Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 04 (of 16) - 08

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partecipare alla sovranità, che proporzionatamente all'interesse che
prendevano alla prosperità della loro patria, la loro domanda era giusta
e consentanea ai diritti d'un popolo libero. Ma l'irritamento di una
lunga lite, l'ambizione accresciuta dai prosperi avvenimenti e dai
disordini degli avversarj, spinsero questi nuovi capi di popolo al di là
d'ogni confine; talchè negli ultimi vent'anni del tredicesimo secolo,
non contenti di dividere le prerogative della nobiltà, s'arrogarono
esclusivamente il governo delle repubbliche, che incominciarono allora a
risguardarsi come potenze mercantili. Niuno poteva appartenere in
Firenze al consiglio dei priori, senza esercitare personalmente la
mercatura o un mestiere[131]. Lo statuto, che istituisce i nove signori
e difensori del comune di Siena, vuole che sieno mercanti e della classe
mezzana[132]; e gli anziani di Pistoja dovevano essere mercanti o
borghesi, esclusi a perpetuità gli antichi nobili e coloro che lo stato,
in pena de' loro delitti, descriverebbe nel registro de' nobili[133].
Ne' due ultimi capitoli, rendendo conto de' motivi che provocarono tali
leggi, abbiamo descritte le rivoluzioni che le precedettero. Nè le città
toscane furono le sole che di que' tempi escludessero la nobiltà da ogni
incumbenza governativa. I Modenesi avevano un registro intitolato _libro
dei nobili_, nel quale trovavansi iscritti tutti i gentiluomini con
alcuni borghesi associati coi nobili dai tribunali, siccome colpevoli
de' medesimi disordini, e quindi egualmente esclusi dalle pubbliche
cariche[134]; e la stessa legislazione si stabilì poco dopo in Bologna,
Padova, Brescia, Pisa, Genova ed in tutte le città libere.
[131] _Ordinat. Justitiæ, Rub. 32 e 90._
[132] _Malavolti Storia di Siena p. II, l. III, p. 50._
[133] _Jacopo Maria Fioravanti c. 16, p. 239._
[134] _Ant. Ital. Med. Ævi t. IV, Diss. LII, p. 673._
L'assoluta esclusione de' possidenti da ogni amministrazione fu cagione
di gravissimi disordini, non per altro di quelli preveduti dai moderni
economisti in simili casi. Il governo fu per molti rispetti
parzialissimo ed ingiusto, come lo sarà sempre in mano di una sola
classe qualunque; ma non sagrificò le campagne all'industria cittadina,
che anzi favoreggiò e protesse l'agricoltura. Ho parlato in altra mia
opera de' residui tuttavia esistenti della somma prosperità delle
campagne toscane sotto il governo delle antiche repubbliche, e
dell'estrema diversità che si ravvisa tra i feudi arricchiti dalla loro
unione a qualche repubblica, e quelli che rimasero miserabili sotto il
perpetuo dominio degli antichi loro signori[135]. Il governo de'
mercanti non si occupò esclusivamente del traffico; che anzi si condusse
con maggiore liberalità de' sovrani che loro succedettero. Siccome i
negozianti impiegavano la maggior parte delle loro sostanze ne' paesi
stranieri, ove non potendo sperare privilegi, limitavansi a domandare la
libertà, e perciò erano i primi a darne l'esempio nel proprio stato. Le
loro leggi non crearono il monopolio, ed è cosa maravigliosa come
essendo tutti mercanti ed i magistrati e gli storici così parcamente
abbiano parlato del commercio.
[135] _Quadro dell'Agricoltura toscana p. III, § 1, p. 226 ec._
Ma l'aristocrazia de' mercanti, un'aristocrazia plebea, si rese bentosto
esosa a tutte le altre classi della nazione. Ben possono risguardarsi
come ingiusti i privilegi dei natali; ma ancora più ingiusti sono i
privilegi contro la nascita. I nobili non sapevano soggiacere ad una
esclusione che loro doveva parer tirannica; ed i cittadini di un ordine
inferiore ai borghesi vedevano di mal occhio avviliti coloro ch'erano
abituati a risguardare come i più distinti dello stato. Siccome
frequentemente la ricchezza è il premio della viltà o del vizio, così
non suole, scompagnata dal merito personale o dalla nascita, ispirare
confidenza e rispetto. I ricchi borghesi tentarono di distinguersi col
nuovo titolo di _popolani grassi_, onde separarsi dagli inferiori
cittadini cui diedero il nome di _plebei_; ma questa loro opulenza non
gli ottenne quella considerazione cui aspiravano: e la nuova nobiltà fu
bentosto odiata dall'antica, derisa dal popolo, invidiata da tutti.
Attaccata caldamente dagli ordini superiori ed inferiori si difese con
modi affatto arbitrarj: «La stessa cagione, dice il segretario
fiorentino, che tenne disunita Roma, questa, se egli è lecito le piccole
cose alle grandi agguagliare, ha tenuto divisa Firenze; avvegnachè
nell'una e nell'altra città diversi effetti partorissero. Perchè le
inimicizie che furono nel principio in Roma fra il popolo e i nobili
disputando, quelle di Firenze combattendo si diffinivano. Quelle di Roma
con una legge; quelle di Firenze con l'esilio e con la morte di molti
cittadini si terminavano. Quelle di Roma sempre la virtù militare
accrebbero, quelle di Firenze al tutto la spensero. Quelle di Roma da
una egualità di cittadini in una disuguaglianza grandissima quella città
condussero; quelle di Firenze da una disuguaglianza a una mirabile
ugualità l'hanno ridotta. La quale diversità di effetti conviene sia dai
diversi fini che hanno avuti questi due popoli causata. Perchè il popolo
di Roma godere i supremi onori insieme coi nobili desiderava; quello di
Firenze per essere solo nel governo, senza che i nobili ne
partecipassero, combatteva. E perchè il desiderio del popolo romano era
più ragionevole, venivano ad essere le offese ai nobili più
sopportabili; talchè quella nobiltà facilmente e senza venire all'armi
cedeva; di modo che dopo alcuni dispareri a creare una legge, dove si
soddisfacesse al popolo ed ai nobili nelle loro dignità rimanessero,
convenivano. Dall'altro canto il desiderio del popolo fiorentino era
ingiurioso ed ingiusto; talchè la nobiltà con maggiori forze alle sue
difese si preparava; e perciò al sangue ed all'esilio si veniva de'
cittadini. E quelle leggi che di poi si crearono, non a comune utilità,
ma tutte in favore del vincitore si ordinavano[136].»
[136] _Stor. Fiorent. Proem. del l. III._
Nelle risse che prima ebbero luogo fra i cittadini ed i nobili, poi fra
i primi ed il popolo, la libertà civile fu spesse volte vilipesa, e
violati i diritti del contratto sociale; pure in mezzo a tanto
disordine, e quando era affatto spenta la libertà civile, non perì la
libertà democratica. Formata non di guarenzie, ma di poteri, non
assicura alle nazioni nè il riposo, nè l'ordine, nè l'economia, nè la
prudenza, ed è solo premio a sè medesima. Niente riesce più dolce ad un
cittadino che l'abbia una volta conosciuta, quanto il poter influire sui
destini della sua patria, avere parte alla sovranità, e più di tutto il
collocarsi immediatamente sotto la legge, e non riconoscere altre
autorità che quelle da lui create. Questa maniera di uscire, se posso
così esprimermi, da sè, per vivere in comune, per sentire in comune, per
far parte d'un tutto, solleva l'uomo e lo rende capace delle più grandi
cose. Le passioni politiche formano assai più eroi che le passioni
individuali; e sebbene non vi si scorga un immediato rapporto, è pure
dall'esperienza dimostrato che sono inoltre più feconde di artisti, di
poeti, di filosofi, di letterati d'ogni maniera. Ne fa luminosa
testimonianza il secolo da noi descritto. In mezzo alle convulsioni
delle sue guerre civili rinacquero in Firenze l'architettura, la
scultura, la pittura; vi fiorirono que' grandi poeti che tanta gloria
spargono ancora al presente su tutta l'Italia; la filosofia ebbe nuovi
ammiratori e seguaci; ed agli studj d'ogni sorte fu dato quel primo
impulso, che secondato dalle altre città libere d'Italia, produsse i
secoli delle belle arti e d'ogni gentil costume.
L'architettura fu di tutte le belle arti la prima a rinascere ne' secoli
di mezzo. Siccome questa non è un'arte imitatrice, e s'innalza al di
sopra degli oggetti creati per rappresentare le forme ideali della
bellezza simmetrica ed astratta come viene dall'uomo concepita, così è
quella tra tutte le arti che presenta più immediatamente il carattere
del secolo e fa meglio conoscere la grandezza e l'energia, o la
piccolezza della nazione in cui fiorì, dell'uomo che la perfezionò. È
questa l'arte che abbisogna meno che le altre delle scoperte delle
precedenti generazioni, che col genio e colla forza della volontà può
supplire alle minute teorie, alle pratiche, alle discipline che conviene
avere imparate prima di farsi creatori nelle altre arti. Le piramidi
d'Egitto anteriori al perfezionamento delle altre arti ed ancora delle
arti meccaniche, trasmisero in distanza di molte migliaja d'anni la
misura della forza e della magnificenza di un popolo che senza tali
monumenti si terrebbero per cose favolose. L'imponente cupola di Firenze
e cento altri stupendi edificj innalzati nel tredicesimo secolo delle
repubbliche italiane, conserveranno egualmente la memoria di questi
popoli liberi e generosi, ai quali la storia non rese finora la debita
giustizia.
L'architettura del tredicesimo secolo porta ancora sott'un altro aspetto
l'impronta de' costumi di quel tempo: ella è affatto repubblicana, e
vedesi interamente destinata ad una comune utilità, o ad un comune
godimento. Le mura delle città, i palazzi del comune, i templi aperti a
tutto il popolo, i canali che portano la fertilità in tutto il
territorio, sono opere di questo secolo. Il numero e la qualità degli
edificj cominciati nella stessa epoca in tutte le città d'Italia, mostra
quanto l'emulazione di tali governi riesca alle belle arti più
vantaggiosa, che non il lusso delle monarchie; quanto lo spirito di
comunità ove si fanno in su gli occhi del pubblico per fino le case
private, incoraggisca gli architetti assai più dello spirito delle
monarchie, nelle quali si fabbricano i pubblici edificj sotto gli occhi
del principe; per ultimo quanto gli artisti si appaghino più delle
ricompense e dell'ammirazione de' loro concittadini, che
dell'approvazione e della mercede di un padrone.
I pubblici canali e le mura delle città immediatamente ed unicamente
destinate all'utilità appartengono più alle scienze che alle belle arti.
Nulla di meno un genio creatore dovette costantemente presedere a queste
intraprese, che ci parranno ancora più grandi quando si confrontino
colle forze dello stato che le ordinava. Il canale, detto _Naviglio
grande_, che conduce le acque del Ticino a Milano per lo spazio di
trenta miglia, intrapreso l'anno 1179, e dopo alcuni anni l'interrotto
lavoro ricominciato del 1257 ed in breve tempo ridotto a termine, forma
ancora la ricchezza d'una vasta porzione della Lombardia[137]. Nello
stesso tempo la città di Milano rifabbricava le sue mura che giravano
ventimila braccia, e faceva innalzare sei porte di marmo, la di cui
magnificenza le rendeva degne della capitale di tutta l'Italia[138]. Dal
canto loro i Genovesi edificarono del 1276 e 1283 le due belle darsene e
la grande muraglia del molo, e nel 1295 terminarono il magnifico
condotto che da lontanissima sorgente conduce a traverso di aspre
montagne in città copiose purissime acque[139]. Tutte le città d'Italia
eseguirono in quell'epoca opere dello stesso genere. Le comunicazioni
tra paese e paese vennero agevolate col mezzo di solidissimi ponti di
pietra fabbricati sui fiumi e coll'aprire comode e sicure strade: e la
comodità de' cittadini e l'interna eleganza delle città si risguardarono
siccome oggetti degni delle cure di un libero governo[140].
[137] _Memoria della campagna di Milano del conte Giulini t. VII, l.
LIV._
[138] _Galv. Flamma Manip. Flor. c. 326, t. IX._
[139] _Georg. Stellæ An. Genuens. c. 4, t. XVII._
[140] _Tiraboschi Stor. della Lett. Ital. t. IV, l. III, c. 6._
L'architettura religiosa precedette le opere di cui abbiamo parlato. I
primi edificj degni della nostra ammirazione, innalzati dagli sforzi
uniti de' cittadini, furono destinati ad onorare l'Ente Supremo; e le
due città che prima delle altre acquistarono la libertà, Venezia e Pisa,
furono quelle che dedicarono i primi magnifici templi alla divinità. La
chiesa di san Marco in Venezia, imponente edificio che presenta una
strana mescolanza di grandiosità e di barbarie, fu terminata del 1071;
ed il duomo di Pisa, il primo modello del gusto toscano, di quel gusto
maschio, solido ed imponente che non è nè greco nè gotico, fu cominciato
del 1063 e condotto a termine in sul finire dello stesso secolo[141]. Il
battistero ossia chiesa di san Giovanni della stessa città ebbe
cominciamento del 1152, e la maravigliosa torre, tutt'all'intorno
arricchita da duecento sette colonne di marmo bianco, e che potrebbe
riguardarsi come il più elegante edificio de' secoli di mezzo,
quand'anche la sua inclinazione di sei braccia e mezzo fuori della
perpendicolare non richiamasse l'universale attenzione, fu fondata del
1174.
[141] Intorno agli edificj di Pisa, oltre le mie osservazioni, io
consultai soltanto il _Tiraboschi t. III, l. IV, c. 8, § 7_, il
quale cita le _Dissert. dell'origine dell'università di Pisa del
cav. Flamminio del Borgo_, che tanto illustrò quella repubblica, ad
Aless. da Morrona: _Pisa illustrata nell'arte del disegno_; opere da
me non vedute.
Questi capi d'opera dei Pisani, la bellezza dei marmi ch'essi portavano
dal Levante per abbellire i pubblici edificj della loro patria, i
monumenti dell'antichità che avevano opportunità di vedere ne' loro
viaggi, fecero rivivere in questa città il gusto del bello e del grande,
che poi si diffuse in tutta la Toscana[142]. I migliori architetti del
tredicesimo secolo o furono Pisani, o allevati in Pisa. Suole
risguardarsi come la prima maraviglia dell'arte di quest'epoca il tempio
di san Francesco in Assisi, il quale, per testimonianza di Giorgio
Vasari, fu innalzato da quel Niccola da Pisa che lavorò ancora nel duomo
di Siena, e fu Maestro d'Arnolfo e di Lapo[143]. Arnolfo più celebre che
il maestro, dal 1284 fino al 1300 in cui morì, diresse in Firenze le
fabbriche della loggia e della piazza dei priori, della chiesa di santa
Croce e di quella ancora più magnifica di santa Maria del Fiore.
Quest'ultima non fu veramente terminata da Arnolfo, ma fu suo il primo
pensiero della stupenda cupola, emula di quella di san Pietro in
Vaticano. Lasciò, morendo, incominciata l'opera, senza indicare il
metodo che voleva tenere per terminarla: ma il magnifico ardire di colui
che progettò una tal cupola, mentre tutti gli altri uomini credevano
impossibile il poterla chiudere, ed il sommo ingegno di quell'altro che
la innalzò senza ponti, resero gloriosa la memoria di Arnolfo e di
Brunelleschi[144].
[142] _Tiraboschi t. IV, l. III, c. 6, § 5._
[143] _Lettere Sanesi del Padre della Valle, t. I, p. 180_, citate
dal Tiraboschi.
[144] Il Vasari nelle sue _Vite dei pittori_ racconta con ingenuità
e sapore l'imbarazzo de' Fiorentini per condurre a fine la cupola di
Arnolfo, gli assurdi progetti di tanti architetti e l'arditezza di
ser Filippo Brunelleschi che sfidava tutti gli artisti del suo
tempo. Michelangelo che innalzò la più grande di san Pietro, rese la
più gloriosa testimonianza ai suoi predecessori, bramando che dal
suo sepolcro a santa Croce stando aperte le porte della chiesa si
vedesse la maravigliosa cupola d'Arnolfo e di Brunelleschi.
Nè meno sorprendenti furono i progressi fatti in questo secolo dalla
scultura in bronzo ed in marmo, rinnovata dai Pisani, perfezionata dai
Fiorentini. Fino nel 1180 Buonanno di Pisa fuse per il duomo della sua
patria quella magnifica porta di bronzo che poi perì nell'incendio del
1596. Ma per quanto fosse bello questo lavoro, non aggiugneva di gran
lunga alle porte del battistero di Firenze fatte da Andrea Pisano
figliuolo dell'architetto Nicola. Si fecero queste del 1300 per uno
degl'ingressi del battistero; vinte poi di lunga mano da quelle del
Giberti poste ad un altro, le quali Michelangelo giudicava degne del
paradiso; comechè non lasciano perciò di essere un maraviglioso
testimonio del valore di Andrea nell'arte di lavorare i metalli. Si
paragonino queste porte a quelle della basilica di san Paolo di Roma
_fuor di mura_, lavoro de' tempi del magno Teodosio, eseguito dai primi
scultori dell'impero, sotto gli occhi di sì grande monarca, quando gli
artefici, ovunque si volgessero, vedevano maravigliosi modelli di
antiche sculture. Le porte di san Paolo, non iscolpite in rilievo, ma
soltanto incise, hanno le linee formanti il contorno delle figure ornate
d'argento: malgrado però il sussidio della ricchezza questo lavoro prova
l'estremo decadimento dell'arte[145]: per l'opposto le porte del
battistero di Firenze sono di alto rilievo, e divise in iscompartimenti
che formano altrettanti quadri di squisita bellezza. Tali sono gli
effetti del despotismo e della libertà. Tra gli ornamenti del duomo di
Firenze osservansi pure alcune statue di marmo dello stesso scultore;
altre di Nicolò Pisano, suo padre, abbelliscono la faccia del duomo di
Orvieto: ed il padre Guglielmo della Valle assicura che Michelangelo e
Luca Signorelli hanno più volte studiati quei modelli[146].
[145] La Chiesa di san Paolo fu fondata dal grande Costantino,
aggrandita da Teodosio l'anno 386, e terminata da Onorio nel 395,
avendovi impiegati i materiali di altri edificj. Le più magnifiche
colonne de' templi greci vi si veggono confusamente impiegate a
sostenere il palco di una vasta capanna.
[146] _Tiraboschi t. IV, l. III. c. 6. § 6._
Il tredicesimo secolo produsse pure Cimabue e Giotto, che i Fiorentini
risguardano come i ristauratori della pittura, sebbene Pisa, Siena,
Bologna e Venezia, pretendano di avere avuti pittori più antichi e non
inferiori a questi di merito. È probabile che alcuni pittori portassero
in Italia nel dodicesimo secolo il barbaro stile della greca pittura
d'allora, i duri contorni, le loro figure in profilo, le goffe ed
assiderate loro attitudini. Tutti i quali difetti, a fronte della più
barbara maniera degli antichi pittori italiani, venivano imitati ed
ammirati come fossero maravigliose cose, se non altro a motivo della
vivacità del colorito, e del fondo di oro, che dava qualche rilievo alle
loro figure. Ci assicurano il Vasari ed il Baldinucci, che Cimabue,
trovandosi in Firenze del 1240, apprese l'arte da alcuni di questi
pittori greci; ma che ben tosto, spinto dal suo buon genio, abbandonò
quegl'informi esemplari per seguire i migliori che gli presentava la
natura. Fu egli il primo che seppe rappresentarla con alquanto di
verità; e tutti gli antichi scrittori lo rappresentano come un uomo
straordinario, che chiamò sopra di se l'universale ammirazione[147].
[147] _Dante Purg. c. XIX, v. 94. — Comm. Benven. Imol. ad locum.
Ant. Ital. t. I, p. 1185._
Tra il 1270 ed il 1276 nacque a Colle di Vespignano presso Firenze da un
povero contadino il suo maggior scolare, Giotto. Un giorno che guardando
la sua greggia, stava disegnando sulla terra, fu veduto da Cimabue, il
quale colpito dal suo ingegno lo condusse seco in città. «Sotto la
direzione di tanto maestro, dice il Baldinucci, si fece a studiare
caldamente e fece così rapidi progressi e così maravigliosi, che si può
dire aver egli risuscitata la pittura. Egli cominciò a dare qualche
vivacità alle teste ed a far loro esprimere qualche passione, l'amore,
la collera, il timore, la speranza. Seppe piegare più naturalmente le
vesti che prima non si faceva, e scoprì qualche regola degli scorti;
finalmente diede alle figure una certa tenerezza, al maestro affatto
sconosciuta[148].»
[148] _Baldinucci, Notizie dei professori del disegno t. I, presso
il Tiraboschi t. V, l. III, c. 5, § 7._
Ma al di sopra di Cimabue, di Giotto, e di quant'altri artisti furono
allora, deve collocarsi il poeta creatore che diede all'Italia la sua
lingua, la sua poesia, la sola energia di cui sappia abbellirsi anche al
presente; il poeta che riscaldò sempre ed inspirò tutti i sommi uomini
della sua nazione, che diede il proprio carattere a Michelangelo, e che
cinque secoli dopo la sua nascita formò Alfieri e Monti[149].
[149] Da uno straniero, comechè buon conoscitore della nostra poesia
e de' nostri migliori poeti, sarebbe ingiustizia il pretendere
esattissimo giudizio del carattere della nostra poesia e del merito
de' nostri poeti. Dante fu il più energico e robusto poeta d'Italia,
e ciò basta a giustificare il nostro storico. _N. d. T._
Dante nacque in Firenze del 1265 dalla famiglia guelfa degli
Alighieri[150]. Suo padre Aldighiero degli Elisei era stato bandito
cogli altri Guelfi dopo la battaglia di Monte Aperto, ma era tornato in
Firenze prima de' suoi compagni, quando la città era governata dal conte
Guido Novello. Morendo Aldighiero quando Dante era ancora giovanetto, fu
dato in cura a Brunetto Latini, riputatissimo filosofo, di cui abbiamo
parlato nel precedente capitolo, onde col di lui ajuto e del poeta Guido
Cavalcanti, suo amico, apprese tutte le scienze allora conosciute, e
l'antica letteratura tanto estesamente quanto lo permetteva la poca
copia che allora si aveva de' libri classici. Dante aveva in gioventù
visitati gli studj di Bologna e di Padova; e dopo esiliato si trattenne
alcun tempo nell'università di Parigi per imparare la teologia[151].
Egli aggiungeva a quello delle lettere il gusto delle belle arti, onde
fu amico di Oderigo da Gubbio e di Giotto pittori, come pure del musico
Casella[152]. Nè l'amore dello studio lo deviò dalla carriera politica e
militare, che a niun cittadino di uno stato libero è permesso di
abbandonare. Fu nel 1289 alla battaglia di Campaldino, nella quale i
Fiorentini ottennero così segnalata ma sanguinosa vittoria sugli
Aretini; e nel susseguente anno militò pure contro i Pisani allora
capitanati dal valoroso conte di Montefeltro[153].
[150] Parmi che i biografi di Dante non abbiano fatto attenzione che
Guido Novello non abbandonò Firenze prima dell'undici novembre 1266,
e che prima di tale epoca, e specialmente avanti la vittoria di
Carlo sopra Manfredi, i Guelfi non erano rientrati. Converrebbe che
il padre di Dante fosse stato richiamato dai Ghibellini.
[151] _Benven. Imol. Com. in Dantis Comoed. Proemium Ant. Ital. t.
I, p. 1056._
[152] _Purg. c. XI, v. 79. — Ib. v. 88._
[153] _Memor. per la vita di Dante di Giuseppe Benvenuti, premesse
al t. IV delle opere di Dante edite dallo Zatta, § 8 Ap. Tiraboschi
t. V, l. III._
Coloro che due secoli dopo commentarono il suo poema, volendo in ogni
cosa mostrarlo grandissimo, dissero ch'era a lui affidata in gran parte
la fortuna della repubblica fiorentina. In una vita inedita di Dante,
pretende Maria Filelfo che fosse incaricato di quattordici ambascerie, e
che, tranne l'ultima, conseguisse sempre l'intento: tutti poi
attribuiscono in gran parte ai suoi consigli la parte presa dai priori,
di esiliare i capi delle due fazioni che dividevano Firenze. Ma di ciò
niuna testimonianza troviamo presso gli autori contemporanei. Dino
Compagni ch'era uno de' priori quando si fece la rivoluzione, e che
circostanziatamente descrive le più minute cose, le pratiche, i
discorsi, la leggerezza di tutti i Fiorentini allora più influenti, non
ricorda altrimenti Dante come uno de' capi dello stato. Nè pure di lui
parla Giovanni Villani, che viveva nella stessa epoca, ed era piuttosto
parziale della parte dei Neri, siccome Dino lo era dei Bianchi. Lo
stesso dicasi di Coppo de' Stefani[154] e di Paolino di Piero, altri
scrittori contemporanei che scrissero cronache dei loro tempi[155], onde
io inclino a credere che il solo fatto ben avverato della parte presa
dal nostro poeta ai pubblici affari, è di essere stato priore dal 15
giugno al 15 agosto del 1299, come vogliono alcuni, e secondo altri del
1300[156]; che fu uno degli ambasciatori mandati a Roma dalla parte
Bianca in gennajo del 1302; e per ultimo, che fu compreso in una
sentenza d'esilio emanata nella stessa epoca contro seicento cittadini
della sua medesima fazione. Viene in tale sentenza accusato d'avere
venduta la giustizia, e ricevuto del danaro contro le disposizioni delle
leggi; ma lo stesso rimprovero veniva fatto con eguale ingiustizia a
tutti i capi del partito vinto. Canto dei Gabrielli era un giudice
rivoluzionario che desiderava trovare dei colpevoli, e che si
accontentava de' più leggeri indizj per condannarli. Questa sentenza è
un curioso documento del costume di que' tempi di mescolare l'italiano
al latino; ed è così barbaramente dettata, che pare appositamente fatta
per offendere il fondatore dell'italiana letteratura[157].
[154] _Delizie degli Eruditi toscani t. X, Rub. 234._
[155] _Supplem. in Etruriæ Script. t. II, p. 51. ec._
[156] Questi priori erano Noffo di Guido, Neri di Mes. Jacopo del
Giudice, Neri d'Arrighetto Doni, Bindo di Donato Bilenchi, Ricco
Falconetti, Dante Alighieri, Fazio da Miccio Gonfaloniere, e ser
Aldobrandino d'Uguccione, loro notajo. _Delizie degli Eruditi
toscani t. X._ da Campi.
[157] Ecco la sentenza quale viene riferita nel libro delle
_Riformagioni_ negli archivi di Firenze. — _Condemnationes facte,
per Nobilem et Potentem militem, Dom. Cantem de Gabriellis Potestate
Florentie MCCCII._ Dopo alcuni altri: _XXVII Januarii. Dom.
Palmerium de Altovitis de Sextu Burghi, Dantem Allagherii de Sextu
Sancti Petri Majoris, Lippum Becchi de Sextu Ultrarni, Orlandinum
Orlandi de Sextu Porte Domus_.
«Accusati dalla fama pubblica, e procede ex officio, ut supra de
primis, e non viene a particolari, se non che nel Priorato
contradissono la venuta Domini Caroli, e mette che fecerunt
baratterias, et acceperunt quod non licebat, vel aliter quam licebat
per leges, et caet: in libras octo millia per uno, et si non
solverint fra certo tempo, devastentur et mittantur in commune, et
si solverint, mihilominus pro bono pacis stent in exilio extra fines
Tusciae duobus annis. _Delizie degli Eruditi Toscani t. X, monumenti
n.º 4. p. 94._ — Il Tiraboschi riferisce una sentenza aggravante,
pronunziata dallo stesso Canto il 10 marzo dello stesso anno,
condannando Dante ed i suoi compagni, venendo presi, alla morte.
Invano cercò Dante di rientrare in patria. Gli si fece un imperdonabile
delitto d'avere nel 1304 tentato cogli altri fuorusciti di parte Bianca
di sorprendere Firenze; di essersi collegato strettamente colla fazione
ghibellina, e d'avere fatto istanza all'imperatore Enrico VII di
Luxemburgo di prendere in Italia la difesa del suo partito. Per ultimo,
siccome il suo carattere estremamente irritabile, e la sua inclinazione
alla satira lo avevano reso non meno odioso che formidabile ai suoi
nemici, del 1315 fu riconfermata la condanna di perpetuo bando: onde
dopo avere viaggiato assai in tutte le parti d'Italia, si stabilì
finalmente alla corte di Guido da Pollenta, Signore di Ravenna, ove morì
nel settembre del 1321, in età di cinquantasei anni. Nel suo immortale
poema si fa profetizzare da Cacciaguida suo trisavolo, la miseria e la
dipendenza degli estremi suoi giorni, tanto umiliante per un'anima
intollerante e fiera com'era quella di Dante.
«Tu lascerai ogni cosa diletta
Più caramente, e questo è quello strale
Che l'arco dell'esilio pria saetta.»
«Tu proverai siccome sa di sale
Lo pane altrui, e come è duro calle
Lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.»
Si fa ancora predire dallo stesso Cacciaguida le nimicizie che si
procaccerà coll'amarezza de' suoi rimproveri; ma queste considerazioni
cedono a quelle della gloria.
«E s'io al vero son timido amico,
Temo di perder vita tra coloro
Che questo tempo chiameranno antico[158].»
[158] _Paradiso Canto XVII._
Il poema di Dante che gli acquistò sì gran nome, è il racconto, come
ognun sa, d'un misterioso viaggio a traverso all'inferno, al purgatorio,
al paradiso; fissa l'epoca di tale viaggio dal lunedì santo del 1300
fino al giorno di Pasqua, quando il poeta aveva trentacinque anni;
scorre i due primi regni dei morti sotto la direzione di Virgilio, e
quello del paradiso in compagnia di Beatrice dei Portinari, che, da lui
amata in gioventù, era morta del 1290. Questo poema diviso in cento
canti, ciascuno di circa cento cinquanta versi, non è meno sorprendente
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