Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 04 (of 16) - 06

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tra i quali egli era il più distinto pel lustro della sua famiglia. In
età di soli vent'anni fissò la sua dimora in Ancona, di dove, avendo in
sul finire dell'anno perduti i suoi genitori, passò in Inghilterra, ove
s'addestrò nelle armi[96]. Intanto Carlo di Valois, cedendo alle istanze
del papa, erasi mosso con circa cinquecento cavalli per servire la
Chiesa ed ajutare il re di Napoli. Attraversò senza difficoltà la
Lombardia, e dopo essersi alcun tempo riposato in Bologna, entrò in
Toscana per le Alpi di Pistoja, ossia strada di Sambuca.
[95] _Gio. Villani l. VIII, c. 45, p. 374._
[96] _Vita Castruccii Auctore Nicolao Tegrimo t. XI, p. 1316._ — La
vita scritta da Machiavelli è più che altro un romanzo cui non può
darsi fede.
La parte dei Bianchi aveva fatte sue le passioni dei Ghibellini che le
si erano uniti; ma sebbene più non fosse una parte moderata, pure
bramava ancora di essere creduta tale, e però non ardiva confessare
gl'interni sentimenti, credendosi obbligata a conservare certi riguardi
che minoravano la sua forza, senza illudere i suoi nemici. Se i Bianchi
si fossero apertamente dichiarati Ghibellini, avrebbero potuto
fortificare i passaggi della Sambuca, e fermare o ruinar Carlo che non
aveva che un pugno di gente; avrebbero stretta alleanza coi Ghibellini
di Pisa, di Arezzo e delle città di Romagna, e postisi in tale
situazione da non poter essere facilmente oppressi. Ma i Bianchi
volevano ancora coprirsi del nome del partito guelfo; mostrarsi ancora
ligi alla chiesa ed alla casa di Francia, e non osavano prendere alcuna
vigorosa risoluzione; onde senza porsi in istato di resistere ai loro
nemici, non ottennero nè meno di placarli.
I Bianchi di Pistoja, avvisati dell'avvicinarsi di Carlo di Valois,
introdussero molti pedoni e cavalli in città; provvidero di petriere le
porte e le mura, e prepararonsi come coloro che dovessero essere
assediati: in pari tempo invitarono Carlo ad entrare in Pistoja, e
mandarongli incontro per onorarlo giostratori e paggi a cavallo. Egli
scese lungo l'Ombrone, come se avesse intenzione di approfittare di tali
amichevoli disposizioni, ma giunto a Ponte Lungo, due miglia sopra
Pistoja, si volse bruscamente a destra e andò ad accamparsi a Borgo a
Buggiano posto sulla strada di Lucca[97].
[97] _Istorie Pistolesi anonime, p. 377._
Gli esiliati Neri di Pistoja, ed i capi dello stesso partito a Lucca,
adunaronsi prestamente intorno a lui, e lo trassero agevolmente al loro
partito. Carlo prese in seguito la strada di Fucecchio, san Miniato e
Siena, per recarsi a Roma ed in seguito ad Anagni, onde ricevere gli
ordini del papa, avanti d'entrare in alcuna delle città divise dalla
nuova lite dei Bianchi e dei Neri. Carlo II, re di Napoli, venne a
trovarlo in Anagni a fine di concertare la spedizione di Sicilia, che fu
fissata nella vegnente primavera. Intanto il papa mandò Valois a Firenze
per pacificarla, o piuttosto per farvi trionfare il partito dei Neri e
della Chiesa.
Carlo tornò dunque a Siena ed in seguito a Staggia nell'autunno dello
stesso anno, avanzandosi contro Firenze. Erasi in questa città fatta la
nomina de' nuovi priori che dovevano entrare in carica il 15 ottobre, e
la scelta era più tosto caduta sopra persone inclinate alla pace, e che
non davano sospetto ad alcun partito, che sopra coloro la di cui abilità
avrebbe potuto salvare la repubblica in così difficili circostanze. Dino
Compagni, lo storico di quest'epoca, era uno de' priori, e le sue
scritture ci provano che egli era uno di quegli «uomini uniti,
senz'arroganza, disposti a mettere le cariche in comune», tra i quali
egli colloca sè medesimo[98].
[98] _Dino Compagni Cronaca l. II, p. 488._ Può vedersi intorno a
questo particolare l'opera postuma del Pignotti _Storia della
Toscana_. _N. D. T._
Mentre che i Neri con private contribuzioni avevano messi assieme
settanta mila fiorini per pagare il soldo delle truppe di Valois,
d'altro non si occupavano i Bianchi che dei trattati di pace tra le
famiglie nemiche. I capitani di parte guelfa fecero per ordine de'
priori proposte di accomodamento tra i Cerchi e gli Spini. Questi,
mostrando di dare orecchio alle proposizioni, non lasciavano di
affrettare la venuta di Carlo, mentre i Cerchi, capi dei Bianchi, si
addormentavano su queste speranze di pace, e non facevano verun
apparecchio di difesa.
Carlo mandò da Staggia i suoi ambasciatori a Firenze per domandare
d'essere ricevuto come un amico che veniva a riconciliare la parte
guelfa alla Chiesa. Questi ambasciatori chiesero d'essere introdotti nel
gran consiglio, ciò che loro non potevasi negare. Quand'essi ebbero
parlato, i priori imposero silenzio a tutti i consiglieri, che avrebbero
voluto rispondere in presenza loro, al quale oggetto più d'uno erasi già
alzato; onde agli ambasciatori di Carlo fu agevole il giudicare dalla
premura che ponevano nel voler manifestare la propria opinione in loro
presenza, che il partito de' Neri e del principe aveva riacquistata
forza ed energia. La signoria, dopo la segreta deliberazione dei
consigli e quella delle arti e mestieri, mandò da parte sua ambasciatori
a Staggia, promettendo a Carlo d'accoglierlo onorevolmente, a condizione
che non mutasse le leggi e le costumanze della repubblica e non
pretendesse diritti o giurisdizione di veruna sorte, sia a titolo di
vicario dell'impero, sia per tutt'altra ragione. Se Carlo non accordava
questa promessa, gli ambasciatori avevano ordine di chiudergli il
passaggio di Poggibonzi che era fortificato, e di rifiutargli le
vittovaglie. Carlo accordò senza difficoltà tutto quanto gli fu chiesto,
e confermò la sua promessa a viva voce dopo il suo arrivo[99].
[99] Ugo Capeto, parlando a Dante di Carlo di Valois, che chiamavasi
pure Carlo senza terra, annuncia in tal modo i suoi tradimenti.
_Purg. C. XX, v. 70._
«Tempo vegg'io non molto dopo ancoi,
Che trasse un altro Carlo fuor di Francia
Per far conoscer meglio e sè e i suoi.
Senz'arme n'esce, e solo con la lancia
Con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
Sì ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia.
Quindi non terra, ma peccato ed onta
Guadagnerà, per sè tanto più grave,
Quanto più lieve simil danno conta.»
Magnifico fu l'ingresso del principe francese in Firenze. Carlo aveva
portata la sua truppa ad ottocento cavalli; gli abitanti di Perugia
l'avevano accompagnato con duecento uomini d'armi sotto colore di
testificargli il loro rispetto, ed i Lucchesi erano venuti ad
incontrarlo. Cante d'Agobbio, Malatestino, Maghinardo di Susinana, ed
altri gentiluomini di Romagna, che incominciavano a far il mestiere di
condottieri, arrivavano un dopo l'altro con otto o dieci cavalli per
unirsi alla corte, e la signoria non osava negare l'ingresso a verun di
loro.
Allora fu che gli uomini più vili ed abbietti credettero di poter fare
pompa di coraggio. «Per il bene della patria, dicevano costoro, non
temeremo di tirarci addosso la nimicizia della signoria e di mostrare
gli errori ch'ella ha commessi.» In fatti, la signoria non era più a
temersi, nè più poteva castigarli. «Noi oseremo, aggiungevano, prendere
la difesa dei Neri oppressi, e disvelare l'ingiustizia, di cui la
signoria si è fatta colpevole verso di loro, escludendoli dagli ufficj.»
I Neri, che essi affettavano di prendere sotto la loro protezione,
avevano in città mille duecento uomini d'armi ai loro ordini. Altri non
si vergognavano di vantare la tranquillità di cui godevano dopo avere
perduta la libertà. Baldino Falconieri occupava la tribuna la maggior
parte del giorno; e l'argomento de' suoi discorsi era sempre il
confronto delle passate turbolenze coi presenti tranquillissimi tempi,
ne' quali i cittadini potevano abbandonarsi a sicuro sonno[100].
[100] _Dino Compagni l. II, p. 492._
Mentre uomini senz'onore vantavano questa pretesa tranquillità, i due
partiti si preparavano a nuove zuffe. Ma Vieri de' Cerchi, il capo de'
Bianchi, non aveva nè i talenti nè l'energia necessaria per ridurre a
salvezza il suo partito. I priori, che non volevano perdere il merito
dell'apparente loro imparzialità, non prendevano che deboli partiti; e
niuno osava porsi in aperta difesa per timore di essere da tutti
abbandonato. I Bianchi, che veramente erano d'origine guelfa, cercavano
di rappattumarsi coi loro avversarj ripetendo che tutti appartenevano
alla stessa fazione; onde i Ghibellini associatisi prima con loro,
temevano di vedersi traditi e andavano lentamente ritirandosi per timore
che la pace tra i Guelfi non si effettuasse a loro spese. I campagnuoli
che avevano ricevuto ordine di armarsi, nascondevano i confaloni e si
disperdevano; il podestà coi suoi arcieri aveva fatta una parziale pace
coi Neri; e quantunque lo stendardo dello stato fosse esposto alle
finestre del palazzo della signoria, i cittadini non prendevano le armi
per andarvi in difesa dei loro priori[101]. Frattanto Carlo di Valois
aveva domandate le chiavi di porta romana, presso la quale egli abitava;
e benchè quando fu ricevuto giurasse di far osservare dai suoi soldati
le leggi e le sentenze della repubblica, questa medesima notte fece
entrare, per la porta che gli fu data, Corso Donati e tutti gli
esiliati.
[101] _Dino Compagni l. II, p. 495, 496._
I priori lagnaronsi con Carlo della violazione dei trattati, ed egli
giurò di non avervi avuta parte e di voler castigarne gli autori,
chiedendo, per poterlo fare, che i capi delle due parti gli fossero
consegnati, ond'essere in istato di metter fine a tanti disordini, e
ristabilire una volta l'autorità della repubblica. I priori, che
andavano sempre più accorgendosi della loro impotenza, aderirono a tale
inchiesta; i capi de' Bianchi e de' Neri andarono volontariamente a
darsi in mano di Carlo, i primi con paura, gli altri con piena
sicurezza; ed infatti il principe rilasciò subito i Neri, e fece
sostenere i Bianchi e custodire in dure prigioni. Allora i priori, ma
troppo tardi, fecero dare campana e martello in palazzo, chè il popolo
atterrito non osò uscir di casa, e dopo quest'istante i Neri, per lo
spazio di sei giorni, abusarono del loro trionfo, senza che fosse
stabilito in città alcun magistrato per reprimere l'eccesso del
disordine[102]. Le case dei Bianchi furono abbandonate al saccheggio ed
in appresso incendiate; molti de' più ragguardevoli uomini di questo
partito furono morti o feriti dai loro _parziali_ nemici; molte
fanciulle _ereditiere_ vennero tolte di mano alle loro famiglie e
maritate per forza ed in mezzo al disordine; e Carlo di Valois fingeva
di non saper nulla, e di credere che l'incendio di tanti palazzi di
città e di campagna fossero fuochi di gioja o accidentali incendj di
qualche povera capanna[103].
[102] Dal giorno 5 all'11 di novembre 1301.
[103] _Dino Compagni Cronaca l. II, p. 497-500. — Gio. Villani l.
VIII, c. 48. p. 375-378. — Jannotii Manetti Hist. Pistor. l. II, p.
1022, 1023. — Istorie Pistolesi anonime p. 578._
Dopo che la città fu abbandonata al saccheggio per sei giorni, i nuovi
priori, tutti della parte nera, entrarono in funzione l'undici novembre
1301, ed un nuovo podestà, Cante de' Gabrielli d'Agobbio, fu incaricato
dell'amministrazione della giustizia. Il nuovo giudice veniva
incoraggiato alla severità, non solo dalla violenza di quel partito da
cui aveva ricevuta la carica, ma più ancora dall'avarizia di Carlo di
Valois che doveva con lui dividere le ammende che imporrebbe, ed a cui
lo stesso papa aveva rappresentata Firenze come un'inesauribile sorgente
di oro. Nello spazio di cinque mesi in cui Carlo dimorò in Firenze,
Cante dei Gabrielli condannò circa seicento persone all'esilio,
sottoponendole in pari tempo alla multa di sei in ottomila fiorini, con
minaccia di confisca di beni se non pagavano. Dante Alighieri, che a
quest'epoca trovavasi ambasciatore a Roma per la repubblica, fu compreso
in questa proscrizione. Dovremo tra poco parlare di questa condanna
pronunciata il 27 gennajo del 1302. Petracco figliuolo di Parenzo
dell'Ancisa, padre di Francesco Petrarca, fu esiliato nella stessa
circostanza[104]. Altri vennero accusati d'aver cospirato contro la vita
di Carlo di Valois, e messi alla tortura, non tanto per istrappare loro
di bocca la confessione del supposto delitto, che per sapere ove
tenessero nascosti i loro tesori. Finalmente il giorno 4 aprile del 1302
Carlo di Valois partì alla volta della Sicilia carico delle maledizioni
de' Toscani, per i quali aveva preso il titolo di pacificatore.
[104] _Dino Compagni Cronaca l. II, p. 502._
Fu osservato che Carlo di Valois era entrato in Toscana sotto pretesto
di ricondurvi la pace, e l'aveva lasciata in guerra, ch'era passato in
Sicilia per farvi la guerra; e n'era uscito dopo una vergognosa
pace[105]. Valois s'imbarcò a Napoli con Roberto, principe di Calabria,
figliuolo di Carlo II, e venne a sbarcare in Sicilia con mille
cinquecento cavalli, mentre una flotta di cento galere proteggeva il suo
passaggio e l'ajutava nell'assedio delle piazze che voleva prendere.
Federico, re di Sicilia, non aveva bastanti forze per istare in campagna
contro di lui. Già da vent'anni l'isola resisteva quasi senza stranieri
soccorsi a tutta la potenza de' Francesi e della Chiesa; ed il re
Federico ne' due o tre precedenti anni erasi veduto indebolire
dall'abbandono di Ruggiero di Loria, suo grande ammiraglio, ch'era
passato al nemico, e dall'attacco egualmente vile che crudele del suo
proprio fratello Giacomo d'Arragona, venuto come confaloniere della
chiesa per ispogliarlo di quello stato in cui egli medesimo aveva
regnato. Metà della Sicilia era stata conquistata da Giacomo, o si era
ribellata in conseguenza delle segrete intelligenze ch'egli vi aveva
conservate, quando questo re parve sensibile ai tardi rimorsi, e ripartì
nel colmo delle sue vittorie, dichiarando di non voler essere lo
strumento o il testimonio dell'ultima catastrofe di suo fratello.
Abbandonò la Sicilia l'anno 1299, e poco dopo Federico incominciò a
ristaurare i suoi affari con una battaglia in cui fece prigioniero
Filippo, principe di Taranto, figlio del re Carlo II.
[105] _Gio. Villani l. VIII, c. 49 p. 379._
Quando Valois sbarcò in Sicilia alla fine d'aprile del 1302,
impadronissi a tradimento di Termoli; ma Federico, il più valoroso
principe ed il più esperto capitano de' suoi tempi, non permettevagli
lungo tempo di essere conquistatore. Evitando sempre una battaglia
generale, cui le deboli sue forze non consigliavano di affidare la somma
della guerra, lo travagliava con continue scaramucce, gl'intercettava i
convogli, gli uccideva i cavalli: e raddoppiatesi alle truppe nemiche le
fatiche della guerra, il caldo clima della Sicilia non tardò a fare sui
soldati francesi i consueti effetti. All'assedio di Sacca la malattia si
manifestò nel campo, ed in breve tempo vi fece tale strage, che Valois
per ritirarsi dall'assedio fu costretto a chiedere la pace[106], la
quale fu fatta a condizioni apparentemente più favorevoli ai Francesi di
quello che in effetto lo fossero. Federico fu autorizzato a conservare,
finchè vivesse, il governo della Sicilia e delle adiacenti isole col
titolo di re di Trinacria; ed egli acconsentiva che dopo la sua morte
tornasse il regno agli Angiovini. Dall'una parte e dall'altra i due re
si restituirono i paesi conquistati in Sicilia ed in Calabria, ed
ambedue confiscarono le terre de' baroni e de' feudatari, che avevano
abbandonata la causa del proprio principe per darsi al nemico. Da questa
legge generale furono per altro eccettuati Ruggiero di Loria e
Vinciguerra di Palazzo. Finalmente si rilasciarono da ambe le parti i
prigionieri, e Federico sposò Eleonora figlia di Carlo II.
[106] _Nicolai Specialis Hist. Sicula l. VI, c. 10. t. X, p. 1040. —
Mariana Hist. de las Españas l. XV, c. 5. p. 645._
Sebbene la reversione della corona alla morte di Federico fosse
stipulata in favore dei principi francesi, era facil cosa il prevedere
che prima che accadesse tale avvenimento, che in fatti si protrasse fino
al 1337, nuove guerre e nuovi trattati disporrebbero diversamente della
successione alla corona; e potevasi poi naturalmente prevedere che i
Siciliani che avevano fatto Federico loro re, ed avevano combattuto
vent'anni per iscuotere il giogo degli Angiovini, non credendosi in
verun modo legati da questo trattato, non acconsentirebbero di passare
nuovamente sotto un'odiata dinastia.
Perchè la pacificazione della Sicilia riuscisse intera, rendevasi al
nuovo trattato necessaria l'approvazione della Chiesa, onde fossero
tolte le scomuniche da tanti anni fulminate contro quel regno. Ma
Bonifacio rifiutavasi di aderire alle convenzioni senza farvi alcune
modificazioni; ma per altro scrisse subito a Federico[107] per
attestargli il suo affetto ed il desiderio di riconciliarsi con lui;
onde per aderire alla sua domanda, nel mese di giugno del susseguente
anno 1303, Federico si riconobbe feudatario della santa sede per il
regno di Trinacria, come Carlo lo era per quello di Napoli, promettendo
l'annuo tributo di tre mila once d'oro[108] ed un soccorso di cento
cavalli o di un determinato numero di galere qualunque volta la Chiesa
fosse attaccata. Sotto tali condizioni Federico si riconciliò colla
santa sede; ed il papa, tanto tempo suo nemico, ben tosto ricorse a lui
contro que' medesimi Francesi che aveva fino allora protetti[109].
[107] La sua lettera degli 8 degl'Idi di dicembre trovasi in
_Raynald, ad an. 1302, § 5. p. 562_.
[108] Da una lettera di Benedetto XI delle calende di giugno 1304
appare che l'oncia d'oro siciliana corrispondeva a cinque fiorini di
Firenze. Presso _Rayn. t. XIV, p. 597_.
[109] Il trattato fu segnato in Anagni il 12 giugno 1303. _ap
Raynaldi § 24-29. p. 578 e seg._
Dacchè Bonifacio VIII ebbe ottenuto il papato, più non si curò di
nascondere due dominanti qualità del suo carattere: un orgoglio senza
pari ed un impeto che s'accostava al furore, quand'era contrariato. Per
giugnere alla tiara aveva saputo in molte occasioni regolarsi con
destrezza e piegare con simulata moderazione alle altrui voglie; ma
risguardando poi queste qualità come sconvenevoli ad un capo della
cristianità, voleva vincere di fronte ogni ostacolo. E perchè aveva da
principio abbracciati gl'interessi della casa di Francia, erasi mostrato
il più implacabile nemico de' suoi nemici, perseguitandoli con una
acerbità tale, che sembrava escludere qualunque speranza di
riconciliazione, onde aveva fatta la guerra otto anni a Federico di
Sicilia con non minore accanimento di Carlo d'Angiò. Quando del 1298
Alberto d'Austria, ribellatosi contro Adolfo di Nassò, si fece
incoronare in sua vece re dei Romani, e poco dopo lo vinse in una
battaglia, in cui Adolfo fu ucciso, Bonifacio non solo rifiutò di
conoscerlo, ma lo trattò da traditore e da ribelle; e postasi la corona
sul proprio capo, prese una spada e gridò: «Il Cesare sono io, io
l'imperatore, io che difenderò i vilipesi diritti dell'impero[110].» Lo
stesso papa, che trattava con tant'altura i sovrani, non aveva verun
riguardo d'inimicarsi i grandi prelati e signori di Roma. Il mercoledì
primo giorno di quaresima, mentre faceva l'augusta e commovente
cerimonia della chiesa romana di spargere la cenere sul capo degli
uomini più superbi per ricordar loro la nullità della propria esistenza
ed il prossimo fine, quando venne la sua volta gli s'accostò per
ricevere le ceneri Porchetto Spinola arcivescovo di Genova. Bonifacio
gli gettò con violenza la cenere negli occhi, gridando: «Ghibellino!
ricordati che tu sei cenere, e che coi Ghibellini tuoi compagni
ritornerai in cenere[111].» Ma la circostanza in cui Bonifacio mostrò
tutta la violenza del suo carattere si fu nelle lite coi Colonna.
[110] _Chronic. F. Franc. Pipini l. IV, c. 47. p. 745._
[111] _Præfat. Muratori in Chron. Jacobi de Varagine Archiep.
Genuens. t. IX. p. 3. — Dissert. II, dell'Ist. Pisana di del Borgo,
p. 95._
Eranvi nel sacro collegio due cardinali della nobilissima famiglia
Colonna, Pietro e Giacomo, i quali si erano mostrati contrari
all'elezione di Bonifacio[112] e credutisi abbastanza indipendenti per
non nascondere il loro malcontento, poichè la casa Colonna gareggiava di
potenza colle famiglie sovrane d'Italia. La città di Palestrina, quelle
di Nepi, Colonna e Zagarolo, e molte castella erano di assoluta
proprietà della casa Colonna, resa ancora illustre da molti valorosi
personaggi. L'aperta inimicizia del pontefice aveva probabilmente
consigliati i Colonna a far alleanza col re di Sicilia; e questo fu
almeno il pretesto addotto da Bonifacio per fulminare contro di loro una
bolla di scomunica che comincia con queste parole:
[112] _Ferretus Vicentinus Hist. l. II, p. 968. — F. Franc. Pipini
l. IV, c. 43. p. 744._
«Avendo prese in considerazione le abbominevoli azioni dei Colonna ne'
passati tempi, la presente loro ricaduta in pessime opere, e le ragioni
di temere dal canto loro una non meno criminosa condotta in avvenire, ci
hanno evidentemente dimostrato che l'odiosa casa Colonna è amara ai suoi
domestici, d'aggravio ai suoi vicini, nemica della repubblica romana,
ribelle alla santa Chiesa, perturbatrice del riposo della città e della
patria, incapace di soffrire eguali, ingrata ai beneficj, troppo
arrogante per servire, troppo ignorante per comandare; straniera alla
modestia, agitata dal furore, priva del timor di Dio, senza rispetto per
gli uomini, tormentata dal desiderio di turbare la città e tutto
l'universo.» Dopo queste invettive tanto indegne di un padre de' fedeli,
e così malsonanti in bocca di qualunque sovrano, Bonifacio accusava i
Colonna di avere approvata ed incoraggiata la rivoluzione dei Siciliani
e dei re d'Arragona, rimproverava loro di non aver voluto dargli in mano
le città e castella che possedevano, ed in conseguenza egli privava
Pietro e Giacomo Colonna della dignità cardinalizia, gli spogliava di
tutti i beni e di tutte le rendite che loro appartenevano e gli
assoggettava alla scomunica con tutti coloro che prenderebbero la loro
difesa: escludeva i loro nipoti, fino alla quarta generazione, dalla
facoltà d'entrare negli ordini sacri, e per ultimo scomunicava chiunque
osasse asserire che Pietro e Giacomo Colonna erano ancora
cardinali[113].
[113] _Bulla edita Romæ VI idus maii 1297. Apud Raynald. § 27-33. p.
506._
Ad una così violenta bolla risposero i Colonna con un manifesto, nel
quale dichiaravano: di non riconoscere Bonifacio per papa e capo della
chiesa; che Celestino V non ebbe il diritto, e forse nemmeno la volontà
d'abdicare; che l'elezione del suo successore, fatta mentre egli ancora
viveva e regnava, era di sua natura invalida ed illegittima. Questo
manifesto accrebbe il furore del papa, che con una seconda bolla
confermò la sentenza di deposizione e di scomunica, incaricando
gl'inquisitori di perseguitare per delitto d'eresia i Colonna e tutti
coloro che avevano le loro opinioni. Indi fece pubblicare contro di loro
la crociata con indulgenza plenaria a favore di coloro che vi
prenderebbero parte[114].
[114] _Raynald. Ann. Eccl. an. 1297, p. 508._
Il papa non era intenzionato di limitarsi ai soli castighi
ecclesiastici, ma, dopo aver atterrato i palazzi de' Colonna in Roma,
mandò l'armata crociata ad assediarne le fortezze sotto la condotta dei
due legati Matteo Acquasparta, cardinale di Porto, ed il vescovo di san
Rufino, che ne presero molte d'assalto: ma Palestrina fece una lunga
resistenza; onde si vuole che Bonifacio, disperando omai di
sottometterla, chiamasse a dirigerne l'assedio Guido di Montefeltro,
quello stesso che del 1282 aveva compiutamente rotti i Francesi a Forlì,
e più tardi difesa Pisa dai Guelfi. Questo generale ghibellino, che si
era nella milizia reso così illustre, aveva abbandonato il mondo, e
viveva penitente vestito dell'abito francescano. Bonifacio, in virtù del
suo giuramento d'ubbidienza alla santa sede, gli ordinò d'esaminare come
potrebbe prendersi Palestrina, promettendogli plenaria assoluzione di
tutto quanto potrebbe fare o proporre contro i dettami della propria
coscienza. Guido cedette alle istanze di Bonifacio, esaminò le
fortificazioni di Palestrina, e non trovando alcun lato debole per
poterla superare a viva forza, tornò al papa chiedendogli di assolverlo
ancora più espressamente da ogni delitto ch'egli aveva commesso, o che
poteva commettere nel consigliarlo, e quando fu munito di quest'ampia
assoluzione: «Io non ci vedo, gli disse, che un solo mezzo, promettere
molto e mantener poco[115].» Dopo avere così consigliata la perfidia, si
ridusse di nuovo al suo convento. Bonifacio offrì agli assediati ogni
larga condizione; accordando il perdono ai Colonna se entro tre giorni
si presentavano al suo tribunale. La città s'arrese; ma la sua vendetta
non fu compiuta per avere i Colonna avuto sentore che il papa li voleva
tutti condannare alla morte: approfittando di tale avviso, e non avendo
più alcun castello nella campagna di Roma che potesse tener lungo tempo,
rifugiaronsi in lontani paesi, ed alcuni ottennero asilo in Francia da
Filippo il bello.
[115] Per aver tenuto mano a questo tradimento, Dante pose Guido
all'inferno, perchè la ricevuta assoluzione aveva preceduto la
penitenza, _c. XXVII, v. 67. — Comment. Benven. Imolens. in Dant.
Com. ed Ant. Ital. t. I, p. 1110 ec. — Ferreti Vincent. Hist. l. II,
p. 970. — F. Franc. Pipini Chronic, l. IV, c. 21, p. 741._
Malgrado il favore che Bonifacio aveva in generale mostrato a tutta la
casa di Francia, aveva già avuto qualche disputa col re Filippo, il
quale, nè meno intollerante essendo, nè meno iracondo di Bonifacio,
aveva più presenti le ingiurie che i beneficj. Per un insigne tradimento
Filippo teneva in prigione Gui, conte di Fiandra, ed i due suoi
figliuoli che per far levare l'assedio di Gante avevano con Carlo di
Valois sottoscritto un trattato che Filippo non voleva riconoscere.
Bonifacio instava per la liberazione di questi prigionieri, ed il re si
teneva offeso da queste istanze che facevano più manifesta la vergogna
del suo operare. Inoltre il papa aveva voluto interporsi per terminare
la guerra tra la Francia e l'Inghilterra, e Filippo aveva risguardato
tale atto come un attentato a' suoi diritti. Per ultimo il papa aveva,
senza il consentimento del re, eretto un nuovo vescovado a Pamiers,
nominando il nuovo vescovo legato apostolico in Francia[116].
[116] _Contin. Guillelmi de Nangis e Monast. Benedict. in Dachery t.
XI, p. 603 e seg. — Mezeray Abregé Chron. R. de Philippe le bel, t.
II, p. 788 e seg._ — Lettere di Bonifacio al re an. 1297. —
_Raynald. § 43, p. 508._
Sebbene in diverse occasioni avesse accordate ai principi francesi
annate e decime per la guerra di Fiandra, talvolta aveva però cercato di
chiudere il tesoro ecclesiastico, o per lo meno che si dispensasse con
maggiore economia che non voleva un principe sempre avido di denaro. Il
re dal canto suo aveva proibito l'esportazione del danaro del regno,
onde privare la corte di Roma di una specie d'entrata che percepiva
sulle coscienze de' suoi sudditi[117]. In occasione di qualche alterco
avuto col vescovo di Pamiers, lo aveva fatto imprigionare, ed intentata
contro di lui un'accusa che lo faceva colpevole di ribellione e di lesa
maestà: e perchè il papa, oltre questa violazione delle immunità
ecclesiastiche, gli rimproverava d'essersi appropriate le entrate di
molte mense vescovili, Filippo pensò di munirsi, contro l'autorità della
Chiesa, di quella degli stati del suo regno[118].
[117] Lettere di Bonif. al re 7 ottobre 1296, _§ 24 e seg. p. 496_.
[118] _Raynald. ad an. 1301, § 26, p. 556._
Fu questa la prima volta in cui la nazione ed il clero di Francia si
mossero per difendere le libertà della Chiesa gallicana. Avidi di
servitù, chiamarono _libertà_ il diritto di sacrificare perfino le
coscienze ai capricci dei loro padroni, respingendo la protezione che
loro offriva contro la tirannide un capo straniero ed indipendente. In
nome di queste libertà della Chiesa, fu al papa ricusato il diritto
d'informarsi intorno alle tasse arbitrarie che il re imponeva al suo
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