Novelle umoristiche - 08

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d'insonnia, e paure, angustie.
A tempo dunque venivano i sospetti dell'ingegnere. Confermandolo nella
determinazione della notte, permettevano a Gaspare d'andarsene e di
ridere de' suoi terrori notturni.
Rimaneva una difficoltà. Luigi si rassegnerebbe ad abbandonar la casa
ove era invecchiato e dove il padrone era morto?
Mentre Gaspare meditava, Luigi gli venne davanti con aria meditabonda.
— Signorino, questa casa non è più per noi.
Forse anche lui aveva avuta la visione paurosa? O forse il buon uomo,
consapevole della tresca, ne temeva lui pure le conseguenze?
Gaspare non interrogò; rispose:
— Hai ragione. Cercheremo un appartamento ammobigliato.
Lo trovarono lo stesso giorno; elegante; in una delle vie principali;
a buon prezzo: in casa del cavalier Squiti.
Quanto alla signora, essa ebbe una lettera, che Bicci le gettò nel
balcone: In casa e nel vicinato tutti sapevano, spettegolavano,
malignavano, mormoravano, spiavano. Era inevitabile una tragedia
se qualche voce perveniva all'orecchio di Tredòzi. Diveniva obbligo
d'un gentiluomo, in tal caso, salvar la fama e la vita d'una signora,
allontanandosi. Oltre a ciò, per faccende d'interessi, Gaspare chiedeva
a Silvia una licenza di quindici giorni; trascorsi i quali e chetati
sospetti e ciarle, riprenderebbero i loro colloqui nella casa in cui
egli andava ad abitare, o altrove.
Piacesse o no alla signora, questo era buon senso, questa era prudenza!

VII.
Il cavalier Squiti, padrone di casa, alto impiegato della Provincia
e persona molto grave, non aveva solo la moglie. Gaspare vide, alcune
volte, alla finestra.... Che bellezza! Due occhi tra celesti e verdi;
capelli biondi; portamento modesto e gentile.... Assomigliava alla
signorina che si recava al giardino pubblico il dì mortale dello zio
Giorgio. Lei?
Forse non era; ma le assomigliava in modo che a vederla una dolcezza
grande veniva, per gli occhi, al cuore di Bicci e, insieme, un panico
quasi alla presenza di una divinità. Rapidamente, con la rapidità
del destino, egli, che dalla brutta tresca aveva avuti incitamenti
all'amore buono e al consiglio dello zio, ne rimase conquiso. Tale,
infatti, tale gli appariva la donna vagheggiata ne' sogni dai giorni
che non conosceva l'amore al dì ch'egli l'aveva conosciuto! Tale era
la donna amata e da amare: fatalmente. Bando, dunque, al peccato! Mai
più signora Silvia! Pace e salute all'ingegner Tredòzi! E a Gaspare,
certo che stavolta era la buona, gli bisognava accertarsi anche se il
cavaliere Squiti presto o tardi gli darebbe l'angelica giovinetta in
moglie.
Accadde che circa ventiquattr'ore dopo aver visto quell'angelo per la
quinta volta, Gaspare uscendo s'imbattesse appunto nel cavaliere, che
usciva; e s'accompagnassero per istrada.
Scambiati i soliti complimenti: — Ah suo zio! Che galantuomo! — esclamò
l'uno.
E l'altro: — Lo conosceva?
— Eravamo amici. Un po' originale, a dire la verità; un filosofo; ma
che cuore, che cuore! E che carattere! Uomini d'antico stampo, caro
Bicci!
— Ah sì!
— E che bene le voleva, a lei! A discorrere di suo nipote, ci godeva;
proprio come un padre.
— È strano — disse Gaspare: — di me non ne parlava mai con me.
Ma il cavaliere si fermò di botto.
— A proposito: lei, senza dubbio, suona?...
Distratto dal ricordo dello zio o dall'apparente incongruenza di
quell'_a proposito_, Bicci chiese:
— Suono?...
— Il piano?
— Sì, alla peggio.
— Anch'io suono — disse il cavalier Squiti levandosi gli occhiali,
pulendone le lenti e rinforcandoli: — non il pianoforte, però; uno
strumento più geniale — come dire? — più canoro, più.... cordiale.
— Il violoncello?
— No, il clarinetto.
Gaspare si figurò la persona grave del cavaliere col clarinetto in
bocca; e tacque.
— Creda a me: la musica è il miglior conforto nelle disgrazie — seguitò
l'altro.
— Lo credo.
— Se mi favorirà qualche volta, suoneremo.
Gaspare allora esclamò entusiasta:
— Volentierissimo!
— Stasera?... Potrebbe?
E gli occhi dello Squiti rifulgevano dietro le lenti.
— Sissignore, posso.
Ripresero la strada; e il cavaliere riprese a dire, senza più
sorridere, con tutta gravità:
— Io in casa ci avrei una pianista; ma adesso non ha tempo.
— La sua figliola? — domandò Bicci, al quale battè forte il cuore.
— Non ho figliole: la mia pupilla.
«La sua pupilla? La signorina era sotto la sua tutela?» E Bicci pensò
con nuova tenerezza: «Orfana come me!»
— La signorina Roccaforte è per me quel che era lei per suo zio. L'ebbi
in casa bambina. Il padre....
Gaspare ascoltava il racconto religiosamente, intanto che benediceva
suo zio e il clarinetto.
Poi, essendo già innamorato e con la testa nel cuore, si dimenticò di
chiedere allo Squiti perchè la signorina Roccaforte non aveva tempo di
sonare.
Nè (importa notarlo?) si ricordava più affatto della signora Silvia. Ah
la virtù di ogni amor buono su ogni amore disonesto!
Mai, mai come la sera di quel giorno il giovano Bicci si studiò di
rendersi elegante; ed entrò dagli Squiti con grandi palpiti e insieme
con la disinvoltura d'un uomo uso al mondo. Ma il cavaliere, che
scartabellava della musica, l'accolse solenne; in tono ufficiale lo
presentò alla moglie, che faceva la calza. E chiamò ad alla voce:
— Erminia!
Ella dalla finestra (aperta: era di maggio) si fece innanzi,
lentamente....
— La signorina Erminia Roccaforte — .... e voltosi a un giovane, che
la seguiva (oh Cielo!), il cavaliere presentò: — L'avvocato Enrico
Griboldi, suo promesso sposo.
— Tanto piacere.... — All'imbarazzo di Gaspare, la signorina Erminia
sorrise a pena a pena.
— A noi! — esclamò lo Squiti in un'istantanea mutazione di gioia. —
Badi che io odio la musica tedesca. Non è mai accaduto a lei, caro
Bicci, di odiare una cosa bella?
— Ah sì! — rispose Gaspare, che ora odiava la signorina Erminia.
Il primo pezzo — del _Faust_ — procedè a meraviglia, quantunque le
mani di Bicci qua e là affrettassero come un cavallo che abbia amor
proprio e cui rincresca restar addietro al compagno. Finito il pezzo,
la signora Squiti depose la calza e battè le mani; la signorina avvertì
che la gente si arrestava per la strada ad ascoltare; il cavaliere,
deposto il clarinetto, abbracciò il compagno dimenticandosi d'esser
grave.
— Oh che orecchio! che orecchio!
Ma gli altri pezzi ebbero peggior sorte, per colpa di Gaspare che
cadeva in pensieri estranei. Pensava: «Io non sono forse meglio di
colui? Si può dire un bel giovane? robusto come me? — Avvocato! —
E non sono ingegnere, io? Che meriti avrà? Niente: fortuna! Quest'è
fortuna! Una moglie bella — così bella! — ricca; e orfana...; nemmeno
la suocera!»
— Pazienza...: Terza battuta: là! — riprendeva il cavaliere.
Al diavolo anche il clarinetto! Bicci sudava: con il freddo nel cuore.
Già infelice, sembravagli d'esser stato sventurato sempre; di dover
essere infelice sempre, per tutta la vita; e pativa della più grande
sventura che possa capitare a un uomo: quella d'innamorarsi d'una
ragazza innamorata e fidanzata d'un altro.

VIII.
Assente da lei credeva che il solo contemplarla quale un'imagine di
pura bellezza o una cosa intangibile basterebbe a ristorargli l'inedia
dell'anima; e vicino, oltre il martirio del clarinetto, che pena la
vista dei fidanzati in abboccamenti, in sorrisi, in bisbigli! Era
una sconvenienza sociale! Perchè ai fidanzati dev'esser lecito dirsi
delle sciocchezze o, magari, parlar male del prossimo a bassa voce,
in cospetto del prossimo? Non avevano riguardo quei due nemmeno a una
persona giovane, che, in fin dei conti, veniva lì per far servizio al
padrone di casa!
Così il povero Gaspare, invece di contemplare, doveva torcere gli occhi
altrove; doveva dubitare che gl'innamorati ridessero di lui; doveva
resistere alla tentazione di fracassar la tastiera del pianoforte.
Se n'andava. E appena fuori, ogni sentimento d'invidia e d'ira cedeva
al desiderio del mirabile viso.
«Siamo seri! ragioniamo!» egli si ripeteva indarno. «Il meglio sarebbe
che io mi distraessi.» Ma non trovava il modo; anzi le distrazioni che
gli capitavano, gli accrescevano il desiderio d'Erminia. Gliene capitò
una, un giorno.... La signora Silvia, avendo scoperto il rifugio di
lui, vi penetrò.
— Lei.... tu!...: qua?
— Traditore! — Ella alzò il velo per mostrar meglio due occhi rabidi.
— .... col pericolo di compromettervi? — proseguì lui, trovando il tono
giusto.
— Vile!
Ma Gaspare assunse l'aria d'un uomo superiore agl'insulti; freddo,
quasi sprezzante.
— Non vi avevo chiesto quindici giorni di libertà? Ho i miei affari
anch'io; avevo, ho bisogno di tranquillità, di riposo.
— Ah Gaspare, Gaspare!
Ora gli occhi si riempirono di lagrime e fiammeggiarono; a un tempo,
lagrime di duolo e fiamma di tentazione e di colpa.
— Tu, Gaspare! Chi me l'avrebbe mai detto! Non l'hai dunque l'anima?
Dodici giorni senza passare sotto le mie finestre! Senza scrivermi
nemmeno una riga!
Il dolce rimprovero lo punse più che le offese. Deliberato tuttavia a
finirla, Bicci, che voleva finirla da gentiluomo, esclamò:
— Silvia! Debbo dirvi la verità. A me, uomo leale, rincresce offendere
un uomo leale com'è l'ingegner Tredòzi! Ecco tutto!
A quest'affermazione Silvia avvampò più che a uno schiaffo.
— Ecco tutto? Tu menti! Non avevi scrupoli prima, quando.... Tu menti!
Adesso capisco che non mi ami più!
Infatti, che cosa ha mai a che fare la coscienza con l'amore?
— .... Adesso voglio saper il resto; proprio tutto! Perchè
abbandonarmi?... Dimmene la causa vera, subito! — L'investiva,
inviperita. — Subito!
Che dirle? Rispose:
— Che volete che vi dica? Incompatibilità di carattere: voi siete piena
di fuoco; e io....
— Bugiardo! Incompatibilità di carattere non può esserci che tra marito
e moglie! La ragione vera le la dirò io! Tu hai una nuova amante!
— No; ve lo giuro.
— Spergiuro! Infame spergiuro!
Era inutile discutere quando non valeva giurare. Gaspare non aveva
ancor scosse le spalle che già Silvia gridava:
— Ah, tu credi che tutto sia finito tra noi? T'inganni! Io ti detesto,
ma io ho dei diritti su di te; fra noi due c'è un vincolo; un vincolo
morale!... — (Lo chiamava un vincolo morale!) — Tu mi hai sedotta!...
C'è il vincolo del rimorso fra noi, e se scoprirò che tu hai un'amante,
ti caverò gli occhi; a te o a lei; così imparerai a conoscere le
gentildonne!
Su l'uscio, calato il velo, si rivolse per ripetere: — Io sono una
gentildonna! — E partì, finalmente.
.... Se non che Bicci non gioì neppure della liberazione da quel giogo.
Soggiaceva perduto, affannato, disperato a un maggior peso, all'amore
fatale e contrastato dal destino. E non un amico col quale confidarsi!
Avrebbero riso gli amici: un innamorato muove sempre a riso come chi
cada goffamente in terra. Lui dove mai era caduto?
Con la testa tra le mani, negli occhi l'apparenza del suicidio, si
abbandonò e parlò al solo che lo compiangerebbe.
— Sono innamorato, Luigi.
Luigi si mise a ridere.
— Eh, lo so da un pezzo!
— Della signora? Di quella dell'altra casa? — esclamò Gaspare,
abbattuto. — Credi di quella?
— Di tutt'e due: di quella e di questa.
— No no: solo di questa qui, della signorina — egli protestò —; ed è
già impegnata!
Allora Luigi chinò lo sguardo, quasi pensasse ch'essere innamorato di
una sola fosse un malanno assai più serio. Poi disse:
— Perchè non andiamo in campagna? A mutar aria....
Il consiglio era semplice e buono; e la lontananza, gli svaghi
campestri, la caccia, il ristauro della villa potrebbero davvero
guarirlo. Alla fin fine, non sarebbe una corbelleria morir d'amore?

IX.
Una corbelleria senza dubbio. Ma intanto che passava il tempo, la
cotta permaneva. La passione del nipote diveniva una passione più
grave, più affannosa forse che quella del povero zio! Perchè se Erminia
fosse morta dopo avere amato lui, com'era accaduto allo zio, meno
male! Erminia invece non lo amerebbe mai: Erminia amerebbe sempre
quell'altro! E Gaspare era innamorato in modo che quando, in certi
momenti, credeva d'esser guarito e si rallegrava tutto, ecco d'un
tratto tornargli la parvenza cara e nemica, e con essa quella pena al
cuore come di un male che, dopo un breve assopimento, rincrudisce;
un'amarezza quale di torto ricevuto o di oltraggio patito; una
intollerabile smania di rivedere in realtà l'amata donna; una rodente
gelosia. Oramai egli non si diceva neppur più uno stupido, convinto
sempre più che Erminia era per lui la donna unica; che lei, proprio
lei aveva incontrato al passeggio nel giorno funesto; che altre bionde
così belle o più belle ne potevano esistere, ma che egli non avrebbe
potuto amarle; che, quasi quasi, l'amore è più forte del buonsenso.
Essendo perciò impossibile la guarigione e assurda ogni speranza, Bicci
aspettava il compimento del suo destino, qualunque si fosse. E compieva
frattanto il ristauro della villa; il quale era proceduto a meraviglia.
Appunto la mattina di quel memorabile giorno — 26 luglio — egli se
ne stava tra gli operai allorchè Luigi gli portò la posta. C'era, coi
giornali, un annuncio di morte. A Gaspare — sempre triste — parve di
veder l'annuncio della sua morte; ma, aperto il foglio e letto il nome
— oh! — rimase lì stordito, sbalordito, e non di dolore. Oh gioia! A
precipizio, come pazzo, discese e corse dietro a Luigi.
Dentro, una voce gli gridava: «jettatore! jettatore!»; eppure un'onda
di gaudio gli travolgeva ogni pensiero; gli travolse ogni sentimento
umano; e, in un abbraccio all'amico servo, con lagrime ferme su gli
zigomi — lagrime di felicità — gridò:
— È morto!
— Chi?
— L'avvocato Enrico Griboldi!
*
Ebbene: tosto che gli fu scemata la grande commozione, Gaspare,
con moto quasi inconscio dell'animo, riuscì a conciliare l'amore al
buonsenso.
Riflettè che per una ragazza il perdere un «ottimo partito», non in
colpa sua, sì della morte, giova di _réclame_: e che egli, se non
fosse se cauto, poteva restar privo d'Erminia un'altra volta. «D'altra
parte — riflettè — si consola più presto una vedova propriamente detta
che una fanciulla vedovata prima del tempo ed inesperta»; e però gli
bisognerebbe aspettare.
— Quanti mesi?
Gaspare non temeva d'offendere la bontà di Erminia augurandone più
breve che fosse possibile il cordoglio.

E verso la metà di settembre Gaspare fu a trovare in ufficio il
cavalier Squiti; che, desolatissimo, gli disse:
— _Morte fura i migliori e lascia stare i rei._
Rimorso come reo, Gaspare parlò sinceramente, in un'induzione dal caso
singolare a un genere di sventura.
— Ha ragione, signor cavaliere. Che cosa terribile dev'essere morire
nella pienezza della gioventù! con uno splendido avvenire! amato!...
— Per fortuna — rispose il cavaliere, — Griboldi è morto senza saperlo,
d'una meningite acuta!
— Meno male! — fece Bicci. Dopo chiese, pallido: — E la signorina?
L'altro scosse il capo.
— Sempre lagrime; sempre sospiri; non vuol più veder nessuno; non esce
di casa: un martirio! Le è venuto a noia anche il clarinetto. anche la
musica, che è il miglior conforto nelle disgrazie.
«Aspettiamo», si ripetè Gaspare. Infatti non tornò ad abitare a Bologna
che al termine dell'ottobre.
Ah che battaglia, la prima visita! Dirle: — Mi condolgo — oppure: —
Signorina, le mie condoglianze — gli repugnava; non poteva. Egli salutò
e tacque, senza sospirare; Erminia tacque, volgendo gli occhi a terra;
la signora Squiti sospirò e taceva. Finalmente — poichè il silenzio si
prolungava un po' troppo — Bicci ebbe una espressione felice: — Povero
giovane!
Allora la signorina scoppiò in singhiozzi e la signora intraprese
l'elogio del morto. Annuiva Gaspare ad ogni lode, e gli costava così
poco!; ma spesso gli occhi gli sfuggivano a guardar la dolente; e
pensava: «O il dolore è per le donne, o le donne sono per il dolore:
diventano più belle!»
Quella visita, insomma, fece bene a tutti e tre; di guisa che la
Squiti, accompagnandolo sino alla porta, gli susurrò:
— Lei abita in casa nostra; lei è un amico di casa, e la sua compagnia
ci sarà di sollievo. Se ne ricordi.
— Non dubiti, signora.
Gaspare non chiedeva di meglio. Non di rado però nelle seguenti visite
quotidiane, non volendo mentire o mentir troppo, fu per smarrire la
bussola. Poco giovava che la signora Squiti s'appigliasse a tutti gli
argomenti, se tutti i discorsi cadevano nel muto affanno d'Erminia.
Come Dio volle, egli ebbe un'idea.
— Perchè non si prova a leggere, signorina?
— Non posso; no; è impossibile!
— E se leggessi io?
— Anzi! — disse la signora Squiti; — distrarrà anche me. Bravo, signor
Bicci!
E Gaspare andò a leggere ogni giorno.
Dava tempo al tempo. Venne il dicembre; si avvicinarono le feste
natalizie. «Quanto saranno tristi per lei! — Bicci pensava. — Non la
conforterebbe sapere che io l'amo, anche se lei, per adesso, non abbia
voglia di far all'amore?»
Còlto quindi un momento che la signora Squiti non v'era, egli
interruppe una lettura per guardare Erminia negli occhi. I quali si
abbassarono; subito il bel volto si afflisse. Non era un'esagerazione,
oramai? Un po' troppo, via!...
— Come lo ha amato! — esclamò Bicci perdendo la bussola.
— No — Erminia rispose in modo semplice e in tono tranquillo.
Ora parve a Gaspare di cader dalle nuvole.
E lei:
— Io gli volevo molto bene.
E poichè Gaspare non capiva, ella si spiegò:
— A me sembra che _amare_ significhi più e meno di _voler bene_. A
Enrico io gli volevo bene, perchè egli mi amava; ma sono certa che
divenuto mio marito mi avrebbe anche voluto bene. Capisce?
Gaspare avrebbe capito subito, se non fosse rimasto perplesso a
chiedersi: «E io che cosa dovrei dirle? Che l'_amo_, o che le _voglio
bene_?» Tuttavia, a poco a poco, la luce si fece nel suo cervello.
Evidentemente, pur volendo bene assai al Griboldi, Erminia non ne era
molto innamorata. Perbacco!... Quasi spinto da una molla allora balzò
in piedi:
— Signorina! Questo ufficio di consolatore mi è odioso!
Ella interrogava con lo sguardo, stupita.
— L'amo! Io l'amava due giorni prima di sapere che lei era fidanzata;
forse l'amavo avanti di conoscerla! Io l'amai solo a vederla, un giorno
che lei andava al giardino; e adesso che la vedo soffrire, l'amo e le
voglio bene!
La signorina, fredda, rispose:
— Me ne dispiace per due ragioni: la prima, perchè adesso il mio cuore
è di pietra; la seconda, perchè, dopo quello che lei mi ha detto, io
debbo pregarla di cessare le sue visite.
— Oh questo poi no! — esclamò risolutamente Gaspare. — Io non vivo
senza vederla! Muoio anch'io! Mi conceda la grazia che io la veda ogni
giorno....
Ella taceva.
— Signorina....
Gli occhi a terra; e zitta.
— Me la fa la grazia? — ripetè Gaspare a mani giunte, attendendo.
Per fortuna, nell'entrare, la signora Squiti s'arrestò, trattenuta da
un improvviso sospetto; così Erminia dovè concedere due grazie in una
volta.
— Sì. — E alla signora Squiti: — Il cavaliere — ella disse — può
riprendere il clarinetto.

X.
Quando alla signorina Erminia non mancava che un mese per compiere
l'anno di lutto, Gaspare Bicci ne chiese la mano al tutore cavalier
Squiti. Non si meravigliò il tutore, ma assunse nella risposta
un'apparenza anche più solenne della solita.
— Il padre della signorina affidata alle mie cure mi lasciò l'obbligo
di non concederla in moglie a chi non esercitasse una professione;
fosse anche milionario. Lei....
— Io sono ingegnere! — affermò Bicci con l'impeto di un naufrago che si
salva.
— Dunque eserciti!
Ma come? ma dove? Gaspare smarrì l'animo di nuovo ricordando e
avvertendo che erano brutti tempi, quelli, per gl'ingegneri.
Allora lo Squiti: — È indetto un concorso al Genio Civile. Perchè non
concorre? La raccomanderò io a due deputati miei amici e otterremo ciò
che vorremo.
Fu buono il consiglio; e Gaspare concorse; e attese confidando. Un mese
passò; ne passaron due, tre. Ma non se ne doleva egli, che impaziente,
fuor che un po' nell'amore, non era stato mai, e che giudicava non
perduto il tempo del fare all'amore.
Provava, intanto, una gran voglia di lavorare; scopriva in sè una
naturale disposizione a valutar terre, a costruire case e ponti, a
tracciar strade, a riparar fiumi.... Ed ecco, dopo soli tre mesi e
mezzo, cioè abbastanza presto, venir la notizia del concorso. Per
i suoi giusti meriti Bicci era riuscito fra i primi. Si comprende
dopo ciò che per quelle tali raccomandazioni non gli doveva riuscir
difficile nemmeno l'ottenere il posto desiderato alla sede di Bologna.
*
E non con altro sentimento che una trepidazione di gioia, al giorno
e all'ora prefissi, Gaspare Bicci entrò all'ufficio, su, in Palazzo
Comunale. Ma ahi! con una trepidazione diversa guardò all'ingegner
capo. Misericordia!
Quegli stava scrivendo; e mentre scriveva, aggrottate le ciglia, immoto
il viso ferino, senza guardare, chiese:
— Lei è il signor Bizzi?
— Nossignore: Bicci.
— Uhm! Cominciamo male! — grugnì l'altro. Aggiunse: — Il decreto dice
Bizzi. — Però, nell'atto dell'alzar gli occhi, dovè ammettere un errore
nel decreto; giacchè fece una smorfia di meraviglia.
— Oh bella! Il nipote del signor Giorgio!
Misericordia! L'ingegner capo era....
Balbettò Gaspare:
— Sissignore, sono io —; quantunque, a dir vero, fosse divenuto
irriconoscibile a riconoscere colui: Tredòzi!
— Bene! Son contento! Suo zio era un bravomo.
— Cercherò....
— Benone! Venga di qua.
Lo condusse nella camera attigua, in cui altri due giovani scrivevano
o disegnavano; e prese alcune carte.
— Oggi mi bisognerebbe questo, e questo.... Alle quattro vedremo che
cosa avrà saputo farmi.
— Non son cose difficili. — disse Bicci.
— Benissimo! E prima d'andarsene Tredòzi lo battè con la mano su la
spalla:
— Gran bravomo suo zio!
Dopo un poco uno dei giovani colleghi si volse a Gaspare:
— Fortunato lei!
E il compagno:
— È il primo che quel cane non tratta da cane.
Se non che anche di così innocente fortuna, dovuta in gran parte a
una virtù o memoria famigliare, Gaspare ebbe a dolersi presto: alle
quattro; allorchè tornò l'ingegner capo.
Il quale, esaminata l'opera di lui, disse: — Benone! —; disapprovò
l'opera degli altri due; poi, appena costoro furono usciti, ordinò a
Gaspare:
— Lei oggi verrà a desinare da me.
— Impossibile!
A quella decisa risposta sparì dal viso di Tredòzi ogni impronta di
umanità.
— Tenga a mente che per me non c'è nulla d'impossibile, mai!
— Ma...; ecco....
— Che cosa.... ecco?
— Io sono fidanzato....
— Benone! No! malissimo!
— .... e per stasera ho promesso....
— Meglio! Cominci dal mancar lei alle promesse; l'avvezzi per tempo, la
sposa. Crede che sua moglie un giorno manterrà tutte le promesse che le
fa ora?
Fu inutile resistere.
Ma se quell'uomo, ch'egli aveva rispettato e compianto troppo tardi,
fingeva, lo traeva in un'insidia?
— Senza complimenti, s'intende — disse quell'uomo — perchè io sono alla
buona: leale, sincero, schietto come suo zio e come sarà lei.
Respiro! L'insidia pareva proprio da escludere. Nondimeno non era
una disgrazia anche questa? correr pericolo che Silvia, in uno scatto
d'amore o d'odio, si compromettesse e lo compromettesse? E in tal caso
che accadrebbe, buon Dio?
Nulla accadde. Silvia, invece, fu mirabile; lieta a conoscere di
persona il nipote del signor Giorgio, che (già!) conosceva solo
di vista.... Non un discorso in cui ella s'imbarazzasse, o che
imbarazzasse. Benissimo! E Gaspare, a tanta disinvoltura e sicurezza di
spirito, si convinse d'essere un giovane spiritoso e disinvolto.
Ma a tavola, al secondo piatto, l'ingegnere uscì a dire — e aveva uno
sguardo torvo:
— Sai che questo disgraziato prende moglie?
Passò, negli occhi di Silvia un lampo; per il quale Gaspare rabbrividì.
Invece ella, dopo, sorrideva.
— Davvero? Me ne congratulo!
— E io me ne dolgo! — ribattè il marito. — Io lo compiango! Una
corbelleria! uno sproposito! un delitto che, se suo zio fosse al mondo,
non commetterebbe!
Rispose Gaspare: — Tutt'altro! Me lo consigliò lui, quand'era
moribondo....
— Ah sì? Ciò prova che quando si è moribondi si ha perduta la testa!
Intanto Silvia esortava Gaspare:
— Non gli badi. Scherza.
— Eh! — proseguì Tredòzi —; se Bicci stesse per annegare e io gli
allungassi una mano, ci si attaccherebbe; ma perchè lo consiglio di
annegarsi piuttosto che dar retta alle donne, sta pur sicura che darà
retta a te!
— Tredòzi!
Imperterrito il marito proseguì:
— Pensare che io cederei fino mia moglie!
— Tredòzi! Tu mi offendi! — gridò la signora Silvia rossa in viso, in
atto d'alzarsi. Ma Tredòzi non si scompose.
— Non offendo nessuno. Confronto il bene della libertà individuale al
vincolo del matrimonio e dico che se debbo augurare a Bicci la minor
sventura possibile, gli auguro la fortuna che ho avuta io.
— Grazie! — scappò detto a Gaspare.
Per fortuna la signora Silvia introdusse un altro discorso, e
l'ingegnere, il quale perdeva l'argomento preferito, si quietò e
riparlò solo tardi, ad annunciare che usciva per i sigari.
L'ora della cavata d'occhi era giunta. «Ci siamo!» riflettè Gaspare.
— Dunque è vero? — chiese, sorridente, la signora.
— Capirete.... Ho ventiquattr'anni.... Oh! Ella non si turbava.
— Ammògliati pure: una moglie non è un'amante; e io non ne sono gelosa.
Per gratitudine, Gaspare quasi quasi l'avrebbe baciata. Ma non c'era da
fidarsi ch'essa interpretasse giustamente la ragione di quel bacio.
— Ed è bionda, o bruna?
— Bionda.
— Ho piacere; tanto piacere!... Quanti anni ha?
— Diciannove.
— Una bambina! Tanto, tanto piacere!
Si vedeva che gioiva. Credeva forse che d'una bionda si stancherebbe,
presto? E volle le narrasse la vera storia dell'innamoramento; a che
egli accondiscese con qualche ripiego d'innocenti bugie, nella maniera
di tutti gli autobiografi. Infine la signora chiese:
— Perchè, caro Gaspare, se non ci è più lecito amarci, non possiamo
volerci bene?
La distinzione d'Erminia!
— .... e non restiamo amici?
— Anzi amicissimi! — esclamò l'ingenuo, lieto, salvo. S'imaginava
d'esser salvo da ogni castigo.
....Quando fu di ritorno, Tredòzi guardò all'orologio e parlò
pacatamente:
— Se il far la corte a mia moglie bastasse, caro Bicci, per mandare a
monte il suo matrimonio, la pregherei di restar qui sino a mezzanotte;
ma non avendo questa speranza, l'avverto che sono le dieci, e andiamo
a letto.

XI.
Come certe cose procedono sempre a un modo per tutti, non è da far
meraviglia che anche per Gaspare ed Erminia le nozze, il viaggio di
nozze e il resto, tutto procedesse bene. Ma per Erminia e Gaspare la
luna di miele sarebbe durata Dio sa quanto, se Dio non avesse permesso
a una cattiva donna d'intorbidarne il dolce chiarore; di provare quel
che possa l'odio di una donna e a che perfidia la sospinga la vendetta.
Fu così: l'ingegner capo, quando Bicci tornò all'ufficio, riebbe ore
di umor buono; durante una delle quali disse a lui, il solo benvisto
subalterno: — Silvia desidera fare la conoscenza della sua signora.
Contentiamola. Tanto, da mia moglie sua moglie non imparerà nulla che
già non abbia imparato.
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