma e Tortona, arrivò a Genova il 21 di
ottobre[265].
[265] _Jacobi Malvecii Chron. Brix. Dist. IX, c. 1-19. — Albertini
Mussati Hist. Aug. l. IV. — Henr. VII, Iter Ital. t. IX. — Ferr.
Vicent. l. IV. — Trist. Calchi Hist. patr. l. XX._
Genova era stata ne' precedenti anni minata dalle guerre civili. Obizzo
Spinola, sostenuto dal partito ghibellino, aveva signoreggiata un anno
la repubblica con un quasi assoluto potere, e n'era stato cacciato dai
Grimaldi e dai Fieschi, spalleggiati dai Doria. Finalmente stanchi delle
comuni sconfitte erano venuti ad una pace, che non sembravano volere
lungamente osservare, quando la venuta di Enrico in Genova portò, come
osserva lo storico di quella repubblica, un importante cambiamento nella
costituzione dello stato. «Per la prima volta, egli dice, una straniera
potenza fu tra noi riconosciuta, esempio più volte imitato ne'
posteriori tempi; di modo che è cosa veramente maravigliosa, che quello
stesso popolo che non perdonò a dispendio d'uomini e di danaro, che
tanto si mostrò bellicoso ed ostinato quando volle stendere il suo
dominio sulle nazioni straniere affatto lontane; che quel popolo che sì
grandi perdite sostenne e tanti pericoli incontrò per vendicare la
maestà del suo nome contro i più grandi potentati, non abbia poi prese
le armi per conservare la sua indipendenza, ed abbia creduto di metter
fine alle intestine sue discordie sottoponendosi volontariamente ad una
straniera potenza. Vero è ch'egli provò ben tosto essere di tutti i
popoli quello che sapeva meno pazientemente soffrire la servitù, poichè
scacciò tutti i padroni chiamati a governarlo[266].»
[266] _Ubert. Folieta Genuens. Hist. l. VI._
In fatti i Genovesi accordarono ad Enrico per venti anni un'assoluta
autorità sulla repubblica; ma poi non tardarono a pentirsene. Enrico
licenziò il podestà che amministrava in città la giustizia, surrogandovi
un vicario imperiale; privò de' suoi onori l'abate del popolo, che così
chiamavasi un magistrato popolare, che a guisa de' tribuni di Roma
doveva essere il protettore della plebe; finalmente impose sulla
repubblica una tassa di sessanta mila fiorini[267]. Enrico si trattenne
più mesi in Genova, ove perdette la sua consorte che lo aveva colà
accompagnato; e non andò molto che, trovandosi senza danaro, fu
costretto di contrarre debiti per supplire al suo giornaliero
mantenimento. E siccome non li pagava, i suoi creditori cominciarono a
spargere contro di lui calde invettive. Aveva nello stesso tempo avvisi,
che quasi tutta la Lombardia erasi, per le suggestioni de' Fiorentini,
ribellata un'altra volta, ed aveva formata una lega guelfa, nella quale
erano pure entrati Giberto di Coreggio, signore di Parma, Filippone
Langusco di Pavia, il marchese Cavalcabò esiliato Cremonese, Guido della
Torre esiliato Milanese, Vercelli, Asti, ed altre città[268].
[267] _Albert. Mussati Hist. Aug. l. V, R. I. — Ferretus Vicent. l.
V, p. 1088._
[268] _Alb. Mussati l. V, Rub. 9._
Gli ambasciatori di Roberto, re di Napoli, vennero a Genova alla corte
d'Enrico. Questi due sovrani, che si disputavano il dominio dell'Italia,
dovevano osservarsi con diffidenza. Enrico, malgrado l'imparzialità
mostrata al suo arrivo, non aveva trovati nemici che tra i Guelfi, e
zelanti partigiani soltanto tra i Ghibellini. Dall'altro canto Roberto
era alleato di tutti i Guelfi d'Italia, si era dichiarato loro
protettore e faceva alla scoperta apparecchi per difenderli. Pure fino a
quest'epoca Enrico aveva cautamente evitato ogni motivo di disgusto con
lui, non avendo voluto ricevere il giuramento di fedeltà dalle città
d'Alba e d'Alessandria, nè dal marchese di Saluzzo, sebbene dipendenti
dall'impero, perchè queste città ed il marchese si erano posti sotto la
protezione di Roberto. Enrico mostravasi inoltre apparecchiato a
ravvicinare le due famiglie col matrimonio di una delle sue figliuole
con uno dei principi di Napoli, ma i deputati di Roberto chiedevano per
condizione di questo parentado, che uno de' fratelli del loro re venisse
fatto senatore di Roma e vicario della Toscana. Si seppe in breve che il
principe Giovanni di Napoli era entrato con un'armata in Roma per
difendere il circondario di questa capitale dall'armata imperiale, e
che, essendosi unito agli Orsini, aveva attaccati i Colonna e tutti i
partigiani di Enrico. All'avviso di tali emergenze i deputati di Roberto
fuggirono la notte da Genova: e i due re, senza veruna dichiarazione di
guerra, fecero nuovi apparecchi per offendersi[269].
[269] _Alb. Mussati Hist. Aug. l. V, Rub. 6. — Ferreti Vicent. l. V,
p. 1091._
La lega guelfa di Toscana, di cui era capo Roberto, aveva guarnito di
truppe lo stato di Lucca ed il paese di Sarzana per chiudere il
passaggio ad Enrico; faceva guardare gli Appennini tra Fiorenza e
Bologna per difendere anche quest'ingresso della Toscana[270]. Enrico
aveva spediti per questa strada due deputati, incaricati di allestire
gli alloggiamenti e di ricevere dai Toscani il giuramento di fedeltà.
Erano questi Pandolfo Savelli, notajo pontificio, e Nicola Vescovo di
Botronto, autore dell'interessante relazione della spedizione d'Enrico
in Italia[271].
[270] _Gio. Villani l. IX, c. 20 e 26._
[271] Questa relazione venne indirizzata a papa Clemente V dal suo
autore in sul finire del 1313 o in principio del 1314. Difficilmente
può trovarsi uno scrittore più degno di fede, non avendo riferito
che quello ch'egli vide.
Questi due deputati giunti sul territorio di Bologna, fecero domandare
al podestà e consiglieri della repubblica il permesso di attraversare la
città per andare in Toscana. In vece di dar loro risposta, fu posto in
prigione il messo, il quale, avendo avuto modo di fuggire, andò ad
avvisare i deputati del comune pericolo. Essendo questi tre sole miglia
lontani dalle mura, si affrettarono di prendere la strada della montagna
senza avvicinarsi a Bologna, ma trovandola guardata dai soldati
fiorentini, a stento e tra molti pericoli ottennero di arrivare il
secondo giorno alle Lastre, due sole miglia lontana di Firenze.
«Prima di giugnervi, dice il vescovo di Botronto, fu da noi spedito al
podestà, capitano, ed altri governatori della città, lo stesso notajo
ch'era stato imprigionato a Bologna, onde prevenirli che venivamo quali
messaggeri di pace pel bene della Toscana con lettere di vostra santità
e del re, pregandoli in pari tempo di prepararci un alloggio. Avendo i
magistrati ricevute le nostre lettere, adunarono, secondo il costume di
Firenze, il gran consiglio che non si sciolse prima del tramontare del
sole. Il nostro messo, dopo avere molto aspettato, non essendogli stata
preparata alcune stanza, si ritirò, incaricando alcuna persona di
avvisarlo nel luogo indicato, quando fosse richiesto per ricevere una
risposta. Appena giunto al suo alloggio, il consiglio si separò e fece
conoscere coi fatti la risposta che aveva determinato di darci. Gli
usceri della città, in ora così avanzata, proclamarono al popolo, per
parte del consiglio, in tutti i luoghi consueti, ch'eravamo giunti due
miglia lontano dalla città, noi messi ed ambasciatori di quel tiranno,
re di Germania, che aveva in Lombardia distrutto il più che avea potuto
del partito guelfo, e che adesso preparavasi ad entrare in Toscana dalla
banda del mare per distruggere i Fiorentini ed introdurre in casa loro i
più fieri nemici; che questo re aveva spediti noi per la via di terra,
noi ch'eravamo preti, per sovvertire la loro patria sotto l'ombra della
chiesa: onde bandivano pubblicamente il signor re e noi ch'eravamo suoi
nunzj, permettendo, a chiunque il volesse, di offenderci impunemente sia
nelle persone che nelle proprietà, essendo a loro notizia che portavamo
molto danaro per corrompere i Toscani ed assoldare i Ghibellini. — Il
nostro messo, atterrito da questa bandigione, non osò uscire dalla casa
in cui erasi ritirato, nè mandare persona ad avvisarci del pericolo in
cui eravamo. Ma un vecchio di casa Spini, ch'era stato banchiere di papa
Onorio, zio del signor Pandolfo, mio compagno, gli fece sapere per
lettera tutte queste cose. Noi eravamo già a letto addormentati quando
ci fu recata la sua lettera alle Lastre; e ci levammo senza sapere quale
partito prendere: il tornare a Bologna o nel suo territorio era per noi
la più pericolosa risoluzione, come ne avevamo di già fatta esperienza;
altronde non conoscevamo verun'altra strada, e l'ora avanzata faceva più
grande il nostro pericolo. Scrivemmo dunque al podestà ed al capitano di
Firenze nati amendue nelle terre della Chiesa, uno a Radicofani, l'altro
nella Marca, per intendere da loro come regolarci dopo quella
_bandigione_. Appena fatto giorno si fecero allestire i nostri cavalli e
caricare gli equipaggi: e mentre stavamo a mensa, in attenzione del
messo, udimmo suonare campana a martello e subito le strade furon piene
di uomini armati a piedi ed a cavallo, i quali circondarono la nostra
casa; ed un uomo di bella presenza della famiglia Magalotti, plebeo,
volle salire la nostra scala, gridando _a morte! a morte!_ ma il nostro
ospite colla spada alla mano non permetteva a chicchessia di salire le
scale.
«In questo tumulto le nostre bestie da soma e quasi tutti i nostri
cavalli ci furono tolti dai soldati, i quali non tardarono ad introdursi
da diverse bande sulla scala; ed entrarono nella nostra camera coi
coltelli sguainati. Alcuni de' nostri domestici fuggirono, gettandosi
dalle finestre nell'attiguo giardino, e così fece il frate mio
compagno[272]; altri si nascosero sotto i letti, temendo d'essere
uccisi; pochi rimasero con noi. Ma Iddio che ci liberò dalle loro mani,
ci diede tanto coraggio, che, posso attestarlo sulla mia coscienza, non
ebbi il menomo timore per me, sebbene fossi il più esposto. Mentre ciò
accadeva alle Lastre, in Firenze si tumultuava; dicevano molti essere
mal fatto il bandirci in tal modo, e specialmente il signor Pandolfo
ch'era uno de' più nobili di Roma. Per questo motivo, e mossi inoltre
dalle preghiere di quel mercante di casa Spini, che chiamavasi, se bene
mi ricordo, Avvocato, il podestà ci mandò una delle sue guardie ed il
capitano un cittadino in compagnia de' quali venne anche il detto
mercante. Essi scontrarono sulla strada alcuni de' nostri cavalli e
delle bestie da soma, che venivano condotti in città; li ripresero ai
soldati, e ce li ricondussero, dicendoci nello stesso tempo che, se ci
era cara la vita, dovevamo subito dar a dietro, mentre si sarebbero essi
occupati di farci rendere tutto quanto eraci stato tolto. Volevamo
esporre loro la nostra ambasciata, ma rifiutarono di ascoltarla;
volevamo far loro vedere le vostre lettere, e non vollero vederle. Si
chiese che ci fosse permesso di attraversare di notte Firenze ben
custoditi affinchè non potessimo parlare ad alcuno; ma lo negarono,
dicendo, che avevano ordine di farci ritornare là onde eravamo venuti.
Questo vecchio Avvocato degli Spini ci aveva appartatamente detto che ci
guardassimo dall'entrare in Bologna, o nel suo territorio, ove già si
sapeva che dovevamo essere scacciati dal distretto di Firenze, e che i
Bolognesi dovevano trattarci come pubblici nemici, affinchè atterrito
dal nostro esempio verun altro osasse entrare nel territorio della lega.
Noi che conoscevamo la vigliaccheria e la malvagità de' Bolognesi,
replicammo che, quand'anche dovessimo essere uccisi, noi non entreremmo
giammai nel bolognese. Dopo avere lungamente consultato tra di loro,
finalmente ci posero sulla strada che conduce alle terre del conte
Guido, tra Bologna, la Romagna ed Arezzo. Essi non riuscirono a farci
restituire che undici cavalli e tre bestie da soma; ed il signor
Pandolfo perdette più di me, perchè aveva più roba. Io perdetti la mia
cappella, e tutto quanto possedevo di cose d'oro e d'argento, tranne uno
stiletto d'oro delle mie tavolette, ed un anello che avevo in
dito»[273].
[272] Il vescovo di Botronto era domenicano, e giusta le regole
dell'ordine era sempre accompagnato da un altro religioso del suo
convento, ma di un rango inferiore.
[273] _Henrici VII Iter Ital. t. IX, p. 908._
I Fiorentini non senza ragione avevano presa parte di non ricevere gli
ambasciatori dell'imperatore[274]; e per lo migliore avrebbero dovuto
condurli sul territorio neutro di Modena, anzichè permetter loro di
penetrare in Toscana: conciossiachè que' medesimi prelati, che giunsero,
siccome fuggitivi, ne' feudi imperiali degli Appennini, si videro tosto
venire incontro tutti i conti Guidi delle due famiglie guelfa e
ghibellina, i quali diedero loro di molto denaro e cavalli, e prestarono
giuramento di fedeltà al loro imperatore. Gli ambasciatori si recarono a
Ciortella tra Arezzo e Siena, ove alzarono un tribunale, citando subito
a comparire Firenze e Siena. «Siccome queste città, scrive il vescovo di
Botronto, rimasero contumaci, abbiamo proceduto contro di loro,
condannandole a molte pene temporali secondo le nostre facoltà,
osservando costantemente le regole del diritto, del quale per altro io
non sono troppo intelligente; ma il signor Pandolfo mio compagno è molto
versato, secondo dicono, nell'una e nell'altra legge.»
[274] _Gio. Villani l. IX, c. 25._
In seguito i due prelati citarono gli abitanti di Arezzo, di Cortona, di
Borgo san Sepolcro, Monte Pulciano, san Savino, Lucignano, Chiusi, città
della Pieve e Castiglione Aretino. Tranne gli abitanti di Chiusi e di
Borgo san Sepolcro tutti ubbidirono, e prestarono il giuramento di
ubbidienza; di modo che quando i due prelati furono avvisati dell'arrivo
d'Enrico a Pisa, lo raggiunsero, accompagnati da molti conti e signori e
dalle milizie di varie città.
Enrico, per mettersi in istato d'abbandonare Genova, aveva dovuto
ricorrere ai Pisani, che gli prestarono una ragguardevole somma di
danaro; onde si pose in mare il 16 febbrajo del 1312 con trenta galere
montate da circa mille cinquecento uomini d'armi; e, dopo essere stato
trattenuto diciotto giorni dal cattivo tempo a Porto Venere, era giunto
a Pisa il giorno 6 di marzo[275]. La città di Pisa costantemente
attaccata alla fazione ghibellina, ed agl'imperatori consacrò senza
riserva le sue forze e le sue ricchezze al servigio d'Enrico. Gli aveva
mandato a Genova il conte Fazio di Donoratico, figliuolo di quel conte
Gherardo che aveva perduta la testa sul patibolo con Corradino[276],
facendolo accompagnare da ventiquattro de' suoi principali cittadini.
Due volte lo aveva sovvenuto di denaro, e gli offrì di nuovo un dono
considerabile quando entrò in città. Acconsentì di farlo assoluto
signore, sospendendo il governo de' suoi anziani, per dipendere da lui
solo. Finalmente, per fargli cosa grata, riprese l'interrotta guerra con
Firenze e con Lucca, tirandosi addosso tutte le forze della lega
toscana: ma non per questo lasciò di accompagnare Enrico, che partiva
alla volta di Roma, con un rinforzo di galere e seicento
balestrieri[277].
[275] _Gio. Villani l. IX, c. 36. — Ferr. Vicent. l. V._
[276] _Albert. Mussatus Hist. Aug. l. V, R. 5._
[277] _Cron. di Pisa t. XV, p. 985._
Enrico soggiornò due mesi a Pisa, nel qual tempo ingrossò la sua armata
coi Bianchi e coi Ghibellini esiliati dalle città guelfe, e s'avviò
verso Roma alla testa di due mila cavalli, prendendo la strada di
Piombino e della Maremma. Il re Roberto aveva mandato a Roma suo
fratello Giovanni con una piccola armata per occupare il Vaticano e metà
della città. Non pertanto aveva di nuovo assicurato Enrico, che, lungi
dal volersi opporre alla sua coronazione, non aveva mandate truppe
napoletane a Roma che per onorarlo. Enrico dunque si avvicinava con
piena sicurezza, ma trovò Ponte Molle fortificato dal principe Giovanni
che mandò a sfidarlo, dichiarandogli che teneva ordine dal fratello
d'impedire il suo coronamento. Il giorno 7 di maggio del 1312 Enrico
forzò il ponte, entrando in seguito nella città divisa tra due armate e
due fazioni. I Colonna eransi dichiarati a favore dell'imperatore, pel
re di Napoli gli Orsini. Coll'ajuto dei primi e del senatore Luigi di
Savoja, ebbe Enrico il possesso del Campidoglio e di san Giovanni di
Laterano; e poco dopo s'impadronì ancora del Coliseo, della Torre dei
Conti, di quella di san Marco e del monte de' Savelli formato colle
rovine del teatro Marcello; ma non potè giammai scacciare i suoi nemici
dal Vaticano e dalla città Leonina, di modo che, rinunciando a farsi
coronare nella basilica destinata a tale cerimonia, ottenne dai tre
cardinali, incaricati dal papa di coronarlo, di eseguir tale funzione
nella chiesa di san Giovanni di Laterano, di cui era egli padrone. In
fatti vi fu consacrato il 29 giugno del 1312, giorno della festa de'
santi Pietro e Paolo[278].
[278] _Henr. VII Iter Ital. p. 919. — Ferretus Vicent. l. V, p.
1104._
Il nuovo imperatore trovavasi in Roma in assai difficile posizione: metà
della città era in aperta guerra contro di lui, essendovi acquartierata
un'armata nemica eguale alla sua, che poteva da un istante all'altro
essere ingrossata, mentre quella dell'imperatore non poteva ricevere
soccorso che da troppo lontani amici. Cane della Scala ed i Ghibellini
che gli erano in Lombardia rimasti fedeli, venivano tenuti a casa dalla
guerra che loro facevano le città guelfe; e l'aria pestilenziale di Roma
atterriva talmente la sua armata, che non aveva potuto impedirne la
divisione. Il duca di Baviera, il conte Luigi di Savoja, il conte
d'Ainault, il fratello del Delfino del Viennese e circa quattrocento
cavalieri, abbandonarono Enrico nel cuore dell'estate per tornare al
loro paese[279]. Quando trovavasi in tali angustie, la repubblica di
Pisa si affrettò di soccorrerlo. Aveva equipaggiate sei galere per
mandargli dei soldati, le quali essendo cadute alla Meloria in potere
della squadra di Roberto dopo una ostinata difesa, fece all'istante
partire per la via di terra seicento arcieri, e gli mandò un'altra somma
di danaro[280].
[279] _Albertus Mussatus l. VIII, R. 8._
[280] _Bernardo Marangoni Chron. di Pisa p. 616._
Enrico erasi ritirato a Tivoli, piccola città più proporzionata alle
debolezze della sua armata, ove stava aspettando in più sano clima il
fine dei calori estivi[281]. In sul declinare di agosto si pose in
marcia per Sutri, Viterbo e Todi, alla volta della Toscana, ansioso di
castigare i Fiorentini e tutti i popoli della lega guelfa che avevano
cercato con tanto accanimento di moltiplicare i suoi nemici in ogni
parte dell'Italia. Guastò il territorio di Perugia, ingrossò la sua
armata coi volontarj che si arrolarono sotto le sue insegne in Todi,
Spoleti, Narni, Cortona, e finalmente giunse presso ad Arezzo, dove fu
accolto con entusiasmo da' Ghibellini.
[281] _Ferret. Vicent. l. V, p. 1108._
Fu durante la guerra contro Enrico VII, che i Fiorentini per la prima
volta abbracciarono colle loro negoziazioni la politica dell'intera
Italia, e collocaronsi nel centro del partito guelfo, come se ne fossero
i capi. Non si erano essi accontentati della loro alleanza colle vicine
città di Bologna, Lucca e Siena; ma avevano inoltre cercata quella di
Guido della Torre, avanti la sua cacciata da Milano, e, lungi
dall'abbandonarlo dopo la sua caduta, lo avevano sovvenuto di danaro e
di soldati mercenarj per ajutarlo a ricuperare la perduta signoria. I
Fiorentini avevano pure avuta la principal parte nell'insurrezione di
Brescia; ed Enrico in tempo dell'assedio di questa città aveva sorpresa
la loro corrispondenza e trovato che i Fiorentini le avevano
somministrato il danaro per difendersi. Anche recentemente avevano i
Fiorentini consigliata alla ribellione ed alla guerra la città di
Padova, eccitando la sua gelosia contro Cane della Scala, il quale da
Enrico era stato investito della signoria di Verona e di Vicenza.
Avevano essi pagati dodici mila fiorini a Giberto da Correggio per
impegnarlo a far dichiarare la città di Parma contro l'imperatore; e per
ultimo avevano mandate truppe a Roma per opporsi all'incoronazione
d'Enrico. Nello stesso tempo essi stendevano le loro negoziazioni fino
alle corti di Avignone e di Francia; sembrava che avessero i primi
concepita l'idea delle relazioni che devono unire tutti i membri della
repubblica europea, e di quell'equilibrio dei poteri che deve assicurare
la libertà di tutti. È veramente un singolare fenomeno, che questi vasti
piani di politica abbiano avuta la prima loro origine in una repubblica
democratica, il di cui governo si rinnovava interamente ogni due mesi e
i di cui capi, quasi tutti mercanti, stranieri per la condizione loro ai
pubblici affari, non rimanevano abbastanza di tempo in carica per vedere
il fine di verun trattato da loro incominciato. Ma in una piccola
repubblica, la forza della vita, il pensiere, il sentimento, invece di
appartenere soltanto alla magistratura, trovansi nell'intera massa del
popolo. I signori priori di Firenze erano gli organi, non i creatori
della volontà nazionale; ed il vigoroso piano di politica, che univa al
nome della parte guelfa metà dell'Italia contro l'imperatore, era stato
concepito ed adottato dallo stesso consiglio del popolo: tanto
l'educazione data dalla libertà agli uomini cambia per la massa d'una
nazione le abitudini, i sentimenti e le facoltà.
Sgraziatamente tra le pubbliche virtù che i Fiorentini dovevano alla
forma del loro governo, non possono contarsi le virtù militari.
Impiegavansi generalmente in tutta l'Italia soldati mercenarj per fare
la guerra, chiamati Catalani, non già perchè questi mercenarj avessero
tutti militato nelle bande catalane che Federico di Sicilia aveva
licenziate; moltissimi avventurieri di Spagna, di Francia e di altri
paesi, erano venuti ad ingrossare questo corpo per esercitare il lucroso
mestiere del soldato: il brutale valore di questi mercenarj che
vendevano il loro sangue al migliore offerente e che non erano capaci
d'alcun nobile sentimento di patria o di libertà, aveva indebolita agli
occhi degl'Italiani la stima dovuta al vero coraggio. Perciò i
Fiorentini trovavano giusto che i cittadini, che i gentiluomini non si
battessero come questi esseri degeneri, che fino dalla loro fanciullezza
erano stati allevati come cani alani per il combattimento. Senza
giugnere all'estremo di perdonare la viltà, non attaccavano verun
sentimento di vergogna all'inferiorità di bravura e di forza; ne
convenivano essi medesimi, e non pensavano a misurarsi con una più
brillante nazione quando una grande superiorità di numero non
compensasse abbondantemente la riconosciuta inferiorità della virtù
militare.
La guerra de' Fiorentini contro Enrico VII fece ad un tempo conoscere la
coraggiosa loro fermezza, e la loro mancanza di valore. Quando seppero
che Enrico adunava tutte le sue forze per attaccarli, non cercarono di
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