Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 04 (of 16) - 01

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STORIA DELLE
REPUBBLICHE ITALIANE
DEI
SECOLI DI MEZZO

DI
J. C. L. SIMONDO SISMONDI
DELLE ACCADEMIE ITALIANA, DI WILNA, DI CAGLIARI,
DEI GEORGOFILI, DI GINEVRA EC.
_Traduzione dal francese._

_TOMO IV._

ITALIA
1817.


STORIA DELLE REPUBBLICHE ITALIANE


CAPITOLO XXIII.
_Guerra di Sicilia. — Grandezza e decadenza della repubblica di
Pisa. — Crudel morte del conte Ugolino. — Nuove turbolenze a
Firenze._

La strage di Sicilia che non aveva tolti al re Carlo che quattro mila
soldati francesi, era più che una disfatta, un affronto ch'egli doveva
vendicare; nè tale perdita era di tanta importanza ch'egli non potesse
ben tosto ripararvi. Se è vero che avesse adunati dieci mila cavalli ed
un proporzionato numero di pedoni per fare l'impresa del Levante; se ne'
suoi vasti progetti calcolava la conquista di tutto l'impero greco, pare
che con queste forze già riunite egli avrebbe in pochi giorni potuto
sottomettere una provincia ribelle, non ancora preparata ad una vigorosa
resistenza, sprovvista di arsenali, di armata, di tesoro, non sostenuta
da uno stabile governo, non difesa da esperti generali; ove tutto quanto
gli si poteva opporre era l'odio profondo contro di lui concepito ed il
timore delle sue vendette. Ma le passioni che agitano un'intera nazione,
che le danno un solo sentimento, una sola vita, un solo interesse in
faccia al quale tutto cede; le passioni che non lasciano calcolare nè
sforzi, nè pericoli, nè sagrificj, danno ad un popolo assai maggiori
mezzi di resistenza, di quelli che potrebbe somministrargli la
previdenza d'un governo regolare, e l'azione uniforme e sempre
subordinata al calcolo della militare disciplina. La Sicilia fu
invincibile: ella resistette agli sforzi combinati del re Carlo, del
papa, del re di Francia, di tutti i Guelfi d'Italia e dello stesso re
d'Arragona, che per rappacificarsi colla Chiesa prese parte in una
vergognosa lega co' suoi nemici. La casa d'Angiò consumossi con inutili
sforzi per ricuperare un regno avuto già in suo dominio; e, mentre
combatteva, l'Italia, di cui aveva minacciata la libertà, ricuperò la
propria indipendenza: anch'essa forse ne abusò, perciocchè, mancati i
grandi interessi che la tenevano unita, e non vedendosi minacciata da
vicino pericolo, si abbandonò alle parziali guerre tra città e città ed
alla violenza delle fazioni.
Ad ogni modo se la Sicilia non era dal mare separata dagli altri stati
del re Carlo, non avrebbe probabilmente potuto lungamente resistere.
Un'armata vendicatrice sarebbesi presentata in faccia a Messina ed a
Palermo pochi giorni dopo la strage dei Francesi; avrebbe trovato il
popolo spossato dai suoi proprj furori e di già in preda al pentimento,
che in lui non si manifesta giammai con maggiore unanimità, che
nell'istante in cui si riposa dopo i suoi primi eccessi.
Del 1282 prima che fosse organizzata la difesa della Sicilia, prima che
Carlo avesse potuto far passare le sue truppe al di là del Faro, e prima
che Pietro d'Arragona si presentasse colla sua armata, gli abitanti di
Palermo avevano spediti alcuni religiosi al papa, acciò che interponesse
i suoi buoni ufficj per ottener loro da Carlo il perdono. Questi
inviati, introdotti in concistoro, gittaronsi in ginocchio, ripetendo
tre volte queste sole parole delle litanie consacrate dalla Chiesa:
_Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi di noi pietà_.
Martino IV, forse più sdegnato di Carlo, alzossi, ripetendo altresì tre
volte queste parole della passione: _Salve, re de' Giudei, dicevano
essi, e gli davano uno schiaffo_: indi scacciò da sè i religiosi, senza
permetter loro di soggiugnere una sola parola[1]. D'altra parte gli
abitanti di Messina cercarono di placare la collera di Carlo, ma questi
gli fece sapere che non si piegherebbe ad accordar loro verun patto; che
le loro vite e quelle de' loro figliuoli erano consacrate come quelle di
traditori alla chiesa ed alla corona; e che omai non dovevano pensare
che a difendersi, se il potevano.
[1] _Giacchetto Malespini Stor. Fiorent. c. 210, t. VIII, p. 1030. —
Gio. Villani l. VIII, c. 62, p. 279._
Intanto passò alcun tempo avanti che la flotta e l'armata del re,
adunate in Brindisi per la spedizione della Grecia, potessero porsi in
mare. Lo stesso Carlo andò a Brindisi, ove dovevano pure recarsi le
truppe ausiliarie che gli mandavano le città guelfe della Toscana e
della Lombardia. Fece in appresso marciare la sua armata fino
all'estremità della Calabria, ed egli stesso s'imbarcò per raggiungerla
a Reggio. Soltanto il 6 di luglio del 1282 arrivò in faccia a Messina
con cento trenta galee o grosse navi, e trasportò le sue truppe dall'una
all'altra riva dello stretto. Egli aveva con lui cinque mila uomini
d'armi ed un ragguardevole corpo d'infanteria[2]. I Siciliani non
avevano armata da opporre al re, ma non erano affatto sprovveduti di
navi. Erano cadute in loro potere quelle che Carlo avea fatto allestire
per l'impresa di Grecia a Palermo, a Siracusa ed in altri porti
dell'isola, come pure i materiali che trovavansi ne' cantieri di
Messina, che furono adoperati in difesa della città, dove le mura erano
guaste, facendo palizzate e baluardi, resi forti solamente dal coraggio
de' difensori.
[2] Negli storici del XIII secolo non troviamo il numero de' pedoni;
essi li risguardavano come truppa di sì poco conto, che non montasse
il noverarla esattamente.
Mentre gli abitanti di Messina respingevano valorosamente i giornalieri
assalti di Carlo, Giovanni di Procida, accompagnato dai sindaci e
procuratori di tutte le città siciliane, fece un secondo viaggio alla
corte del re Pietro d'Arragona per affrettarne i soccorsi. Lo trovò ad
Ancolle, porto dell'Affrica, ove, malgrado il cattivo esito della sua
spedizione contro i Mori, si rimaneva, preferendo di lasciare i
Siciliani esposti molti mesi a tutte le vendette di Carlo, più tosto che
esporsi al risentimento di quel temuto monarca avanti di vedere qual
piega prenderebbero gli affari della Sicilia. Ma comprendendo dal
racconto di Giovanni che i Siciliani eransi omai tanto inoltrati nella
ribellione, che per alcun modo non potevano più dare a dietro,
imbarcossi colla sua armata alla volta della Sicilia, e giunse avanti a
Trapani il 30 agosto del 1282[3].
[3] _Barthol. de Neocastro Historia Sicula c. 45, p. 1050. — Gio.
Villani l. VII, c. 68, p. 283._
Tutti i baroni dell'isola eransi adunati a Palermo per ricevervi il
nuovo re; che si affrettarono di far incoronare dal vescovo di Ceffalù,
e gli prestarono il giuramento di fedeltà. Non lasciavano per altro
d'essere assai inquieti osservando le deboli forze di Pietro in
confronto di quelle di Carlo; e prevedevano che, presa Messina dai
Francesi, in breve tempo tutta l'isola sarebbe soggiogata; ed avevano
avviso che quella città incominciava ad avere tanta scarsità di viveri,
che non potrebbe oramai tenere più di otto giorni. Fortunatamente il re
arragonese aveva condotta seco la sua flotta composta soltanto di galee
armate in guerra e disposte a combattere, e questa era comandata da
Ruggero di Loria, gentiluomo calabrese, che aveva abbandonata la patria
quando venne in potere de' Francesi, ed era il più esperto e più
fortunato ammiraglio che allora si conoscesse. Carlo all'opposto, non
s'aspettando d'aver nemici sul mare, non aveva seco menato che navi da
trasporto e galere disarmate; almeno con tale pretesto gli storici
guelfi cercano di scusare la debolezza della sua marina veramente strana
ed incauta. Ruggero di Loria, riunite sessanta galee sottili della
Catalogna e della Sicilia, andò ad occupare lo stretto per impedire che
fosse vittovagliata l'armata francese. Nello stesso tempo il re Pietro
fece lentamente avanzare le sue truppe alla volta di Messina[4], e mandò
tre cavalieri catalani a Carlo colla seguente lettera di sfida:
[4] _Nicolai Specialis Hist. Sicula l. I, c. 17, p. 936._
«Pietro re d'Arragona e di Sicilia a te, Carlo, re di Gerusalemme e
conte di Provenza.
«Noi ti participiamo il nostro arrivo nell'isola di Sicilia, regno che
ci fu aggiudicato dall'autorità di santa Chiesa, da messere il papa e
dai venerabili cardinali; e ti comandiamo che, veduta questa lettera, tu
debba partire dall'isola di Sicilia con tutta la tua forza e la tua
truppa; e sappi che se tu non lo farai, vedrai immantinenti con tuo
danno i nostri cavalieri ed i nostri fedeli attaccare la tua persona ed
i tuoi soldati.»
Carlo il più orgoglioso monarca di cristianità, e fino a quest'epoca
fors'anco il più potente, fremè di sdegno quando lesse una così superba
lettera d'un piccolo principe ch'egli non credeva potergli stare a
fronte; e gli mandò la seguente riposta:
«Carlo, per la grazia di Dio, re di Gerusalemme e di Sicilia, principe
di Capoa, conte d'Angiò, di Forcalquier e di Provenza, a te Pietro, re
d'Aragona, conte di Valenza.
«Noi siamo estremamente maravigliati come tu abbi avuto l'audacia di
venire nel regno di Sicilia a noi conceduto dall'autorità della santa
romana Chiesa; perciò ti comandiamo che, a vista della nostra lettera,
tu debba partire dal nostro regno di Sicilia come malvagio traditore di
Dio e della santa Chiesa. E se tu non lo fai, noi ti sfidiamo come
nostro nemico e traditore verso di noi. All'istante ci vedrai venire a
tuo danno; giacchè noi e la nostra armata desideriamo molto di vederti
colle tue genti che tu hai condotte»[5].
[5] Queste lettere sonosi prese dalla storia del _Malespini c. 212,
p. 1033_, e da _Gio. Villani l. VII, c. 70 e 72, p. 285_.
Ma Carlo non potè sostenere coi fatti l'orgoglio della sua lettera: il
suo ammiraglio Enrico de' Mari venne ad avvertirlo che aveva avviso
dell'imminente arrivo di Ruggero di Loria, e ch'egli non poteva
sostenerne l'incontro, perchè le sue grosse navi mal potevano manovrare
nello stretto, ed altronde erano affatto disarmate: gli osservava che
erano nella burrascosa stagione dell'equinozio; che la Calabria non
offriva alcun sicuro porto per ripararvisi; e che, se la flotta era
incendiata dal nemico, la sua armata avrebbe dovuto morire di fame.
Convien che le circostanze fossero urgenti, poichè un monarca così
fiero, così irritato, un monarca così coraggioso fu forzato di cedere;
pure la cosa non è affatto chiara. In tre giorni l'armata francese
ripassò lo stretto, ed il quarto, 28 di settembre, Ruggero di Loria
comparve innanzi al porto di Messina, e s'impadronì di ventinove galere
francesi che non fecero veruna resistenza. Si avanzò poi verso la Catona
e Reggio di Calabria dove avevano dato fondo tutte le galere e le navi
da trasporto del re, in numero di ottanta, e vi fece appiccare il fuoco
sotto gli occhi di Carlo che non poteva difenderle: il quale vedendo
l'incendio della sua flotta rodeva per rabbia lo scettro che teneva in
mano, e gridava: «Ah Dio! Dio! voi m'avete elevato assai! vi prego che
mi facciate scendere dolcemente»[6].
[6] _Gio. Villani l. VII. c. 73 e 74, p. 286._
Pareva a Carlo che la sua flotta e la sua armata ch'egli era accostumato
a far agire con somma facilità, si rifiutassero tutti ad un tratto di
seguire gl'impulsi della mano che li dirigeva. Trovavasi vinto senza
ancora sapere quale forza impiegasse contro di lui il suo nemico, e
senza aver potuto combattere; onde era impaziente di far prova del
proprio valore, d'incaricarsi egli medesimo della sua vendetta, invece
di confidarla al braccio de' suoi soldati, o di farla dipendere
dall'incostanza degli elementi. Dopo avere abbandonata la Sicilia
scrisse al re Pietro, invitandolo a decidere con un privato
combattimento sottomesso al giudizio di Dio, i loro diritti e la loro
lite. Propose che cento cavalieri combattessero contro cento cavalieri a
Bordeaux, sotto la guarenzia del re d'Inghilterra, cui apparteneva
questa città: i due re dovevano trovarsi alla testa dei loro campioni e
promettere che la sorte della Sicilia dipenderebbe dall'esito della
pugna. Pietro d'Arragona che aveva bisogno di acquistar tempo per
assodare la sua autorità in Sicilia, e terminare i preparativi di
difesa, accettò con piacere la proposta di Carlo, tanto più che avendo
egli minor numero di sudditi, poche truppe e meno tesori, era ben
fortunato di poter combattere con pari forze con un così potente nemico.
I due re promisero di trovarsi a Bordeaux il 15 maggio del 1283,
dichiarando in caso che mancassero all'appuntamento, non solo di
rinunciare ad ogni diritto sul regno di Sicilia, ma inoltre ad essere
spogliati dei loro stati ereditari, e vituperati da ogni assemblea di
nobili e cavalieri, come traditori ed uomini senza onore[7].
[7] _Barth. De Neocastro Hist. Sicula t. XIII, c. 54, p. 1067._
Gli apparecchi per questa pugna giudiziaria allontanarono alcun tempo i
re rivali dai regni della Sicilia e della Puglia, locchè diede
un'apparenza di pace a queste province, mentre molte altre contrade
d'Italia erano, a quest'epoca, travagliate dalla guerra. In quest'anno
scoppiò la lite tra le due potenti repubbliche di Genova e di Pisa, lite
che doveva essere cagione ad ambedue d'immensa perdita di ricchezze e di
soldati.
L'anno 1276 la repubblica di Pisa era stata costretta dai Fiorentini a
richiamare tutti gli esiliati, ma in tale circostanza la sua sommissione
alla volontà de' suoi nemici le era riuscita vantaggiosa. I nobili
richiamati nel suo seno avevan vissuto in pace, e tale era in questo
secolo la semplicità de' costumi privati e l'economia de' più ricchi
cittadini, che ad una città bastava il riposo di pochi anni per vedere
duplicate le proprie entrate, e trovarsi per così dire imbarazzata dalle
sue ricchezze. Era ignoto ai Pisani il lusso della mensa, degli addobbi
e della numerosa servitù, benchè il loro fertile territorio producesse
ogni anno ubertose ricolte e fossero ad un tempo proprietari e sovrani
di quasi tutta la Sardegna, della Corsica e dell'isola dell'Elba.
Avevano inoltre stabilite colonie a san Giovanni d'Acri ed a
Costantinopoli, e le loro fattorie in queste due città facevano un
estesissimo commercio coi Saraceni e coi Greci. Nè ci voleva meno di
così grosse entrate, come erano le loro, per supplire alle immense spese
delle guerre marittime, e per far fronte alle ruine che accompagnavano
sempre la disfatta di ogni fazione, quand'erano confiscati i beni dei
vinti, e le loro case abbandonate al saccheggio. Nulladimeno perchè in
tempo di guerra non si erano consumate le entrate a venire, la pace
accumulava nuove fortune, e riparava in pochi anni le perdite delle
passate guerre. Pisa a quest'epoca contava tra i suoi cittadini vari
signori che pei loro titoli, le ricchezze ed il numero de' vassalli
avrebbero potuto pareggiarsi ai sovrani d'Italia. Il giudice di Gallura,
il giudice d'Arborea, il conte Ugolino, il conte Fazio, il conte Nieri,
ed il conte Anselmo, avevano cadauno una piccola corte ed una piccola
armata[8]. I Pisani andavano orgogliosi della magnificenza di tanti
signori, che si gloriavano d'essere loro concittadini. Essi soffrivano
di mala voglia la rivalità de' Genovesi che, avendo anch'essi
stabilimenti nel Levante, s'arricchivano egualmente collo stesso
commercio e loro disputavano la sovranità delle isole del
Mediterraneo[9]. Sebbene l'un popolo e l'altro fossero in quest'epoca
governati dalla fazione ghibellina, mal sapevano contenere il concepito
vicendevole odio. Sembra che le prime ostilità fossero provocate dai
Pisani.
[8] _Gio. Villani l. VIII, c. 83. p. 293._ — I quattro ultimi
appartenevano alla famiglia Gherardesca.
[9] _Caffari Annal. Genuen, l. X, t. VI. p. 570._
I ladronecci del giudice, ossia signore di Ginerca in Corsica furono
cagione della rottura. I Genovesi, come protettori della città di
Bonifazio, vollero reprimerli, e nel mese di maggio del 1282 spedirono
in Corsica quattro galere con duecento cavalli e cinquecento soldati. Il
giudice battuto da questa piccola armata venne a Pisa ad implorare i
soccorsi della repubblica, di cui si riconobbe vassallo. I Pisani lo
presero in fatti sotto il loro patrocinio, ed intimarono ai Genovesi di
non recargli ulteriore molestia, facendo in pari tempo passare in
Corsica alcune truppe per ajutarlo a difendersi.
A questo s'aggiunsero altri atti d'ostilità, che fieramente inasprirono
il vicendevole odio dei due popoli. Una galera genovese che tornava
dalla guerra di Sicilia fu, senza averli provocati, presa dai Pisani; i
Genovesi che abitavano in san Giovanni d'Acri furono attaccati dai
borghesi di quella città ad istigazione dei Pisani, cacciati dal loro
quartiere, saccheggiati i magazzini ed incendiate le case[10].
[10] _Gio. Villani l. VII, c. 83. p. 293. — Caffari Ann. Genuen. l.
X, p. 577. — Uberti Folieta Genuens. Hist. l. V, p. 282._
Dopo avere per mezzo de' loro ambasciatori domandata invano
soddisfazione di così gravi ingiurie, i Genovesi risolsero di ottenerla
colle armi. Per altro i due popoli s'andarono lungo tempo provocando, ed
in seguito evitandosi, senza venire seriamente alle mani. Ciò facevano,
senza dubbio, gli uni e gli altri per addestrare le loro ciurme alle
manovre militari, ed aver tempo di adunare i loro marinai sparsi su
tutti i mari a servigio del commercio, prima di esporre l'onore delle
loro armi, e forse la sorte delle repubbliche in una battaglia generale.
Alla fine d'agosto, Nicola Spinola si presentò avanti alle foci
dell'Arno con ventisei galere, e si ritirò quando i Pisani uscirono con
trenta per dargli la caccia. Otto giorni dopo, l'ammiraglio pisano,
Guinicello Sismondi, spiegò anch'egli le vele per cercare i Genovesi a
casa loro. S'avanzò fino a Porto Venere senza incontrare la flotta
genovese, e, dopo aver saccheggiato quel porto e la vicina campagna, fu
assalito il 9 settembre, mentre si ritirava, da una burrasca che fece
incagliare la metà delle sue navi tra Viareggio ed il Serchio[11].
[11] _Guido de Corvaria Fragment. Hist. Pisanæ t. XXIV, p. 690. —
Ubert. Folieta Hist. Genuens. l. V, p. 383. ap. Graevium t. I._
I Genovesi non potevano darsi vanto del disastro di Guinicello; quindi
fecero quanto potevano per porsi in istato di sostenere con maggior
gloria la guerra. Nominarono una _Credenza_, ossia consiglio di
confidenza, composto di quindici membri, ai quali diedero un assoluto
potere su tutti gli affari marittimi. Ordinarono che niun bastimento
mercantile uscisse del porto, onde la repubblica potesse valersi nella
guerra della ciurma delle navi mercantili, e perchè non fosse
compromesso l'onore della nazione con troppo deboli squadre,
dichiararono che non sarebbe considerato siccome ammiraglio chi
comandasse meno di dieci navi, nè gli sarebbe permesso d'inalberare lo
stendardo di san Giorgio. In seguito la Credenza fece porre sui cantieri
cento venti nuove galere, cioè cinquanta nel cantiere di città, e le
altre ne' porti delle due Riviere.
L'orgoglio di questi due popoli e il desiderio di superarsi l'un l'altro
colla forza aperta e non colle astuzie ch'essi sprezzavano, mantenne fra
loro fin verso alla metà di questa guerra una singolare costumanza. Ogni
repubblica mandava presso l'altra un notajo con quattro esploratori,
dando loro apertamente commissione di rendere conto alla loro patria dei
progetti e degli apparecchi dei loro nemici. I Pisani, ufficialmente
avvisati dai loro esploratori del numero delle galere che facevansi a
Genova, disposero di farne anch'essi altrettante; e nello stesso tempo
nominarono loro ammiraglio Rosso Buzzacherini della famiglia Sismondi
come il suo predecessore[12].
[12] _Ubert. Folieta l. V, p. 384. — Ann. Genuens. l. X, p. 580. —
Guido de Corvaria Frag. Pisanae Hist. p. 690. — Marangoni Hist.
Pisana, p. 558._
Non pertanto l'anno 1283 si passò come il precedente in una specie di
torneo marittimo nel quale non si fece cosa di molta importanza da una
parte e dall'altra, limitandosi a far pompa delle straordinarie loro
forze. I Pisani furono veduti una volta avanzarsi con sessantaquattro
galere fin presso al porto di Genova, mentre sortivano settanta vascelli
genovesi per incontrarli, i quali dopo essere rimasti alcun tempo in
faccia gli uni agli altri, temendo ambedue d'esporsi contro forze
eguali, si ritirarono senza venire alle mani[13]. A stento si può
concepire come due sole città potessero armare due flotte press'a poco
eguali a quelle con cui adesso si batterebbero le due più potenti
nazioni d'Europa.
[13] _Marang. ib. p. 561, 562. — Ubert. Folieta l. V, p. 385, 386. —
Caffari Ann. Genuens. l. X, p. 581-585._
L'anno 1284 i Pisani ed i Genovesi trovaronsi abbastanza esercitati e
padroni di tutte le loro forze onde desiderare egualmente di metter fine
alla guerra con più sanguinose e decisive battaglie. I Pisani nominarono
loro ammiraglio Guido Jacia, e gli commisero di scortare con
ventiquattro vascelli il conte Fazio che mandavano in Sardegna con
truppe e danaro per assoldarne delle altre. Il vascello che aveva a
bordo il conte Fazio essendosi separato dagli altri, fu incontrato nel
mar sardo da una flotta genovese di ventidue galere capitanata da Enrico
de Mari. Il vascello fu preso quasi senza battersi, e bruciato dai
Genovesi quando videro la flotta pisana far forza di vele per
raggiugnerli. La battaglia s'appiccò in seguito tra le due flotte il
primo di maggio, e si sostenne tra forze quasi uguali lungo tempo con
notabile perdita da ambo le parti. Finalmente essendo stato calato a
fondo un vascello pisano, ed altri tre danneggiati in modo, che dopo
essere usciti dalla pugna perirono in aperto mare, la vittoria si
dichiarò pei Genovesi, che presero e condussero a Genova otto galere e
mille cinquecento prigionieri; non essendo rientrati nel porto di Pisa
che dodici galere con molta difficoltà[14].
[14] _Guido de Corvaria Fragm. Hist. Pisanae l. XXIV, p. 691. —
Marangoni Cronaca di Pisa p. 563. — Gio. Villani l. VII, c. 90. p.
298. — Ubertus Folieta Genuens. Hist. l. V, p. 387. — Caffari Ann.
Genuens. l. X, p. 586._
Ma lungi dallo scoraggiarsi per tale disfatta, i Pisani raddoppiarono i
loro apparecchi per farne vendetta. Nominarono loro podestà Alberto
Morosini di Venezia, che godeva nella sua patria riputazione di
eccellente capitano di mare; gli aggiunsero come capitani della loro
flotta il conte Ugolino della Gherardesca ed Andreotto Saracini. Il
tesoro erasi quasi esaurito ne' precedenti armamenti; ma tutti i
gentiluomini pisani s'incoraggiarono a fare colle private loro fortune
un generoso sforzo per ricuperare l'onore della patria. I Lanfranchi,
ch'erano in allora la più numerosa famiglia di Pisa, armarono undici
galere, i Gualandi, i Lei ed i Gaetani ne armarono sei, tre i Sismondi,
quattro gli Orlandi, gli Upezzinghi cinque, i Visconti tre, i Moschi
due, ed altre famiglie si unirono per armarne una. Questo generoso
patriottismo creò una flotta di cento tre galere, che spiegò le vele nel
mese di luglio, e venne a schierarsi in faccia al porto di Genova. Là i
Pisani provocarono i Genovesi ad uscire per combatterli, e lanciarono
contro il porto molte freccie d'argento. Era questa una braveria in uso
tra que' due popoli, che, per quanto sembra, solevano in tal modo fare
pomposa mostra della loro ricchezza e prodigalità. I Genovesi sfidati
risposero che i loro vascelli non erano ancora apparecchiati, ma che
raddoppiarebbero d'attività per rendere ben tosto ai Pisani la loro
visita.
Di fatti non erano da molti giorni rientrati nell'Arno i Pisani, che i
Genovesi avendo armate cento sette galere, si presentarono ne' mari di
Pisa, e mandarono a sfidare i loro nemici. I Pisani rimontarono su le
loro galere con una sollecitudine, con un tale giubilo, che ben
sembrarono felice presagio di vittoria. La maggior parte delle navi
trovavansi ancorate tra i due ponti della città. Venne l'arcivescovo sul
ponte vecchio con tutto il clero, e spiegando al vento lo stendardo del
comune, benedì la flotta. Si moltiplicarono le grida di gioja, si levò
l'ancora, ed i vascelli scesero fino alla foce dell'Arno.
All'indomani 6 agosto 1284 le flotte si scontrarono presso all'isola
della Meloria, e la battaglia incominciò poco dopo il mezzogiorno. I
Genovesi che avevano ricevuto un nuovo rinforzo, nascosero Benedetto
Zaccaria, che l'aveva condotto, con trenta galere dietro la piccola
isola della Meloria; per la quale manovra sembrando le due flotte
d'uguale forza, i Pisani non si rifiutarono di porre in arbitrio d'una
battaglia la salvezza della loro repubblica, ed il dominio del mare
inferiore.
Le due flotte s'avanzarono divise in più corpi. Tra i Pisani il podestà
Morosini comandava la prima squadra, Andreotto Saracino la seconda, ed
il conte Ugolino la terza: le tre squadre della flotta genovese erano
comandate dall'ammiraglio Oberto Doria, Corrado Spinola e Benedetto
Zaccaria. Terribile fu l'urto delle due prime che vennero alle mani
nello stesso istante, e la battaglia si continuò lungo tempo, senza che
si scorgesse una parte più avvantaggiata dell'altra; ma la vista di quel
fatto, dice uno storico genovese, ispirava ad un tempo orrore e
compassione[15]. Infinito era il numero di coloro che perivano in cento
diverse maniere; gli uni cadevano mutilati sul ponte, altri erano
precipitati semivivi nell'onde; allora nuotavano intorno alle navi, ed
imploravano l'ajuto e la pietà de' loro compatriotti e de' loro nemici;
prendevano tutto quanto veniva loro alle mani, s'aggrappavano ai remi,
e, perciò che in tal guisa sospendevano la manovra, per continuare la
battaglia venivano respinti cogli stessi remi, e ricacciati nell'acque.
Intorno ai vascelli il mare era vermiglio pel sangue che usciva dai
bocca-porti; ogni onda era coperta di cadaveri, di scudi, di lance, di
freccie, di caschetti. Frattanto i capitani gridavano per incoraggiare i
loro soldati, non cessando di ripeter loro che questa volta trattavasi
della salvezza della patria; che spesso avevano combattuto coi medesimi
nemici cogli eterni nemici della loro città; ma che prima d'ora i due
popoli non eransi ancora trovati tutt'intieri in faccia l'uno
dell'altro, che non avevano giammai, per ottenere la vittoria in una
sola battaglia, sagrificate tutte le risorse delle battaglie future: ed
i soldati, rispondendo con furibonde grida a tali conforti,
raddoppiavano i loro sforzi.
[15] _Ubertus Folieta Genuens. Hist. l. V, p. 393._
Le galere battevansi all'arrembaggio, e quella montata dal Morosini era
alle mani col vascello ammiraglio d'Oberto Doria. In quest'istante i
trenta vascelli di Benedetto Zaccaria uscirono dall'opposta riva della
Meloria e s'unirono alle altre navi genovesi. La galera di Zaccaria si
pose dall'altro lato del vascello ammiraglio pisano, il quale, attaccato
da due bande, fu finalmente preso dopo una lunghissima resistenza,
mentre un altro vascello che portava lo stendardo del comune di Pisa,
attaccato da due galere, cadeva pure in potere dei nemici. Questa doppia
perdita sparse il terrore nella flotta pisana, ed il conte Ugolino, come
assicurano gli scrittori pisani, colse quell'istante per dare il segno
della fuga, non per viltà, ma per indebolire la sua patria, onde più
facilmente ridurla in servitù.
La disfatta, dopo così accanita battaglia, fu compiuta; i Genovesi
presero ventotto galere, e sette ne colarono a fondo, valutandosi la
perdita dei Pisani a cinque mila morti, ed undici mila prigionieri.
Siccome questi ultimi furono condotti a Genova e vi rimasero lungo tempo
in prigione, dicevasi comunemente in Toscana che oramai per veder Pisa
bisognava andare a Genova[16].
[16] _Ubertus Folieta Genuens. Hist. l. V, p. 390-395. — Ann.
Genuens. Caffar. l. X, p. 587, 588. — Marangoni Cronaca di Pisa p.
564-569. — Guido di Corvaria Fragm. Pis. Hist. t. XXIV, p. 692. —
Ann. Pisan. t. XXIV, p. 648. — Cronaca di Pisa Monum. Pisan. t. XV,
p. 979. — Gio. Villani l. VII, c. 91. p. 299. — Chron. Fr. Franc.
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