Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 04 (of 16) - 07

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clero, all'arbitraria prigionia del vescovo di Pamiers, all'arbitrario
sequestro delle entrate ecclesiastiche di Rheims, di Chartres, di Laon,
di Poitiers; rifiutossi al papa il diritto di dirigere la coscienza del
re, di fargli delle rimostranze intorno all'amministrazione del suo
regno e di punirlo colle censure ecclesiastiche quando violava i
giuramenti[119]. Non è a dubitarsi che la corte pontificia non avesse
manifestata una ambizione usurpatrice; ed i re avevano ragione di
cautelarsi contro la sua prepotenza: ma i popoli dovevano anzi
desiderare che i sovrani despotici riconoscessero al di sopra di loro un
potere venuto dal cielo che li fermasse sulla strada del delitto; e se i
papi, invece di farsi dipendenti di Filippo il bello, fossero sempre
rimasti a lui superiori, la Francia sarebbesi almeno salvata
dall'obbrobrio della condanna de' Templari.
[119] Lettere del clero di Francia al papa del 1302. _Apud Raynald.
§ 12, p. 563._
Mentre il clero scriveva al papa per riclamare le sue così dette
libertà, i gentiluomini francesi procedevano ancora con maggior impeto
verso il capo della Chiesa. Quegli stessi uomini, che avevano poc'anzi
trucidati gl'innocenti abitanti dell'Arragona e della Sicilia perchè il
papa aveva conceduti que' regni ad uno de' loro principi, osarono per
servire al loro re d'intentare un processo contro lo stesso papa.
Guglielmo di Nogaret presentò, il 12 marzo 1301, una supplica al re, in
presenza de' principi del sangue e de' vescovi, colla quale accusava
Bonifacio di simonia, d'eresia, di magia e di altri enormi delitti,
chiedendo l'assistenza del re onde adunare un concilio generale per
liberare la Chiesa dalla sua oppressione[120].
[120] _Mezeray Abregé Chronolog. t. II, p. 793._
Bonifacio non era uomo da lasciarsi soverchiare in fatto di violenze:
convocò a Roma un'assemblea del clero francese ad oggetto di riformare
gli abusi introdotti dal re nell'amministrazione civile ed ecclesiastica
del regno[121]; e perchè il re vietò al suo clero d'andare a Roma,
Bonifacio fulminò la scomunica generale contro tutti coloro che
impedissero ai Cristiani d'avvicinarsi alla sede degli apostoli,
qualunque si fosse la condizione de' contravventori, fossero pur anche
rivestiti della dignità reale, e sebbene avessero ottenuto il privilegio
da qualche papa di non poter essere scomunicati[122]. Questa bolla era
diretta contro lo stesso Filippo il bello; e Bonifacio il quale teneva
per fermo che quest'atto di severità lo avrebbe indotto a sottomettersi,
spedì un legato in Francia con facoltà d'assolvere il re tosto che si
fosse ravveduto. Ma invece di sottomettersi, Filippo preparava una tale
vendetta che verun principe cristiano nè prima nè dopo osò mai prendersi
del capo della Cristianità.
[121] Lettere encicliche al clero di Francia del 7 delle none di
dicembre del 1301, _Rayn. § 29, p. 557_.
[122] Bolla di scomunica datata il giorno di san Pietro. Roma 1302.
_Raynald. § 14, p. 565._
(1303) Guglielmo di Nogaret, quello stesso che aveva prima accusato il
papa, partì alla volta d'Italia con Musciatto Franzesi, cavalier
fiorentino, Sciarra Colonna ed altri nemici di Bonifacio. Fissò la sua
dimora a Staggia, castello posto tra Firenze e Siena, sotto pretesto di
essere più vicino alla corte di Roma, colla quale doveva trattare
gl'interessi del suo padrone. Il papa abitava allora in Anagni sua
patria. Nogareto, che aveva seco condotti circa trecento cavalli,
profuse il danaro per farsi degli amici nello stato pontificio e nella
stessa città d'Anagni. Quando tutto fu apparecchiato, ed ebbe sicurezza
che una porta della città gli sarebbe data in mano da un traditore, si
recò con una rapida marcia ad Anagni il giorno 7 settembre in sul fare
del mattino: la porta gli fu aperta, ed i Francesi, accompagnati dai
partigiani dei Colonna, corsero le strade gridando: _Viva il re di
Francia, muoja Bonifacio!_ Entrarono senza ostacolo nel palazzo
pontificio; e mentre i Francesi si dispersero subito per gli
appartamenti per rubare i molti tesori che il papa vi teneva, Sciarra
Colonna solo cogli Italiani si presentò a Bonifacio[123].
[123] _Ferreti Vincent. Hist. l. III, p. 1003. — Gio. Villani l.
VIII, c. 63, p. 395. — Chron. Parmense t. IX, p. 848. — F. Franc.
Pipini Chron. l. IV, c. 41, p. 740. — Cronaca di Dino Compagni, l.
II, p. 506. — Georgii cardin. ad velum aureum de canonis S. Petri t.
III, l. II, c. 11, v. 150, p. 659. — Vita Bonif. Papæ ex MS.
Bernardi Guidonis, t. III, p. 672. Vita Bonif. VIII, ex Amalrico
Augerio t. III, p. II, p. 439._
È cosa indubitata che i congiurati erano disposti a trucidare il papa;
poichè non avevano presa alcuna misura nè per condurlo via, nè per
custodirlo sicuramente ov'era. Ma questo vecchio, reso venerando
dall'avanzata età di ottantasei anni, e che, quando senti avvicinarsi i
nemici, aveva vestiti gli abiti pontificali, ed erasi posto a ginocchio
pregando innanzi all'altare, incusse, malgrado loro, un insuperabile
rispetto ai congiurati: minacciarono bensì di tradurlo a Lione
prigioniero per esservi giudicato da un concilio; ma non osarono portar
la mano sulla sua persona[124]; e Guglielmo di Nogareto rimase
interdetto quando Bonifacio si fece ad interpellarlo se da lui, siccome
da discendente da una famiglia eretica, doveva aspettarsi la corona del
martirio. I Francesi continuarono tre giorni a saccheggiare i tesori di
Bonifacio senza nulla risolvere intorno al loro prigioniero. Finalmente
il popolo d'Anagni, ch'era stato sorpreso e che in quel primo istante
pareva quasi favorire i congiurati, eccitato dal cardinale Fiesco a
prendere le armi, attaccò i Francesi, gli scacciò dal palazzo e liberò
Bonifacio.
[124] Alcuni moderni storici francesi pretesero elle Sciarra Colonna
desse uno schiaffo al papa. Ma questo racconto viene contraddetto da
tutti i contemporanei, i quali concordemente asseriscono che niuno
osò toccarlo.
Ad ogni modo i malvagi desiderj del re di Francia ebbero compimento,
senza che bisogno vi fosse di adoperare la spada contro il pontefice; il
quale avendo sofferto tre giorni di spavento e di angosce in mano de'
suoi nemici, perdette quasi affatto l'uso della ragione, e cadde
infermo: fu trasportato a Roma immediatamente siccome in luogo di
maggiore sicurezza, e confidato agli Orsini, che supponevansi nemici dei
Colonna. Ma ben tosto fu o credette di essere egualmente da loro
trattenuto. Reso estremamente geloso del suo potere e della sua
indipendenza, perchè statone privo tre giorni, risguardava qualunque
menomo atto di resistenza come un attentato contro la sua autorità.
Dall'altro canto, o sia che gli Orsini volessero nascondere al pubblico
lo scandalo d'un papa frenetico, o pure che, sotto tale pretesto, lo
ritenessero d'accordo coi Colonna veramente prigioniero, un giorno che
Bonifacio voleva uscire dal Vaticano ed andare a Laterano ove pensava di
porsi sotto la protezione degli Annibaldeschi, i due cardinali Orsini
gli vietarono l'uscita, forzandolo a rientrare nelle sue camere[125].
[125] _Ferreti Vicentini Hist. l. III, p. 1006._
Il vecchio, fremente di rabbia, fu lasciato solo con Giovanni Campano
mostratosi a lui fedele in ogni circostanza, il quale lo andava
esortando a sostenere coraggiosamente la sua sventura, confidando nel
consolatore degli afflitti, che vi apporterebbe rimedio: ma Bonifacio,
non rispondendo una sola parola, cogli occhi travolti, colla schiuma
alla bocca, faceva sentire lo stridore dei denti e ricusava ogni
alimento. All'avvicinarsi della notte parve che la sua frenesia
prendesse maggior forza, e passò tutta la notte senza chiudere gli
occhi. Finalmente quando trovossi affatto affievolito dall'eccesso dei
patimenti della sua anima intollerante, ordinò ai domestici che gli
stavano intorno, di ritirarsi, e rimasto affatto solo si chiuse per di
dentro col chiavistello. Quando dopo avere aspettato lungo tempo, i suoi
domestici forzarono la porta, lo trovarono sul letto freddo assiderato.
Il bastone che portava in mano era rosicchiato e lordo di schiuma; e
vedendogli i bianchi capelli rosseggianti di sangue, si conghietturò
che, dopo avere violentemente dato del capo contro le pareti, si fosse
poi gettato sul letto, e che, copertosi il capo colle coltri, morisse
soffocato sotto le medesime[126].
[126] Perchè Bonifacio morì tre anni dopo la poetica discesa di
Dante all'inferno, non potendo questi riporvelo, finse almeno che vi
fosse aspettato. Niccolò III punito come simoniaco ode alcuno
parlare presso al suo rogo; s'immagina che sia Bonifacio che viene
per rimpiazzarlo. _Inferno C. XIX, v. 52._
«Ed ei gridò; se' tu già costì ritto,
Se' tu già costì ritto Bonifazio,
Di parecchi anni mi menti lo scritto;
Se' tu sì tosto di quell'aver sazio
Per lo qual non temesti torre a inganno
La bella donna, e di poi farne strazio?»
Ma per quanto Dante odiasse Bonifacio, per quanto si fosse reso
colpevole verso Celestino, suo predecessore, non lascia perciò di
condannare coloro che sì empiamente l'oltraggiarono, e pone in bocca
d'Ugo Capeto il racconto dei delitti de' suoi discendenti. _Purgat.
C. XX, v. 86._
«Veggio in Alagna entrar lo fiordaliso,
E nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un'altra volta esser deriso,
Veggio rinnovellar l'aceto e 'l fele,
E tra vivi ladroni essere anciso.»


CAPITOLO XXV.
_Considerazioni intorno al tredicesimo secolo._

Abbiamo terminata la storia del tredicesimo secolo; d'un secolo nel
quale i popoli successivamente e vanamente facendo sperienza di varie
costituzioni popolari, soggiacquero a tutte le calamità che sogliono
accompagnare una disordinata libertà; di un secolo per altro che preparò
la più grande rivoluzione dello spirito umano, e diede la poesia e le
arti alle moderne nazioni[127]. Niun'epoca merita forse di essere più
attentamente esaminata dal filosofo; niuna contiene in sè il germe
d'idee più vaste, di più importanti avvenimenti.
[127] La poesia a le arti, sebbene risorgessero in Italia nel XIII
secolo, non progredirono però di pari passo. La prima ebbe
perfezionamento da Dante, da Petrarca, da Boccaccio; le altre quasi
due secoli dopo da Michelangelo, da Tiziano, da Raffaello. _N. d.
T._
Tra le cose che sotto il rapporto politico formano in questo secolo il
principale carattere dello spirito delle città libere sono l'odio del
popolo contro la nobiltà ed i tentativi de' legislatori popolari per
trovare una guarentia dell'ordine sociale, ora nella proprietà e
talvolta contro la stessa proprietà. La quistione della proprietà come
limitante, o come la sola che dia i diritti politici ai cittadini degli
stati liberi fu nuovamente discussa anche nella presente età; ma coloro
che la esaminarono, non conoscevano gli sperimenti fatti dai nostri
maggiori in un secolo veramente libero, e con que' mezzi di buon
successo che la provvidenza non accordò a tutti i tempi. Crediamo di non
iscostarci dal nostro argomento, prendendo qui ad esaminare in un modo
più esteso i saggi di costituzione che si fecero in Italia, sotto i loro
rapporti colla proprietà, e cercando di riconoscere nell'attenta
considerazione di questi rapporti i veri principj dell'ordine sociale.
Ma prima di tutto conviene rimuovere una distinzione, o a dir meglio una
disputa di parole, intorno alla quale si è molto insistito per
uniformarsi alle idee popolari d'ogni secolo, benchè le cose e le idee
rappresentate da questi diversi vocaboli fossero precisamente le
medesime. Nell'età di mezzo si parlava dei diritti esclusivi dei nobili;
oggi di quelli dei proprietarj delle terre: con questi due vocaboli,
talvolta in opposizione l'uno coll'altro, s'intese però sempre la stessa
classe di persone. Di questa classe si formò sempre un'idea composta; e
l'autorità ed il credito che si volle confidarle furono sempre il
risultamento di due diverse attribuzioni ch'ella riunisce. L'idea d'una
fortuna, che non può venir meno, affatto inseparabile dalla sorte della
patria, si unì alla speranza della perpetuità ed all'idea d'una più
accurata educazione, di sentimenti più elevati, d'uno spirito di
famiglia, di uno spirito di corpo attaccato all'onore di lontane
memorie.
Il legislatore de' secoli di mezzo non aveva considerata la nobiltà come
separata dalle sue proprietà territoriali; non aveva supposto che fosse
una prerogativa soltanto inerente al sangue, che non si potesse
acquistare col merito, o ancora più semplicemente colla mutazione della
ricchezza mobiliare nell'immobiliare. La storia delle repubbliche
d'Italia ci presenta in ogni generazione famiglie commercianti che,
fatte proprietarie, si risguardarono come divenute nobili. I Cerchi di
cui abbiamo poc'anzi parlato, gli Albizzi, gli Alberti ed i Medici, che
ben tosto vedremo sorgere in Firenze, e gli Adorni ed i Fregosi in
Genova sono notissimi esempi. Ma si aveva una certa quale vergogna ad
attribuire tanto merito alla ricchezza, che sola potesse collocare un
uomo nel primo rango della società; nè si voleva accordare la nobiltà
come prezzo di quella gara, che è tra gli uomini grandissima, delle
ricchezze; nè stabilire il principio che i beni, in qualunque modo
acquistati da un plebeo, gli dessero un giusto titolo per essere
rispettato ed ubbidito dai suoi eguali.
Anche nell'età nostra quegli economisti, che ne' nuovi loro sistemi
vollero ammettere il principio che la patria appartiene ai soli
proprietarj delle terre, e che sono essi soli i cittadini, non hanno
però supposto che la proprietà desse una sufficiente base all'ordine
sociale in qualunque modo si acquistasse; cosicchè coloro, che
coll'assassinio si rendessero padroni di un governo, possano,
dividendosi le terre dei viventi, acquistar subito i sentimenti
patriotici e gl'interessi sempre conformi a quelli dello stato, come li
suppongono alla classe de' proprietarj. Perciò gli economisti richiedono
una lunga trasmissione, onde l'antico rispetto pel diritto di proprietà
guarentisca il futuro rispetto per lo stesso diritto e per tutti gli
altri. Domandano essi lontane ricordanze e lontane speranze, affezioni
locali, fierezza nata dall'indipendenza, quella benevolenza che mantiene
una professione immune dalle gelosie, la confidenza che eccita una
fortuna non sottoposta agli accidenti nè al capriccio degli uomini, il
lustro ereditario delle virtù degli antenati, finalmente la nobiltà: che
se essi non proferiscono questo vocabolo, è solamente per un vano
rispetto pei pregiudizj del secolo; ed è ancora talvolta perchè si
escludono essi medesimi dalla nobiltà, ponendosi per altro tra i
proprietarj territoriali; e perchè tutto accordando alla classe cui
danno esclusivamente i diritti di cittadinanza, vogliono ad ogni modo
registrare sè medesimi in questa classe.
Effettivamente molte virtù sembrano ereditarie nella classe dei nobili o
proprietarj delle terre; e se una nazione dovesse governarsi da un solo
ordine dello stato, niun altro, senza dubbio, potrebbe scegliersi a
preferenza di quello. Ma fortunatamente le nazioni non sono ridotte alla
vergognosa necessità di crearsi dei padroni; esiste una legge, una legge
universale, senza eccezione, che condanna le nazioni alla servitù
qualunque volta esse avranno attribuite ad una classe, ad un uomo, o
ancora ad una sola assemblea, quand'anche dovesse formarsi di tutti gli
uomini della nazione, la totalità del sovrano potere; qualunque volta
non sarannosi conservati indipendenti dal governo il diritto ed i mezzi
di resistenza, che guarentiscano gl'individui dalle usurpazioni del
potere sovrano, impediscano che la libertà civile sia violata dai
governanti, e mostrino che i cittadini non rinunciarono a tutti i loro
diritti individuali per rifonderli nello stato di cui sono membri. Nè vi
è, nè può esservi governo libero senza essere misto, cioè quello nel
quale una sola parte della nazione non possa appropriarsi tutti i poteri
ed essere rivestita della sovranità, nè un'altra parte essere oppressa e
spogliata di ogni diritto politico e di ogni partecipazione al supremo
potere: non può esservi altro governo libero se non quello in cui
l'equilibrio, mantenendo la libertà, non lasci sussistere nello stato
una tale potenza, che possa impunemente violare il contratto sociale;
che quello finalmente nel quale sta la potenza sovrana; ma che non sia
sovrano, se non è la stessa nazione, poichè la sola nazione riunisce
tutti i diritti che costituiscono la sovranità.
Non è perciò a credersi che tutti gli uomini debbano o possano avere
ugual parte alla sovranità; che per lo contrario l'influenza loro sul
governo dev'essere proporzionata all'affetto ch'essi sentono; e le
inferiori classi del popolo, che non hanno che un'imperfetta o niuna
idea del governo, non hanno nè meno il più delle volte attaccamento al
medesimo. Non conviene nè pure interrogarli intorno a ciò che non ha
potuto essere oggetto de' loro pensieri; il loro suffragio di comando o
d'imitazione non esprime che il voto degl'intriganti che le dirigono. Ma
queste medesime classi arrivano a sentire quando sono oppresse, sacra è
la loro voce quando l'entusiasmo della virtù le spinge a rendere uno
spontaneo omaggio agli uomini più eroici della nazione: se loro vengono
interdette le lagnanze, se sono sprezzate le loro scelte, la tirannide
pesa sopra di loro, e la nazione ha cessato d'essere libera.
I talenti, le ricchezze, i natali, sono cagione di un'infinita
disuguaglianza tra gli uomini; e coloro che riuniscono questi vantaggi,
sono più capaci che gli altri di governare i loro compatriotti. Alla
maggiore attitudine pel governo vi hanno fors'anche maggiore diritto
degli altri. I talenti li rendono più capaci di fare il ben pubblico, e
la ricchezza lega il loro interesse alla pubblica prosperità, come i
natali all'onore nazionale. La società deve perciò approfittare della
loro distinzione, e non confonderli nella folla dei cittadini inetti al
governo; ma in pari tempo deve avere cura di non affidar loro tutti i
suoi diritti. La società, abbandonata come una proprietà ai dotti, corre
pericolo d'essere sagrificata a vane teorie, perciocchè i filosofi
potrebbero con crudeli esperimenti far prova su di lei delle pericolose
loro astrazioni. Abbandonata ai ricchi, sarebbe come un podere messo a
profitto dal loro duro egoismo; la ferrea mano della necessità
s'aggraverebbe sopra i poveri; e la prosperità, che altro non è se non
che una concessione dell'ordine sociale, un privilegio accordato a pochi
pel vantaggio di tutti, sarebbe resa più sacra che la sanità e la vita
degli uomini. La società, assoggettata alla nobiltà, vedrebbe le sue
classi inferiori avvilite dai nobili che si risguarderebbero quasi d'una
natura diversa dai vili plebei, perciò conculcati ed oppressi. In vano
questi riclamerebbero la protezione delle leggi, tutte rivolte a
favorire la casta privilegiata, cui apparterebbero esclusivamente la
gloria e gli onori. Il segreto della legislazione consiste nello
stabilire la guarentia nazionale della libertà, conservando ad ogni
classe, ad ogni ordine, ad ogni individuo i suoi diritti, i suoi
privilegi, la sua influenza sopra la società in proporzione
dell'interesse che può prendervi. Ma il principio sacro, il principio
conservatore di ogni governo libero consiste in ciò, che la sovranità
non appartenga nè alle classi, nè agli ordini, nè ai consigli, nè agli
individui, che la sovranità appartenga non ad una parte, ma all'intera
nazione; che in niuna parte trovisi colui che potrebbe volere, in nome
di tutti, tutto quanto ogni individuo potrebbe volere individualmente,
imporre a tutti i sagrificj che ogni individuo potrebbe acconsentire
d'imporsi.
Per altro, dicono gli economisti, la nazione è composta soltanto di
proprietarj di terre; e come potrebbesi supporre una lega tra questi per
escludere da un paese tutti i non proprietarj, così deve ammettersi che
rimangono in arbitrio de' proprietarj le condizioni sotto le quali
accordano agli altri la facoltà di abitare nel loro terreno[128]. Strano
raziocinio, dal quale potrebbesi pure dedurre la perfetta schiavitù di
tutti coloro che non sono proprietarj; perchè non è più difficile il
supporre un accordo di tutti i proprietarj dell'universo, come di tutti
quelli di una nazione. E quale sarebbe adunque la misura delle
umiliazioni, cui sarebbero costretti di soggiacere gli uomini scacciati
in ogni luogo? _A meno che non violassero le leggi_, dice il già citato
economista. E chi può dubitarne, che dovrebbero violare le leggi, quando
le leggi altro non fossero che il risultamento della volontà di una
classe usurpatrice, che avrebbe spogliata la nazione della sua eredità,
quando la proprietà che non ha che la garanzia del contratto sociale,
sarebbe considerata come principio del diritto di distruggere tutte le
guaranzie che il contratto sociale ha riservate per tutti i cittadini.
[128] Trovasi tale opinione in _Garnier. Note 32. de sa traduction
d'Adam Smith_. E questo celebre economista deve qui risguardarsi
come l'organo della sua setta. Ho di già confutato questo
ragionamento della mia opera _Richesse commerciale l. I, c. 3, p.
60_.
Sappiano adunque gli economisti, che il loro sistema venne compiutamente
adottato, e che, per lo spazio di molti secoli, la sovranità tutta
intera fu abbandonata ai soli proprietarj del suolo; giacchè tutto il
terreno d'Europa era stato diviso tra i nobili, i quali altro non erano
che soldati, e che in tutto l'Occidente più non rimaneva una sola
particella di terra, che non fosse proprietà di qualche gentiluomo.
Questi proprietarj prescrissero a coloro che volevano abitare sul loro
suolo, una sola condizione, la servitù: e perchè non rimanesse veruno
asilo aperto a coloro che non volevano soggiacere a tale condizione, i
proprietarj convennero di rinviarsi vicendevolmente i fuggitivi[129]. Ma
grazie alla provvidenza ed allo spirito di libertà, che si alimenta e si
solleva per le riunioni degli uomini, questa legge fu violata. Dovunque
sopra la proprietà d'un nobile, le prossime abitazioni de' mercanti e
degli artigiani formarono una città, i borghesi di questa città, colle
armi alla mano, costrinsero il nobile proprietario a rinunciare alle sue
tiranniche pretensioni, ed a riconoscere egli medesimo i limiti del
diritto di proprietà. In tal modo dal decimo fino al dodicesimo secolo,
gli uomini privi di proprietà territoriale riconquistarono la libertà
per le future generazioni.
[129] La terza legge di Rotari, re dei Lombardi, stabilisce la pena
di morte contro colui che tenta di abbandonare la sua provincia.
_Leges Logomb. t. I, p. II, Rer. It. p. 17._ I guardiani dei porti o
battelli sui fiumi erano rigorosamente castigati, anche con pena
capitale, se favorivano i fuggitivi. _Rhotaris Leges 270 e seg. p.
38._
La lite tra i nobili proprietarj delle campagne ed i borghesi stabiliti
nelle città aveva omai cambiata natura ed oggetto nel tredicesimo
secolo. I primi riconoscevano la libertà civile dei secondi, e
protestavano di rispettarla; ma chiedevano, per un riguardo dovuto alla
loro nascita, e per il decoro delle repubbliche alle quali erano essi
incorporati, di essere esclusivamente incaricati dell'amministrazione
dello stato. Eglino soli, dicevano, potevan nutrire o affamare le città,
di cui erano parte, eglino soli erano radicati al suolo, e non potevano
separare il loro particolare interesse da quello della patria, mentre
avevano veduto sorgere nelle città certe fortune mobili che potevano
prosperare in mezzo alle calamità pubbliche, ed essere dai commercianti
facilmente sottratte a tutte le rivoluzioni. Questi nuovi ricchi,
soggiugnevano, si sottraggono facilmente alle leggi, e non guarentiscono
la società del loro attaccamento e della loro ubbidienza: stranieri alla
propria città, saranno assai più che ai naturali loro magistrati,
subordinati al soldano che regna in Antiochia e conquista san Giovanni
d'Acri, all'imperatore di Costantinopoli o al re di Francia, ove tengono
i loro banchi e le ricchezze.
Dall'altra banda i mercanti, che per un generoso attaccamento alla
patria, sostenevano quasi soli le gravezze dello stato sopra quelle loro
sostanze che i finanzieri della repubblica non avrebbero potuto ferire,
si sdegnarono a ragione vedendo che si tentava di escluderli da quella
sovranità ch'essi avevano conquistata e di cui erano tuttavia il
principale sostegno. E siccome non è mai vero che una qualunque classe
abbia sola un interesse sempre conforme a quello dello stato, potevano
vittoriosamente rispondere alle allegazioni de' gentiluomini. Questi
pretendevano di alimentare il popolo, perchè tutto il grano
raccoglievasi nelle loro terre; i mercanti perchè somministravano al
popolo tutto il danaro per comperarlo. Avevano ancora fatto assai più;
avevano dato ai gentiluomini i mezzi per coltivare le terre: ed i frutti
della campagna non sono meno dovuti al terreno che li porta, che al
capitale mobiliare che li fa nascere. È vero che i negozianti non danno
garanzia allo stato, anzi ne esigono una essi dallo stato, _la libertà_.
Fedeli alla patria finchè si manteneva libera, e ne avevano date
luminose prove in tempo delle sue calamità, non erano uomini che un
tiranno potesse cogliere ed incatenare. In mezzo al libero mare, o
viaggiatori in mezzo a nazioni schiave, maturavano nell'esilio i giorni
della vendetta e della libertà; mentre i nobili, venduti ora
agl'imperatori ora ai condottieri, oppure ai piccoli tiranni che avevano
eretto un principato in mezzo ai loro eguali, avevano pur troppo provato
ch'essi lasciavansi incatenare dalle loro proprietà territoriali, e che
tali proprietà non erano già una guarenzia del loro amore per la patria,
ma della loro obbedienza in tempo di pace al padrone, qualunque egli si
fosse, e della viltà loro in tempo di guerra in faccia a qualsiasi
nemico purchè potesse occupare o guastare le loro campagne. Finchè i
nobili veneziani, dedicati interamente alla mercatura, non possedettero
poderi al di là delle loro lagune, sprezzarono gli sforzi de' barbari e
dell'intera Europa alleata contro di loro: ma quando investirono una
porzione delle loro fuggitive fortune nell'acquisto di fondi in terra
ferma, s'attaccarono essi medesimi al collo quella catena colla quale
ogni potente nemico poteva legarli. «Quale fu, cittadini, la politica
de' nostri antenati?» diceva il conte Ugolino ai Pisani, quando voleva
persuaderli a fare la pace coi Guelfi. «Essi conquistarono la Sardegna e
la Corsica; desiderarono ricchezze e signorie oltre mare; ma vollero
mantenersi amiche le vicine città. Non contesero ai Fiorentini il loro
vasto e ricco territorio: ed infatti qual giovamento possiamo sperare
dalla presente guerra con Firenze? ad inimicarci i nostri sudditi di
Buti e di Calcinaja, perchè le loro proprietà vengono guastate; ad
esporci a dolorose umiliazioni per beni che non costituiscono la nostra
vera ricchezza[130].»
[130] _Cron. di B. Marangoni. Suppl. Ser. Etr. t. I, p. 570._
Per altro non erano proprietarj i soli nobili: eranvi due altre classi
d'uomini che avevano delle terre, cioè i mercanti possessori di case in
città e di ville in campagna, ed i contadini che le repubbliche avevano
liberati dalla schiavitù. Ma i primi, la di cui proprietà mobiliare era
spesso le trenta e le cinquanta volte maggiore de' beni stabili, non
avevano peranco adottati i sentimenti che inspiravano ai gentiluomini
una proprietà composta di soli terreni; e sebbene il trionfo d'un
partito fosse quasi sempre accompagnato dalla demolizione delle case e
dal sequestro de' fondi della contraria fazione, conservavano non
pertanto anche in mezzo alle rivoluzioni l'indipendenza del loro
carattere. Dall'altro canto i contadini non si prendevano pensiere de'
pubblici affari ed ubbidivano senza deliberare a chi voleva loro
comandare. Agli uomini della più bassa classe non possono essere
ispirate idee superiori alla circoscritta periferia degl'interessi
domestici, nè si può far loro sentire l'esistenza d'una nazione cui
devono le loro cure, che coll'abitudine delle adunanze e della vita
cittadinesca.
Finchè i mercanti delle repubbliche italiane non domandarono di
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