Novelle umoristiche - 12

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quanto costi una capanna a comperarla in due, o a prenderla in affitto
in due! Egli dunque poteva domandar la mano della signorina che
amava! La felicità non era dunque illusione! Benedetto l'agnellino!
Dell'agnello Biscaglia fece il paraninfo del suo amore, il compagno
de' suoi sogni, l'argomento delle sue rime, il simbolo del suo cuore.
_Bèee...._
Or come Don Chisciotte e Sancio Panza erano d'accordo mentre Tartarin
saliva il Righi, così erano d'accordo adesso nell'animo del professore
Biscaglia mentre egli saliva _quelle_ scale.
Una.... Due.... Tre.... Abitavano molto in alto, le signore. Salendo
crescevano i palpiti, calava il sangue. Smorto, anelante, il professore
si arrestò all'ultimo pianerottolo; dove, a una porta, lesse il nome:
_Crocchi_.
Nessun dubbio; quell'angelo stava là dentro.
Ma lui si sentiva così smorto che non ardì toccar súbito il bottone
del campanello; e prima si fregò le guance con le mani. L'atto però gli
parve ridicolo; temè che qualcuno fosse a guardarlo o a spiarlo per la
finestra della scala; si volse....
Dalla finestra della cucina, di contro, pendeva, spaccato, l'agnello.
Tradotta in tedesco da C. Brenning e pubblicata (1902) in
_Feuilleton Zeitung_, _Zürcher Post_, _Düsseldorfer Zeitung_,
_Frankfurter Nachrichten_, _Neueste Nachrichten für Elberfeld_,
_Dortmunder Zeitung_, _Unterhaltungs-Beilage_, _Die Selbsthilfe_,
_Hansa-Theater_, _Neue Saarbrücker Zeitung_.


Il falcone.

Nel medio evo:
per le signore d'oggidì.
Il castellano di Ripalta s'era allevato con amore un valletto di
nome Ugo e con desiderio, esercitandolo a cavalcare e ad armeggiare,
attendeva il giorno che lo armerebbe cavaliere. Nè di quel bene
del signore per il valletto ingelosiva madonna Ginevra, poichè la
giovinezza di lei fioriva infeconda e il ragazzo, tenuto quasi in conto
di figlio, le risparmiava i rimbrotti del marito.
Madonna viveva lieta. L'amore del marito, le cacce e il conversare
con le sue donne e cogli ospiti, le divagavano la vita uguale e
solitaria del castello non meno che le faccende casalinghe, cui
essa accudiva umilmente. Come rideva a osservar le galline, che al
solo vederla chiocciando e sbattendo le ali le correvano dietro e si
disputavano in frotta avida e litigiosa il becchime che gettava, così
rideva se a diporto il palafreno saltasse imbizzarrito o adombrato,
o se nell'arazzo da rammendare le riuscisse peggio che lo strappo il
rattoppo; e mentre cuciva presso la finestra, dalla quale scorgeva
l'ampio paesaggio a basso e d'intorno, ella cantava e i villani, giù
nella valle, udivano limpide e schiette le cadenze della sua bella
voce.
Gioconda natura! Per essa madonna Ginevra era amata dai servi,
quantunque fosse anche temuta perchè gli occhi del padrone vedevano
tutto con gli occhi di lei e perchè ogni capriccio di lei diventava la
volontà del sire. Solo Ugo il valletto la serviva baldanzoso e sicuro,
e quando fallava sapeva vincerne lo sdegno fingendosi egli sdegnato
e mesto; sicchè lei finiva con immergergli le dita tra i capelli
folti, per ridere. Ugo allora si divincolava e la guardava tutta in
un'occhiata.
Veramente molte cose erano permesse a Ugo. Poteva arrampicarsi su
per gli alberi dell'orto a inzepparsi di frutta; poteva ordire le più
strane burle al vecchio maggiordomo o assestare un pugno allo scudiero
che gli minacciava un pugno; poteva spiare dietro una porta l'ancella
che si stava spogliando; che, accusato alla padrona, la padrona rideva,
e accusato al padrone, il padrone taceva.
Ma quand'ebbe compiuti i quindici anni il valletto parve mutare
costume, e il signore notò lo studio di lui a imitarlo affinchè
nessuno, neppure madonna Ginevra, lo considerasse più un ragazzo.
Egli stesso, Ugo, sentiva mutarsi; sentiva una smania di cose nuove,
d'altri svaghi, d'altri luoghi, d'altri pensieri; mentre la vita e la
natura che fervevano attorno a lui gli rivelavano cose sconosciute
e gli suscitavano sensazioni nuove. E intanto che la forza sensuale
si sviluppava in lui e per l'istintiva penetrazione della pubescenza
egli imparava da tutta la natura il segreto dell'amore, quel desiderio
peranche indefinito gli avvolgeva il cuore di una insolita tristezza e
tenerezza. Amava, già amava, senza sapere chi amasse e senza sapere che
amava.
Ma risalendo un giorno dalla valle al castello (era di fitto meriggio e
sotto la forza del sole il mondo dormiva d'un sonno fervido) Ugo a un
tratto udì cantare lontana, dall'alto, simile a un'allodola, madonna
Ginevra; e d'un tratto l'imagine incerta del suo desiderio e de' suoi
sogni acquistò ai suoi occhi sembianza e forma di persona viva: madonna
Ginevra!
La sera nel porgere, avanti cena, l'acqua alle mani della padrona, al
valletto tremavano le mani. Egli se n'accorse, sebbene non chinasse lo
sguardo; amava da uomo; senza paura amava, e senza vergogna.
Quante consolazioni nell'avvenire la sua mente innamorata ebbe allora
da fantasticare! Secondando i ricordi delle storie, che gli avevano
raccontate a veglia, di cavalieri fatti eroi per gloria delle loro
dame, e invidiando a sè stesso i pochi anni che gli mancavano alla
piena giovinezza, s'imaginava vincitore di tornei in cui madonna
Ginevra l'assisteva sorridendo, o difensore e salvatore di madonna in
un notturno assalto di nemici.
Per altro, quell'ardore e il compiacimento di quell'ardore patirono
presto il freddo dell'ignara noncuranza della dama, la quale aveva
due grand'occhi solo per vedere, non per osservare; e poichè egli non
fallava più, tal cura e tal forza metteva nel servirla, essa non aveva
neppur più ragione d'immergergli le dita tra i capelli.
Fino a quando essa avrebbe dunque ignorate le sue pene?
E col volgere dei mesi l'affetto di Ugo s'andò come condensando in modo
più virile; onde la sua fantasia, cedevole ai richiami e agli impeti
dei sensi riscaldati dal primo e precoce calore della giovinezza,
l'abituava a desiderare nella bella donna le delizie corporali e le
gioie della colpa. A poco a poco egli perdette, così, la baldanza, il
coraggio, la fede del suo amore; e il timore lo prese che il sire ne
scoprisse il segreto e l'intenzione.
Passarono mesi; passò un anno. Ma quanto più gli diminuiva la speranza,
tanto più cresceva in lui la bramosia di essere soddisfatto.
Madonna Ginevra era sempre bella e fresca: rosa fresca in tutta la sua
bella fioritura. Come spesso, dopo la cena, Ugo sorprendeva afflitto
certe occhiate desiose del marito a lei! Con che travaglio percepiva
negli occhi e nel riso di madonna gli assensi e le promesse! Il
desiderio sensuale, non più vago e dimesso ma deciso e tempestoso,
affaticava l'animo del valletto non più riposato nei primi propositi;
e il pensiero di rimettersi al futuro gli diveniva un ritegno
insufficiente e un'attesa intollerabile. Già si sentiva morire d'amore;
avrebbe alla prima buona circostanza rivelata alla dama la sua passione
sconsolata.
Avvenne che una mattina, montando il suo cavallo migliore e seguito
da scudieri in vesti nuove, il sire di Ripalta partì per una festa.
Quantunque fosse quello il giorno aspettato dal valletto con penoso
e lungo desiderio, tuttavia appena il signore fu scomparso al basso
del colle, tra le macchie, egli, nell'imminenza della felicità se
l'assistesse la fortuna, o del suo ultimo malanno se madonna non
volesse ascoltarlo o mancasse a lui il coraggio d'ottenere ascolto,
provò un turbamento grande di paura. Pensava: «Prima di notte le dirò
tutto. Le dirò il bene che le voglio. Ma come comincerò?»
E il sole cadeva che non aveva ancora trovato il modo acconcio per
incominciare. Quando però, la sera, si fu accorto che la padrona
era entrata nelle sue stanze, non più dubitando salì, s'introdusse
guardingo, spinse francamente quella porta.
Madonna Ginevra, già sciolti i capelli e un po' discinta, sedeva su la
cassapanca: alzati, al rumore, gli occhi sonnacchiosi, riconobbe Ugo
e componendosi la veste in fretta, tra sorpresa e sorridente disse: —
Vieni, vieni. Cosa vuoi?
A Ugo, rinfrancato, precipitò in mente la dimanda che s'era proposto
di far dopo, e raccolto il fiato bastevole per non restare a mezzo,
chiese:
— Madonna, se chierico o cavaliere, borghese o valletto, non importa
chi amasse da gran tempo una bella donna, damigella o dama, contessa
o regina, non importa chi, e non avesse cuore di dirglielo, sarebbe
savio?
La domanda piacque a madonna, lieta non ostante l'assenza del marito;
e per burlarsi del ragazzo, gli rispose: — Sarebbe stolto. Anche un
valletto, purchè fosse bello e valente come te, dovrebbe parlare. Chi
ama non sia vile; e ogni donna, anche una regina, n'avrebbe almeno
almeno compassione.
Ugo con tutta l'anima bevve quelle buone parole e quasi ebbro di gioia
esclamò: — Madonna Ginevra, ecco! sono io! Come ho patito, io, per voi!
Aiutatemi, madonna!
La dama non rise: non credè che il ragazzo volesse burlarsi lui di lei,
perchè gli scorse la passione in faccia; anzi indispettita d'essersi
lasciata cogliere e offesa da quell'audacia, gridò severa: — Ah, ma
tu sei matto! Che mi vai cicalando con le tue fole? Che so io dei
tuoi amori? Che cosa mi hai chiesto? Che cosa l'ho risposto? Vattene,
vattene! Oh come godrà il sire quando glielo dirò! Vattene!
Stordito, con gli occhi spalancati e disperati, Ugo non si mosse. Nel
tumulto dei pensieri, ebbe forza di cercare la suprema invocazione alla
pietà della dama, l'affermazione estrema del suo amore e una minaccia
quasi di vendetta all'acerbità di lei; e disse: — Voi mi sgridate
così, e la colpa è vostra. Perchè non mi ammazzate piuttosto? Meglio
morire!... In fe' di Dio, io non mangerò più finchè non mi avrete
accontentato! — E con un'angoscia che pareva lo strozzasse, uscì di là.
Madonna Ginevra rise forte e pensò: «Oh che gli è venuto in mente a
quel ragazzo?»; poi, nello spogliarsi, guardandosi, rise e ripetè:
«Cosa gli è venuta in mente?»; infine, si distese sotto le lenzuola e,
come il marito era lontano, s'addormentò senz'altro pensiero, col riso
su le labbra.
Ugo invece, che se avesse pianto avrebbe sfogato tosto il suo rovello,
per non piangere si dimenò a lungo nel letto e non riuscì a chiudere
occhio prima d'essersi convinto che la prova che si era imposta era
degna d'un cavaliere innamorato, se era prova che davvero gli metteva
in pericolo la vita. Ma al risvegliarsi, la mattina, ebbe fatica, quasi
pena a riandare il fatto della sera innanzi; capì d'aver commessa
un'imprudenza; credè fino d'aver commesso un grosso errore, fino
un'azione da ragazzo; e si provò a dimenticare. Non poteva: in che
modo comparire al cospetto di madonna? E l'amore gli diè ragione; gli
rinfocolò la fantasia; gli fece parer eroica la deliberazione presa.
Quando furono a cercarlo disse: — Ho un gran peso qua — segnava lo
stomaco —; non potrò più mangiare. — E non si alzò.
Il giorno dopo madonna chiese del valletto. — Non ingoia nulla —
risposero. Nè egli cedè ad alcuna preghiera o ammonizione. E il terzo
dì una serva gli portò una tazza di latte appena munto, spumante, che
faceva voglia, e un'altra un ovo ancora caldo. Ma chiudeva gli occhi
e rifiutava. Anche, tardi, il maggiordomo fu a trovarlo e gli porse,
dondolandolo per il gambo, un grappolo d'uva primaticcia con acini neri
e grossi, vellutati da una bianca nebbiolina tra altri ancora rossi ed
in agresto: egli lo divorò un momento con gli occhi, resistette e lo
respinse.
Allora il maggiordomo venne dove madonna Ginevra, che quel giorno non
cantava, ricuciva un vecchio saio, e mentre ordinava alcune cose per la
stanza, quasi fra se, il vecchio disse:
— Tornerà il padrone; ma non staremo allegri.
— Perchè? — chiese con simulata indifferenza la padrona.
Rispose l'altro: — Ugo morirà: non gli va giù neanche un granello d'uva.
Madonna Ginevra arrossì; si levò; si recò alla cameruccia del valletto.
Stava il valletto con le palpebre abbassate perchè nel languore
dell'inedia tutto ondeggiava dinanzi al suo sguardo; e aveva il
viso stanco e smorto smorto. Trasalì ai passi leggeri della dama,
riconoscendola.
— Valletto Ugo, dormi? — chiese lei dolcemente.
Egli disse:
— Per l'amor di Dio, madonna, abbiate compassione di me!
Ed essa inacerbita di nuovo da tanta ostinazione: — Da me non avrai
mai grazia nella bella maniera che domandi! È questa la tua ricompensa
al bene che il padrone ti vuole? È questa l'affezione che gli porti?
Tornerà....
— Oh se tornasse! — sospirò Ugo, insensato più che ardito.
— Tornerà e s'arrabbierà, e ti romperà le ossa!
— Ma non mangerò! — conchiuse Ugo.
La dama uscì col proposito di dire ogni cosa al marito appena fosse
giunto. Però, intanto che cuciva, ebbe timore che il marito la
rimproverasse d'aver tentata per capriccio e accarezzata in qualche
modo la folle passione del valletto; e a nascondergli la verità, non la
rimprovererebbe di non averlo sovvenuto con un medico e con medicine e
con premure? Che imbroglio! Non iscorgeva mezzo per disimpacciarsi.
Quand'ecco s'udì il corno in lontananza e uno scudiero venne ad
annunziare che il castellano arrivava in compagnia di più ospiti. «Chi
sa — riflettè madonna Ginevra — che a vedere il padrone non lo domi la
vergogna?»
Così quando nel tinello, in cui su la tavola imbandita col più ricco
vasellame fumavano le vivande, il sire chiamò Ugo, la moglie gli
disse: — È a letto da tre giorni, e non tocca cibo, per un capriccio.
Provatevi voi a rimettergli il giudizio.
Il marito volle andare a vederlo; ed essa lo seguì.
— Cos'hai? — domandò il sire entrando.
Ugo rispose: — Un peso qua, alla bocca dello stomaco, che non mi va giù
niente.
— Non è vero! — ribattè subito la dama. — Non è vero! Per il male che
ha, potrebbe mangiare, — Poi rivolta a Ugo disse: — Adesso io gli dirò
perchè digiuni da tre giorni. Mangerai?
— Voi potrete ben dire. Io non mangerò — rispose. Raccoglieva gli
spiriti a vincere, morendo, la battaglia; e il signore, cui piacque
quella risposta così franca e cui dava sospetto l'aria misteriosa della
moglie, già incolpava la moglie di qualche torto verso Ugo. Ma Ginevra
soggiunse: — Il giorno che partiste, a sera, osò entrare nella mia
camera mentre mi spogliavo.... —; onde il sire capì che il torto era
proprio del ragazzo e: — Perchè? — le domandò impaziente.
La dama invece tornò a chiedere al valletto:
— Mangerai?
Egli, che era risoluto di morire, negò ancora col capo, sospirando.
— Io mi spogliavo — proseguì la dama —, e lui venne da me, tutto
strano, a domandarmi.... Imaginate!
— Insomma! — fece il sire.
— Mangerai? — ripetè la dama per l'ultima volta. E per l'ultima
volta: — No! — ripetè forte Ugo, che teneva fissi gli occhi negli
occhi di madonna. La quale allora per dir tutto, e tuttavia a stento,
riprendeva: — Mi richiese...; — ma il marito senza più badarle, come
nella reticenza comprendesse quanto imaginava, con collera afferrò il
braccio del valletto e gridò bieco: — Cosa le chiedesti?
Ugo tacque. Da' suoi occhi traspariva una volontà virile che l'amore
rendeva ineluttabile; disperato amore, più forte della morte; tale,
che madonna Ginevra ammirandone la fermezza minacciosa insieme e
supplichevole e temendo a un punto stesso per sè e per lui l'ira del
marito che minacciava con quasi brutale veemenza, vinta dalla pietà,
dall'ammirazione e forse dall'amore (quel ragazzo ormai era un bel
giovine) concepì un'idea provvida e sagace.
— Mi chiese — rispose lei — il vostro falcone pellegrino, che non
dareste a nessuno, nè a conte, nè a principe, nè ad amico; e, per
averlo, s'è impuntato a digiunare.
Alle parole della donna il credulo marito contenne l'ira; anzi rise
e disse: — Oh! se il tuo male è questo, non voglio che tu ne muoia!
Mangia, mangia, valletto; e avrai il falcone. — Dopo, uscì.
Ma la dama prima d'andarsene si fece più presso a Ugo, che la speranza
aveva ravvivato e colorito in faccia, e disse rapida, giuliva:
— Già che il sire ti vuol contento, anch'io ti vorrò contento. — Meglio
che con le parole ella prometteva sorridendo con uno sguardo lungo e
tenero come una carezza.
Ugo, dunque, mangiò. Ed ebbe il falcone.


In Arcadia.

Rioronco, su l'Appennino, è lontano quasi trenta miglia da Bologna
e dieci dal men grosso paese, Castello. La strada che vi menava una
volta era per lungo tratto il greto del fiume Idice, e poi una carraia,
stretta fra balzi e rotta spesso da lavine, della quale non avrebbe
potuto rendersi comparativa idea neppure chi avesse vista una via di
Milano scomposta per prova di un nuovo pavimento. Ma, or è qualche
anno, fu condotta dalla costa dell'Idice una strada comunale che
passando di lassù doveva contribuire anch'essa ai fatti di questo
racconto. E lassù, dal sagrato della chiesa, il luogo è delizioso:
aperto davanti e al di sopra di colline o più basse montagne, di cui
una ha nome dall'antica Pieve, e chiuso, dietro, da monti più alti, su
cui sorgono evidenti i tozzi campanili di San Martino, di San Giorgio
e di Cignano. Fra i castagneti appaiono le case bianche; tra balze,
fratte e pioppi il rio va a cadere nell'Idice, che ai dì sereni si
distende in nitido e obliquo letto per la plaga occidentale, alla
pianura.
Di forestieri a Rioronco non capitano che i carabinieri, a quando a
quando, o, pur troppo, il cursore del comune. La scuola è distante e
fuori della strada nuova. Un giornale vecchio d'un anno, se pervenga a
chi sa leggere, è un foglio pieno di meravigliose novità.
Anche, a pochi passi dalla chiesa, un'osteria serve da spaccio
d'ogni genere; fin di sigari toscani, i quali, stagionati come sono,
mitigherebbero il più fiero nemico della «Regia Privativa.»
Ma oltre questi benefizi, e oltre i bei castagneti che, se non ci si
metta la malattia della foglia, producono assai, e le belle vigne,
che, se non le guastano malanni delle foglie e del grappolo, producono
assai; oltre la terra fertile di formentone e di meliga, il rio Rosso
ha per i più poveri qualche pesce e molti gamberi; qualche anguilla e
tanti ranocchi!
I ranocchi si prendono la notte con la «facella»; ciò e un pugno di
canne le quali, accese, bruciano adagio e alla cui fiamma quelle
curiose bestiole si destano, espongono a fior d'acqua e di fra le
alighe il capo stupefatto, e restano immote, fisse, incredule ai loro
stessi occhi, non si sa bene di che cosa. Forse scambiano quella luce
con l'aurora, o credono a qualche scientifica scoperta degli uomini; il
fatto sta, che nell'estasi sono raccolti e gettati in un sacco, dove,
al ruvido contatto della tela con le loro membra tenerelle, imparano
giù prima d'esser fritte che vantaggio ci sia in questo mondo a farsi
delle illusioni.
Quanto agli altri animali del rio Rosso — detto Rosso per le sue
sabbie bionde, ma senza traccia d'oro —, si prendono trattenendo
con una chiusa la corrente e con le pale gettando l'acqua fuori
del borrone finchè questo rimanga asciutto. Che piacere allora! Gli
uomini afferrano anguille che si appiattano nella melma e pesci che si
raccomandano a bocca aperta e muta; e i ragazzi aggrappano i gamberi,
e poi godono a vederli arrossare, retrocedendo su le bracie come eroi
che tentino uno scampo senza voltarsi indietro.
Di pernici e starne, a dir vero, non abbondano oggigiorno neanche
i boschi di Rioronco; tuttavia la cacciagione vi è meno scarsa che
in pianura; e d'inverno i ragazzi dissimulano lacci e trappole e in
primavera fan posta ai nidi con la poetica speranza d'allevarsi in
gabbia o un cardellino, o un fringuello, o un merlo. Il quale di solito
— ingozza che t'ingozzo — basisce per il troppo pane biascicato che gli
s'impartisce con troppo buon cuore.
Tutti buoni, o quasi, lassù! Non si ricorda a Rioronco un solo
omicidio: una baruffa vi è un avvenimento come un furto di pollaio;
intorno al quale di casa in casa si discorre per un mese, e del quale
non si fa denuncia poichè quasi sempre si sa da tutti in che pentole
quelle due o tre galline andarono a finire. Nè i costumi vi sono
corrotti come nei paesi dove le mamme fan la guardia alle figliole
fidanzate. Notevole soltanto, a questo proposito, è l'innocente manìa
per cui dopo sette, o otto, o talvolta nove mesi di matrimonio, i
padri cercano nel lunario e propongono alla moglie puerpera i nomi
più strambi e difficili, da storpiare barbaramente sul neonato o sulla
neonata che vanno a battezzare.

I.
Nella felice terra di Rioronco viveva ancora, pochi anni sono, un
patriarca: un alto e forte vecchio dai capelli bianchi, dalla faccia
tutta sbarbata, dall'occhio vivo, dal naso aguzzo. Senza far ridere
alcuno portava le brache corte, con le calze al ginocchio d'estate e
con le ghette d'inverno; e in famiglia poteva contare con la moglie,
vecchia meno di lui ma già imbecillita, tre figli, tre nuore, un
genero, una quindicina di nipoti, il più grande dei quali, per riparare
in qualche modo all'assenza di due cugini soldati, aveva preso moglie
anche lui, rendendo bisnonno il vecchio Carlone.
Carlon dei Carli alla Cà scura, la casa de' suoi avi, governava
tranquillamente e assolutamente come quello nella cui volontà e nelle
cui tasche trovavano regola ed equilibrio le spese della casa e le
rendite della terra coltivata da tutta la famiglia. Egli vigilava
ai lavori; parlava poco con i figlioli; era aspro con le donne,
complimentoso col curato, loquace con gli amici, terribile con i
ragazzi e buono con i bambini che, seduto nella panca sotto il moro,
elevava qualche volta a cavallo d'un ginocchio per cantarellare _trotta
trotta, cavallon_, e farli ridere.
Saldo nelle antiche costumanze, fra le altre usava sedere a capo di
tavola con gli uomini attorno e in fondo i ragazzi già pervenuti alla
prima comunione: i minori mangiavano dopo con le donne. E per la rigida
osservanza al vivere antico, e per la sua religione e per l'esperienza
dei consigli, il vecchio godeva nella parrocchia d'una supremazia che
gli aveva meritata rinomanza pure nei dintorni.
Quand'egli si assentava — ma di rado e solo per la fiera al paese o
per qualche grossa vendita in città — la Cà scura si commoveva in
un avvenimento quasi di liberazione; e degli uomini, chi scappava
all'osteria, chi dall'amorosa; mentre i ragazzi correvano a vuotar
borri nel rio Rosso, liticavano e si picchiavano; e le nuore sfogavano
le ire e le gelosie per lungo tempo contenute; sicchè il tiranno, che
partendo era stato salutato da sospiri di sollievo, tornava non solo
temuto come giudice, ma desiderato spesso come salvatore. All'annunzio:
— c'è il nonno! c'è il nonno! — la Cà scura cadeva di subito in una
quiete conventuale.
Tornava Carlone dalla città tutt'intronato, stanco, con l'oscura
e quasi atterrita coscienza della sua prossima morte, perchè in
quelle ore laggiù egli si era sentito fuori del suo tempo; e col
pensiero avvinto alle cose vedute pativa un fastidio da cui stentava
a liberarsi. Se gli affari gli erano andati a modo, si consolava alla
vista dei nipotini e borbottava: «Loro, laggiù, hanno il vapore che
ha avvelenata l'aria, ed hanno perduto il timor di Dio: dunque stiamo
meglio noi altri!» Se poi gli affari gli erano andati male, allora
lamentava: — Noi diciamo che si stava meglio una volta; e a Bologna
dicono lo stesso: che si stava meglio una volta. Dunque la gente a
questo mondo non la trovo mai piana, in nessun sito. — Ma egli era un
povero ignorante; e per più giorni faceva il cattivo in casa, quasi
temesse d'aver perduta o temesse di perdere l'autorità famigliare.
Ed ecco che a turbarlo in simile modo risparmiandogli la fatica di
viaggi alla città, ecco che ad amareggiare gli ultimi giorni del
patriarca venne lassù l'ingegner Stoia, erede d'un conte pontificio,
ch'era morto a Roma e a Rioronco non si era visto quasi mai. La strada
nuova divideva il possesso di Carlone dal possesso dell'erede: alla
massiccia Cà scura s'opponeva, nell'estimazione pubblica, il nobile
Palazzetto, di recente restaurato; alla supremazia del vecchione
minacciava di succedere la supremazia di quel signore patito e
guardingo, che i contadini dicevano cattivo come il loglio.
Invano il curato studiavasi a difendere l'intruso che gli si era dato
a conoscere per uno dei capi clericali in Bologna; invano ne esagerava
i meriti. Carlone protestava: — Oh che ha preso Rioronco per un covo di
ladri?
Infatti aveva messo le stanghe all'entrata delle carraie; tese reti
metalliche lungo la strada; piantati pali con su la scritta «bandita».
E il curato: — La moglie del signor ingegnere veste cinque bambine
per la cresima.... Il signor ingegnere ha mandata la panca per la
chiesa.... Il signor ingegnere fa questo; la signora fa quest'altro. —
Dopo il ristauro della villa, ristauravano anche il piccolo oratorio di
Sant'Anna, di fronte alla villa.... — Oh che bravo signore! che brava
signora!...
Carlone scoteva la testa: — Chi mal pensa, mal fa; chi non guarda in
faccia, non è sincero; non mi fido io di colui!
Nè tardò ad aver ragione. Al principio d'agosto, il cursore del Comune
venne alla Cà scura con tanto di carta stampata e scritta, e firmata
dal sindaco.
_A norma della legge sui lavori pubblici e dell'articolo num. 12 del
Regolamento...._ etc..., _s'intima al signor Carlo Carli il taglio,
nel suo predio denominato la Zucca, di tutti i rami di quella quercia
che impediscono la viabilità della strada comunale in Ronco..._, con
minaccia di _dar corso immediato agli atti di contravvenzione...._
etc....
Parve a Carlone di ricevere un pugno su la testa. Rosso d'ira fe'
portare da bere all'uomo; poi chiese:
— Oh perchè non han mai detto niente prima d'oggi?
— Cosa volete sappia io? — il cursore rispose.
E bevuto ch'ebbe ripetè la sentenza con cui, indifferentemente, si
difendeva dalle lagnanze, dalle minacce e dalle proteste:
— Carta canta e villan dorme. Bisogna ubbidire!
Diceva Carlone: — Ma qui su dei carri non ne passano, e la quercia non
arriva alle birocce.
— Cosa volete che vi dica io? La quercia farà ombra a qualcuno. —
Poscia, con la stima d'ogni servo per chi lo paga, il cursore aggiunse:
— Le leggi, caro voi, ci sono per tutti; ma in Comune non se ne
ricorderebbero se un qualche furbo di tanto in tanto non ci avesse
tornaconto a metterle in memoria al Sindaco e alla Giunta.
— È così! Ho capito.... Vedremo!... — brontolava il vecchio.
Il quale, appena se ne fu andato il messo, chiamò i figlioli e il cane,
li mandò a provvedere in fretta un «arrostino», quantunque fosse ancora
tempo di caccia vietata, ed egli recò la biada alla sua mula.
A cavallo, discendendo poco dopo, preparava il discorso per convincere
che la quercia non faceva danno a nessuno; e sperava evitarsi una
prepotenza e un'ingiustizia. Così sospirando brontolando e rammentando
che al tempo del Papa le strade passavano tutte in mezzo a quercie
folte, che era una delizia, giunse la sera al paese. Naturalmente, in
vista dell'arrosto, il segretario promise di interporre la sua autorità
perchè l'ordine fosse sospeso; tornasse fiducioso due o tre giorni
dopo.
E naturalmente quando Carlone de' Carli venne per la risposta, apprese
che l'arrosto era stato squisito e il sindaco irremovibile.

II.
Dunque il vecchio doveva sfrondare e diramare la bella quercia, che
rivedeva uguale nei ricordi della sua puerizia; la maestosa quercia,
alla cui ombra ristava il mendicante a mangiare il frusto di pane,
riposavano nei caldi meriggi il cacciatore e il viandante, giocavano
i ragazzi a guardia delle pecore. Per un pretesto, perchè un intruso
lassù non ne aveva una simile, bisognava lacerarla, squarciarla,
mutilarla nelle braccia la feconda, la buona quercia che dava tante
staia di ghiande ogni anno!
Col dispiacere d'imaginare le membra recise, Carlone pensava le parole
di coloro che nel transitare per la strada osserverebbero quello
strazio. Direbbero i buoni: — Che peccato! Così bella quercia! —; e i
cattivi: — Ah, ah! gliel'han fatta a Carlone della Ca' scura! — E in
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