Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 04 (of 16) - 13

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che prima veniva nominato dalle repubbliche. Questa sentenza ridonò a
Pistoja quasi tutta l'indipendenza e la libertà che aveva perduta dopo
la guerra de' Bianchi e de' Neri.
[245] _Gio. Villani l. VIII, c 111._
La morte di tre sovrani, Azzo VIII d'Este, Alberto d'Austria, re de'
Romani, e Carlo II, re di Napoli, furono di questi tempi cagione
all'Italia di nuove rivoluzioni. Azzo d'Este era capo della più antica
famiglia de' principi italiani, ed i suoi antenati erano stati fatti
signori di Ferrara prima che verun altra repubblica si fosse ancora
sottomessa al potere di un solo. Ma l'antichità di questa dinastia ad
altro non aveva servito che a renderla più corrotta delle moderne. Azzo
VIII d'Este è forse il più antico esempio di que' tiranni effeminati,
vili e crudeli che nel susseguente secolo furono più numerosi nelle
città lombarde. Abbiamo già veduto nel precedente capitolo che i popoli
di Modena e di Reggio eransi contro di lui ribellati; e poco mancò che
alla morte d'Azzo la sua dinastia non perdesse ancora Ferrara e le terre
che formavano l'antico suo retaggio. Azzo VIII aveva col suo testamento
dichiarato erede il figlio d'un suo figliuolo naturale a pregiudizio di
suo fratello e de' suoi nipoti. Quest'ingiustizia fu cagione di civil
guerra nella famiglia d'Este, e risvegliò l'ambizione de' vicini stati
che sperarono di potersi ingrandire a sue spese. I Veneziani entrarono
in Ferrara come ausiliari del bastardo d'Este, il papa dall'altro canto
mandò in ajuto del fratello d'Azzo un cardinale con un corpo di milizie,
il quale, abbandonando bruscamente il suo cliente, pretese di unire
Ferrara all'immediato dominio della Chiesa, perchè questa città negli
ultimi diplomi degli imperatori era stata dichiarata di pertinenza di
san Pietro. La successione del marchese non fu più oggetto di disputa
tra gli eredi legittimi e testamentarj, ma tra il papa ed i Veneziani.
Il cardinale Arnaldo di Pellagrue, nipote di Clemente V, e da lui
incaricato della guerra di Ferrara, adoperò contro la repubblica le armi
spirituali e le temporali: i Veneziani soggiacquero a grandi infortunj;
ed il marchese d'Este ed i Ferraresi furono egualmente traditi dalla
repubblica di Venezia e dal papa, e spogliati dai proprj alleati.
La morte d'Alberto d'Austria era un avvenimento di tanta importanza che
non poteva non essere cagione di grandi rivoluzioni. Del 1298 Alberto
era succeduto al suo emulo Adolfo di Nassau, da lui vinto in battaglia e
poi fatto morire. Dopo tale epoca Alberto erasi costantemente occupato
dell'ingrandimento della sua famiglia ed aveva cercato di renderne negli
antichi dominj più arbitraria l'autorità. La sua ambizione, che gli
aveva fatti ribelli gli abitanti di Vienna e della Stiria, lo trasse in
pericolose guerre colle città svizzere, Berna, Zurigo e Friburgo, che in
sull'esempio delle città d'Italia eransi sottratte all'impero in tempo
de' suoi lunghi interregni e governavansi a comune; finalmente gli
suggerì l'altrettanto vana che difficile impresa di ridurre in servitù
gli abitanti dei tre Waldstettes, Uri, Schwitz e Underwald, che non
volevano dipendere, e non dipendevano che dall'impero, e che, ridotti
alla disperazione nell'ultimo anno della vita d'Alberto, cacciarono dal
loro paese i suoi governatori ed i suoi satelliti, e giurarono sulla
_rutly_ la confederazione elvetica, il più fermo appoggio della loro
indipendenza[246].
[246] _Joh. Muller Schweitzerischer Eidgenossenschaft Geschichte l.
I, c. 18._
Per una conseguenza dello stesso piano d'usurpazioni, Alberto riteneva
l'eredità di suo nipote Giovanni d'Austria, unico figliuolo di suo
fratello Rodolfo, cui, appena giunto alla maggiorità, avrebbe dovuto
dare il possesso d'una parte dei beni della casa d'Absburgo; ed egli
erasi anzi rifiutato alle sue dimande con ingiuriosi motteggi. Il
giovane principe confidò la segreta sua indignazione ad alcuni
gentiluomini egualmente malcontenti d'Alberto, che lo incoraggiarono a
vendicarsi. Il 1 maggio 1308, passando Alberto da Stein a Baden, i
congiurati lo separarono da una parte del suo corteggio nell'uscire
dalle valli che guidano al guado di Windisch, sotto colore che non
conveniva caricare di soverchio il battello che doveva passarli
all'opposta riva; e quando arrivarono sotto il castello d'Absburgo, in
un podere che dalla più rimota antichità apparteneva alla famiglia
d'Alberto, e sotto gli occhi di tutto il suo seguito, che il solo fiume
Reuss teneva da lui separato, Giovanni d'Austria piantò la sua lancia
nella gola dello zio, gridando: _ricevi il prezzo della tua
ingiustizia_. Nel medesimo istante gli furono addosso tutti gli altri
congiurati[247].
[247] _J. Muller Schweitzerischer Eidgen. Geschichte l. II, c. 1, t.
II._
Peraltro il principe Giovanni non aveva prese le necessarie precauzioni
per raccogliere il frutto della sua congiura: spaventato dal sangue che
aveva versato, e tormentato dai rimorsi, fuggì tra le montagne, ove
visse alcun tempo solitario: di là venne in Italia, nascondendosi a
Pisa, nel qual luogo si crede che terminasse i suoi giorni in un
convento d'Agostiniani[248]. Nè soltanto i suoi complici, ma tutti i
loro parenti, amici e servitori, perseguitati crudelmente da Agnese,
vedova d'Alberto, perirono per mano del carnefice: e la morte del re fu
vendicata con quella di più di mille persone, quasi tutte innocenti.
[248] Schiller ha introdotto, nel suo Guglielmo Tell, Giovanni,
ch'egli chiama parricida, cercando asilo presso l'eroe. Io non posso
astenermi dal riferire il patetico squarcio con cui l'uccisore
dipinge la sua sventura.
«O se pianger sapete, il cuor vi tocchi
La storia de' miei mali, ahi troppo orrenda!
Principe io sono — il fui — potea felice
Vivere ec. . . . . . . .
Fuggo perciò le popolose strade,
E la mia mano di picchiar non osa
Ad una porta: timido m'innoltro
In solinga foresta, ove mi segue
L'orror del mio delitto: ogni ruscello,
L'agitar delle frondi, in cuor mi portano
Lo spavento: ah se voi pietà sentite
Dell'infelice umanità . . . . »
(_cade ai piedi di Tell_)
Filippo il bello, udita la morte d'Alberto d'Austria, chiese al papa che
in compimento della grazia innominata, riservatasi allorchè gli procurò
la tiara[249], l'ajutasse a far ottenere la corona imperiale a Carlo di
Valois suo fratello. Clemente non sapeva rifiutargli alcuna cosa e gli
promise il suo appoggio, ma in pari tempo scrisse agli elettori tedeschi
perchè affrettassero l'elezione se volevano sottrarsi all'influenza
della Francia, e per dir loro che il personaggio più degno de' loro
suffragi era il conte Enrico di Luxemburgo, principe poco ricco e poco
potente, benchè d'illustre famiglia, il quale godeva universale opinione
di avere animo nobile, generoso e leale. L'elezione, con estrema
sorpresa di tutta la cristianità, si pubblicò il giorno 25 o 27 di
novembre, ed avendola il papa approvata senza ritardo, Enrico VII di
questo nome tra i re di Germania, VI tra gl'imperatori, fu coronato il
giorno dell'Epifania del susseguente anno ad Aquisgrana[250].
[249] Di già in saldo di questa stessa grazia, aveva Filippo
domandato al papa di fissare la sua corte in Francia, di
perseguitare la memoria di Bonifacio VIII e di distruggere l'ordine
de' Templari.
[250] _Gio. Villani l. VIII, c. 101 e 102._
Sebbene Enrico non possedesse che la piccola contea di Luxemburgo e la
città di Treveri ch'egli aveva aggiunta ai suoi dominj in una fresca
guerra, e della quale era vescovo suo fratello, i suoi parentadi gli
assicuravano il favore di molti principi di second'ordine. Una sorella
di suo padre aveva sposato quel famoso Gui, conte di Fiandra, che aveva
tante volte battuti i Francesi; ed egli stesso aveva sposata una figlia
del duca del Brabante: Amedeo, conte di Savoja, aveva sposata l'altra,
ed il fratello del delfino del Viennese era genero del conte di Savoja.
(1309) La riputazione personale di cui godeva Enrico, chiamò intorno a
lui molti baroni tedeschi, fiamminghi e francesi, i quali fin dal primo
anno del suo regno lo resero abbastanza potente per assicurare alla sua
famiglia il regno di Boemia, facendo sposare a suo figliuolo Giovanni
una figlia di Venceslao il vecchio: il duca di Carizia, che aveva
sposata la sorella, fu con un decreto privato di ogni parte
dell'eredità[251]. Noi vedremo questo stesso Giovanni, re di Boemia,
avere alcun tempo dopo un influenza grandissima nelle cose d'Italia, e
la corona imperiale ritornare per mezzo di suo figliuolo nella casa di
Luxemburgo.
[251] _Ferreti Vincent. Hist. l. IV, p. 1056. — Notæ Osii ad
Albertum Mussatum t. X, p. 263._
Ma Enrico VI, che avrebbe eccitata ben tosto la gelosia di tutti i
principi dell'impero se avesse tentato di estendere maggiormente la sua
autorità in Germania, pensò che portandosi in Italia, oltre che avrebbe
acquistata nuova gloria e potenza, calmava l'inquietudine de' principi
tedeschi che non volevano avere alcuno superiore. L'Italia era omai
divenuta in qualche modo straniera all'Impero romano. Dopo la
deposizione di Federico II, ordinata dal concilio di Lione l'anno 1245,
la Chiesa e la sua fazione in Italia più non avevano riconosciuti
imperatori. Vero è che da oltre trentacinque anni regnavano in Germania
i re de' Romani destinati a ricevere la corona imperiale, i quali non
erano semplici candidati, ma capi riconosciuti dell'impero; pure questi
medesimi capi attaccavano la più alta importanza alla consacrazione del
papa, ed al ricevimento dalle sue mani della corona d'oro nella città di
Roma. Tra gl'Italiani e tra gli ecclesiastici d'ogni paese molti eranvi
i quali credevano che l'autorità del monarca sopra l'Italia derivasse da
questa cerimonia, o piuttosto dal trovarsi il monarca al di qua delle
Alpi. Questa supposizione veniva confermata dall'abbandono di Rodolfo
d'Absburgo e de' suoi successori, che quasi non avevano avuta veruna
relazione con l'Italia. Nello spazio di sessantaquattro anni tutti i
governi di questa contrada eransi emancipati dall'impero, come se
l'imperatore più non conservasse veruna autorità sopra di loro.
È veramente uno strano fenomeno, che l'Italia in quel lungo interregno,
lungi dal pronunciarsi contro l'autorità imperiale, di circoscriverla, o
di annullarla, l'abbia per lo contrario ingrandita ed innalzata
oltremodo, atterrando innanzi a lei que' limiti che gli si erano opposti
in altri secoli.
Gli Enrici, Lotario, Corrado e Federico Barbarossa erano i capi di una
libera corporazione; le loro prerogative venivano ristrette dai
privilegi dei grandi e del popolo; il potere legislativo era riservato
alla nazione adunata nelle sue diete; i doveri de' feudatarj, regolati
dal loro vassallaggio, riducevansi a certi servigi perfettamente noti ai
feudatarj ed al loro capo, ed avevano essi insegnato a questo capo a
conoscere ancora quali diritti eransi essi medesimi riservati. Dopo un
secolo e mezzo di guerre, quasi tutte svantaggiose all'impero, dopo
sessantaquattro anni d'interregno, questa costituzione fu sepolta
nell'obblio, e l'imperatore venne risguardato come un monarca assoluto.
Quando era riconosciuto dalla chiesa, consacrato e coronato dal sommo
pontefice, quand'egli soggiornava in Italia ed innalzava il suo
tribunale in una terra dell'impero, più non si supponeva che vi fosse
alcun potere sulla terra, tranne quello del papa, che potesse sollevarsi
contro di lui, verun diritto, verun privilegio, di cui non ne fosse egli
l'arbitro e che non potesse confermare o annullare. Tutte le libere
istituzioni dei popoli del settentrione si dimenticarono, e
l'_imperatore sempre augusto_ venne risguardato come il legittimo
rappresentante dei Cesari di Roma, antichi padroni del mondo, cui tutta
la terra era, o doveva essere sottomessa. Enrico di Luxemburgo era un
povero principe, il quale non aveva altra forza che quella del suo
nobile carattere, generoso, cavalleresco; quindi non fu già in
conseguenza d'una possanza reale, ma per la sola forza dell'opinione che
questo principe riuscì a mutare lo stato dell'Italia; che a sua voglia
abbassò o rialzò i tiranni ed i principi sovrani; che comandò alle
repubbliche e distrusse le loro leggi ed i loro governi; che impose
enormi contribuzioni, pagate senza resistenza; che finalmente unì sotto
le sue insegne popoli, ai quali era stato fin allora straniero e che non
pertanto credevansi tenuti di servirlo a proprie spese. Se tre o quattro
repubbliche soltanto gli resistettero, ciò avvenne pel segreto
sentimento d'aver mancato al loro dovere, poichè i loro storici e gli
scrittori guelfi più zelanti della libertà avevano adottata l'opinione
del loro secolo rispetto agl'illimitati diritti dell'imperatore.
Questo sentimento di diritto e di dovere diventa specialmente notabile
quando viene applicato ad un sovrano elettivo, nominato da un popolo
straniero, e che la nazione che credesi legata verso di lui è per altro
una nazione libera ed avvezza alle costumanze ed alle idee repubblicane.
Un'opinione pubblica tanto contraria alle naturali passioni degli uomini
fu l'opera degli eruditi, e specialmente de' giurisperiti. Lo studio
dell'antichità ch'erasi rinnovato col più vivo ardore nel tredicesimo
secolo, non aveva prodotti, come dovevasi supporre, sentimenti più
generosi, più elevazione d'animo, nè maggior amore per la libertà. La
Grecia era quasi affatto sconosciuta ai dotti, e rispetto a Roma si
conservavano più assai monumenti dell'impero, che della repubblica.
Tutti i poeti latini sonosi infamati colle vili adulazioni prodigate
agl'imperatori; gli storici, sebbene più fieri e più liberi, avevano per
altro reso qualche omaggio ai Cesari sotto de' quali viveano; i filosofi
si erano formati nelle scuole della disgrazia e della tirannide: dirò di
più, che gli scrittori del secolo d'Augusto, ancora pieni delle memorie
di una fresca libertà, non furono risguardati ne' tempi di cui trattiamo
come gli scrittori più illustri della latina letteratura. I dotti del
tredicesimo e del quattordicesimo secolo non si proponevano quasi meno
d'imitare Boezio, Simmaco, Cassiodoro, che Cicerone, o Tito Livio[252];
e quell'antichità che oggi ci rappresentiamo sempre libera, parve ai
nostri antenati sempre soggetta all'impero de' Cesari.
[252] Felice Osio, nel suo ridicolo commentario intorno alla storia
d'Albertino Mussato, pretende scuoprire in ogni linea del suo autore
qualche imitazione di Simmaco, di Macrobio, di Sidonio, di Lattanzio
ecc. I tre quarti di queste imitazioni sono facilmente sogni della
sua pedanteria; ed è in questo modo che vediamo sedici linee di
testo dargli materiali per ottantasei pagine di note in foglio _l.
I, R. II, p. 39-125_. Da tutti i rapporti che discopre, si può per
altro conchiudere che lo stile e le idee del Mussato derivano dallo
studio degli autori della bassa latinità. _Rer. It. Scrip. t. X, p.
1 e seg._
Ma i giureconsulti, ancora più degli eruditi, contribuirono a
sottomettere l'opinione del tredicesimo secolo alle leggi ed alle
costumanze della corte de' Cesari di Roma e di Costantinopoli. Giammai
la giurisprudenza non fu più universalmente studiata; perchè giammai nè
questo, nè altro studio aprì così larga e sicura strada agli onori ed
alle ricchezze. Studiando le leggi positive di Giustiniano, i legisti
andavano a poco a poco rinunciando alla propria ragione, e s'avvezzavano
a cercare non quello che ordinava la giustizia, ma quello che avevano
pronunciato gl'imperatori. Si può osservare nelle opere di Bartolo e di
Baldo, che fiorirono nel XIV secolo, l'immenso lavoro ad un tempo e
l'abietta servilità de' legisti. Affezionandosi al libro su cui avevano
sparsi tanti sudori, concepivano per le Pandette un rispetto, o
piuttosto una venerazione che s'avvicinava all'idolatria; onde vedevano
nelle leggi d'una monarchia straniera o distrutta l'unica norma del
diritto pubblico, siccome del diritto naturale e civile.
Lo stesso Enrico era intimamente persuaso del suo diritto divino sopra
tutte le terre dell'impero, ma era ancora penetrato del più profondo
rispetto per la Chiesa romana; ammetteva tutte le concessioni che i
Cesari suoi predecessori avevano fatte al papa; risoluto di voler essere
il suo campione, non il suo avversario; e credevasi sicuro del favore di
Clemente V, che l'aveva invitato a recarsi a Roma, e che aveva fatti
partire i suoi legati per accompagnarlo in questo viaggio e coronarlo a
nome della chiesa nel Vaticano. Ma Clemente V, debole, vano, bugiardo,
fu sempre in contraddizione con sè medesimo. Alleato de' principi
nemici, che spesso aveva egli armato gli uni contro gli altri, li
tradiva tutti egualmente, perchè tradiva sè stesso: e la sua politica
pareva agli altri inesplicabile, perchè egli medesimo non ne aveva la
chiave.
Mentre Clemente covava un segreto odio contro Filippo il bello che lo
teneva sotto il suo giogo, e che, per frenarne l'ambizione, gli creava
un rivale in Enrico di Luxemburgo; che, dopo di avere a questi procurati
i suffragi degli elettori in pregiudizio di Carlo di Valois, lo
sollecitava a portarsi in Italia per abbassare l'alterigia della casa di
Francia; lo stesso papa distribuiva i regni ai principi francesi, e gli
arricchiva coi tesori della chiesa. Il 5 maggio del 1309 era morto Carlo
II re di Napoli, la di cui successione fu cagione di grave contesa tra
Roberto suo secondo figliuolo, e Cariberto, o Carlo Uberto, re
d'Ungheria, figlio di Carlo Martello, fratel maggiore di Roberto, morto
prima del padre. Roberto, avanti che suo nipote sapesse della morte
dell'avo, si portò alla corte pontificia in Avignone, dalla quale,
sebbene non assistito che da titoli ereditarj contrari alle leggi
fondamentali dei regni d'Europa, ottenne una sentenza che gli dava il
possesso del regno di Napoli, confermando quello d'Ungheria al nipote.
Roberto ricevette la corona dalle mani di Clemente, che in pari tempo
gli condonò tutto il debito che suo padre aveva colla Chiesa, che si
diceva comunemente di trecento mila zecchini[253].
[253] _Gio. Villani l. VIII, c. 112._
Enrico di Luxemburgo si avanzò fino a Losanna nella state del 1310, per
prepararvisi a scendere in Italia; e colà ricevette gli ambasciatori di
quasi tutti gli stati italiani. I capi delle fazioni dominanti volevano
coll'ajuto dell'imperatore conservare il loro potere; e gli esiliati
riclamavano il suo favore per rientrare in patria. I Guelfi come i
Ghibellini credevano meritarsi la sua protezione, perchè Enrico era
alleato del papa, e tutti erano in fatti cortesemente ricevuti. Ma nè
Roberto re di Napoli, la di cui corona non proveniva dall'impero, nè le
principali repubbliche guelfe della Toscana, Firenze, Siena e Lucca, e
nemmeno Bologna, gli mandarono ambascerie. Pure anche le città toscane
avevano già nominati i loro deputati, ma avendo avuto avviso che Enrico
dava voce di voler pacificare l'Italia, facendo richiamare gli emigrati
in tutte le città, determinarono di non voler porsi con lui in una
relazione che le renderebbe ben tosto sue dipendenti. I Pisani per lo
contrario concepirono grandissime speranze quando videro l'imperatore
disposto ad entrare in Italia ed incaricarono i loro ambasciatori di
deporre a' suoi piedi il dono di sessanta mila fiorini, supplicandolo a
passare subito in Toscana[254].
[254] _Gio. Villani l. IX, c. 7._
In sul finire di settembre del 1310 Enrico di Luxemburgo attraversò le
Alpi della Savoja e scese in Piemonte per il Monte-Cenisio. Dopo avere
visitato Torino, entrò in Asti il 10 di ottobre, ove que' cittadini lo
accolsero come loro signore. Allora non aveva con lui più di due mila
cavalli, e questi ancora non arrivarono in un solo corpo, ma erano
venuti di Germania gli uni dietro gli altri per unirsi a lui. Appena
comparso, tutti i signori d'Italia si mossero per incontrarlo. Guido
della Torre che comandava a Milano col favore della parte guelfa, fece
dire all'imperatore di fidarsi di lui, promettendogli di condurlo per
tutta l'Italia, come per una provincia suddita, portando lo sparviero in
pugno, e senza che fosse bisogno di condurre soldati[255]. Filippone,
conte di Langusco, signore di Pavia, Simone di Colobiano, signore di
Vercelli, Guglielmo Brusato di Novara ed Antonio Fisiraga di Lodi,
vennero in persona alla corte con una deputazione scelta nelle città da
loro signoreggiate. Enrico, senza distinzione di parti, gli ammise tutti
al suo consiglio, a tutti promettendo grazie e favori personali, ma
dichiarando in pari tempo che illegittimo era il potere che si erano
usurpato nelle città; ch'egli voleva che queste rientrassero sotto
l'immediato suo dominio, e che fossero richiamati tutti i fuorusciti.
Siccome la sua domanda era conforme al voto di tutti i cittadini,
vedendo i signori di non gli potere opporre veruna resistenza,
mostrarono di rinunciare di buon grado la loro signoria nelle mani
dell'imperatore, e gli consegnarono le chiavi delle loro città. Ebbero
in compenso e feudi e titoli di nobiltà[256].
[255] _Nicolai Botruntin. Epis. Henrici VII. Iter Ital. t. IX, p.
888._
[256] _Albertini Mussati Hist. August. l. I, R. 10. t. X._
Il solo Guido della Torre pareva disposto a far resistenza, sebbene
avesse col suo messaggio riconosciuto l'imperatore. Aveva egli stretta
alleanza colle città toscane, guelfe come lui; ed ancora senza i loro
soccorsi ben poteva colle proprie forze opporre ad Enrico un'armata
eguale alla sua, e pagarla più lungo tempo che l'imperatore. Lo vedeva
privare tutti i signori del loro potere, ed egli aveva più che
tutt'altri ragione di temere un eguale trattamento, perchè Matteo
Visconti suo nemico, e nemico della sua casa, unitosi all'arcivescovo di
Milano, Casone della Torre suo nipote, col quale aveva avuto fresche
dissensioni, si era recato al campo imperiale sollecitando Enrico a
venire a Milano[257].
[257] _Henrici VII, Iter Italicum t. IX, p. 891._
Enrico soggiornò due mesi in Piemonte, ove riformò il governo di tutte
le città, creando ovunque vicarj imperiali per fare giustizia in suo
nome, in luogo dei podestà e dei magistrati municipali: in pari tempo
abbassò i tiranni, richiamando in tutte le città gli esiliati ed i
fuorusciti. Si pose poi in viaggio alla volta di Milano, facendosi
precedere dal suo maresciallo con ordine di fargli allestire la sua
stanza nello stesso palazzo del comune, abitato da Guido: in pari tempo
fece avvisar Guido di venirgli all'incontro senz'armi, fuori di città,
con tutto il popolo. Ovunque Enrico aveva fin allora cercato di
felicitare i popoli col ristabilire la pace, la giustizia, la libertà;
poichè la libertà veniva ben più rispettata da' vicari generali ch'egli
nominava, che non dai signori forzati ad abdicare la loro tirannide: e
però i cittadini di Milano lo vedevano avvicinarsi con piacere.
Conoscendo Guido queste disposizioni del popolo ed atterrito
dall'inaspettata marcia dell'imperatore e dall'ordine che gli aveva
mandato, prendendo consiglio dalle circostanze, licenziò le sue truppe,
e senz'armi uscì di città alla testa del popolo per ricevere e
riconoscere il suo sovrano[258].
[258] _Albert. Mussatus Hist. August, l. I, R. II. — Henrici VII,
Iter Italicum, t. IX, p. 895._
La sommissione di Milano trasse seco quella dell'intera Lombardia.
Invitate dall'imperatore eletto, tutte le città dalle Alpi fino a Modena
e fino a Padova spedirono i loro deputati per assistere
all'incoronazione, che si eseguì il giorno 6 gennajo del 1311 in Milano
colla corona di ferro. «Tutti i deputati giurarono fedeltà
all'imperatore» dice nella sua relazione il vescovo di Botronto che
accompagnava Enrico, «fuorchè i Genovesi ed i Veneziani, i quali, per
non giurare, allegarono molte ragioni che più non so risovvenirmi,
tranne ch'essi sono di una quint'essenza, che non vuole appartenere nè
alla chiesa, nè all'imperatore, nè al mare, nè alla terra, e perciò
negavano di giurare[259].»
[259] _Henrici VII, Iter Italicum, t. IX, p. 895._
Nel mese successivo alla sua incoronazione, Enrico rappacificò, senza
distinzione di parte, tutte le città a lui subordinate. Fece rientrare i
Ghibellini a Como, a Brescia i Guelfi, a Mantova i Ghibellini, a
Piacenza i Guelfi, e lo stesso fece in ogni città, nominando dovunque,
per rendere giustizia, vicarj generali colle attribuzioni degli antichi
podestà. I signori della Scala, che dominavano in Verona, furono i soli
che si opposero ai desiderj d'Enrico, non avendo voluto acconsentire che
tornassero in città i Guelfi condotti dal conte di san Bonifacio,
esiliati da oltre sessant'anni: nè l'imperatore insistette nella sua
inchiesta, sia che Verona gli paresse città troppo forte e lontana per
tentare di ridurla colle armi, o pure che lo stringessero troppo
importanti obbligazioni ai fratelli Cane ed Alboino della Scala, caldi
partigiani dell'impero, che prima d'ogni altro eransi dichiarati in suo
favore, onde porre in qualche pericolo la loro autorità.
Enrico era povero, e la sua armata era in certo modo composta solamente
d'avventurieri, di principi e di signori che avevano abbandonati i loro
piccoli stati, nella lusinga di fare una rapida fortuna seguendo
l'imperatore; e la necessità in cui trovavasi Enrico di appagare le loro
brame, fu cagione che dovesse ben tosto alienarsi que' popoli cui lo
avevano reso poc'anzi così caro i suoi talenti e le sue virtù.
Per supplire ai suoi primi bisogni aveva domandato alle città un dono
gratuito in occasione del suo coronamento. Fu adunato il senato di
Milano per deliberare della somma che, dietro lo stato della pubblica
fortuna, potrebbero pagargli il popolo ed il comune. Trovavansi in
senato i due capi delle opposte fazioni, Matteo Visconti e Guido della
Torre, che non solo ambivano la sovranità della loro patria, ma ne erano
già stati a vicenda padroni. Avevano l'uno e l'altro il progetto o di
procacciarsi l'esclusivo favore d'Enrico, o d'inasprire il popolo contro
di lui per cacciarlo poi di città. Amendue perciò proposero una maggior
somma di quella di cinquanta mila fiorini progettata da Guglielmo della
Pusterla. Il Visconti disse di aggiugnerne altri dieci mila per
l'imperatrice, ed il della Torre fece ammontare la somma totale a cento
mila. Invano i mercanti ed i legisti fecero supplicare il monarca dai
loro deputati a minorare una contribuzione che la città non poteva
portare, ma egli non volle condonare nulla di quanto il senato gli
accordava, e le tasse vennero all'istante accresciute con infinito
malcontento del popolo[260]. Perchè si cominciò a mormorar fortemente ed
a minacciare gli oltramontani, in modo che il vescovo di Botronto non
ardiva talvolta uscire dal convento in cui era alloggiato, per tema
d'essere insultato dal popolo. Enrico, che appunto in quest'epoca
pensava di lasciar Milano per recarsi a Roma, volle condurre con se
molti ostaggi, onde assicurarsi della fedeltà delle due fazioni. Sotto
colore di rendere più magnifico il suo seguito, domandò al comune
cinquanta cavalieri; ma egli destinò a questa spedizione Matteo
Visconti, Galeazzo suo primogenito e ventitre gentiluomini ghibellini;
Guido della Torre con Francesco, suo primogenito, e ventitre
gentiluomini guelfi. Questa scelta accrebbe il malcontento e parve che
ravvicinasse le due fazioni. Il popolo rassomigliava di nuovo gli
oltramontani a tutti i barbari antichi, nemici del nome romano, dava
loro lo stesso nome, e chiaramente diceva essere cosa indegna
l'assoggettar loro la patria. Alcuni facevano l'enumerazione delle forze
reali d'Enrico e mostravano ai malcontenti come alienandogli le forze
italiane, non Milano, ma la più piccola città lombarda potrebbe a lui
pareggiarsi.
[260] _Alber. Mussati Hist. Aug. l. II, R. I. — Henrici VII, Iter
Ital. t. IX, p. 895. — Trist. Calchi Hist. patriae l. XX._
I figli dei due capi di parte, Galeazzo Visconti e Francesco della Torre
ebbero un abboccamento fuori di porta Ticinese, dopo il quale molti
cavalieri girarono le contrade gridando «morte ai Tedeschi! Il signor
Visconti ha fatto pace col signor della Torre![261]» All'istante il
popolo prese le armi, e si riunì in diversi rioni, ma specialmente
presso di porta nuova intorno alle case dei Torriani. Enrico senza
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