Novelle umoristiche - 03

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sorprende il capufficio?... Ecco, ecco: lo sorprende, lo sgrida!...»
— E accadde che un giorno Gustavo si sforzasse a contener l'ira a cui
l'aveva acceso il capufficio, perchè la Gigia lo quetasse e l'esortasse
a non infrangere mai più, per amor suo, alcuna regola; ed accadde che
con la mite cattiveria delle ragazze ingenue e buone la Gigia un giorno
raccontasse a Gustavo:
— Oggi, sai, mi sono affacciata un momento alla finestra, e passava un
bel giovinotto.... — Per gioco si bisticciavano, talora, quei figlioli:
e la mamma li lasciava fare guatandoli felice.
Non mancavano tuttavia i gravi pensieri; le spese per allestire
la nuova casa. A provvederla di solo quanto era necessario, e non
superfluo, non sarebbero bastati a Terpalli i risparmi di due anni,
se la mamma non gli fosse venuta in soccorso con tutto il suo avere;
e per le cose superflue — di assoluta necessità, una volta provviste
le altre — lasciarono l'incarico al caso nella consuetudine dei doni
nuziali. Uno specchio per il salotto; una lampada da appendere, o due
candelabri; uno o due vasi giapponesi, di quelli in cui si gettano,
sparsi, fiori e penne; un bell'«album» da ritratti e un cofano, alla
moda, per i biglietti, eran tutte cose che premevano. Seguivano,
soltanto desiderabili, sei posate in luogo di quelle comuni ereditate
dalla mamma; e forse d'un «servizio da caffè» non avrebbero potuto
fare a meno neppure se Gustavo non si fosse imbattuto in quell'ipocrita
dello zio Tarabusi.

II.
Questi, subito, quasi avesse fretta di levarsi un peso d'addosso, mandò
un «servizio» di sei tazze, poh! abbastanza fine: Ginori di seconda
qualità.
— Di terza, di terza! — mormorò la mamma, meno paga e sempre astiosa
con l'ipocrita e avaro donatore. Ma — A caval donato.... — aggiungeva
per suo stesso conforto.
Quanto agli altri regali desiderati e attesi: nessuno; e quale rabbia
allorchè una prozia e una cugina, su la cui intelligenza s'era fatto
assegnamento, inviarono la prima un ombrello di raso paonazzo e
la seconda un astuccio per guanti! Stupide! La Gigia era forse una
donna più da passeggio che da casa? Chi regalerebbe ora il cofano, i
candelabri o il lume, lo specchio e l'album? Forse la zia paterna,
ch'era ricca assai, manderebbe alla sposa le posate? Forse lo zio
paterno manderebbe i vasi giapponesi?
.... — Vostro zio? — domandava Terpalli ogni volta che rincasava,
facendo quattro gradini alla volta.
Sì! Lo zio materno — a loro che avevano rinunciato al viaggio di nozze
— regalò.... una borsa da viaggio!
.... — La zia?
Un monile bello, assai bello, regalò la zia; ma la Gigia avrebbe
preferita qualche cosa di più utile sebbene di minor prezzo; avrebbe
preferito restar disadorna lei a lasciar il salotto disadorno, nudo.
Nè le amiche poterono far molto: un libro da messa; una scatola di
profumi; cinque metri di pizzo; un cuscino da sofà; un portafogli
ricamato all'antica....
Quand'ecco, alla vigilia del gran giorno, la mamma su la scala
venne incontro a Terpalli più che desolata, irosa e sbuffante. Una
combinazione incredibile! La signora Tecla, antica loro conoscente,
memore d'aver visto nascere la Gigia, aveva pensato a un regaluccio:
e aveva pensato proprio a.... un «servizio da caffè»! A guardare la
faccia della mamma mentre diceva: — Eh! che ne dite? —, Gustavo credè
leggervi come un'accusa di complicità sua col caso; e provò tal pena
a veder lagrimosa la Gigia mentre essa diceva: — Si può essere più
disgraziati? — che si sforzò a ridere, da uomo di spirito.
— Faremo così: quello di mio zio — disse — l'useremo per romperlo; e
quello della signora Tecla lo metteremo nel salotto per conservarlo.
— Già: sulla tavola, con l'ombrello aperto! e, sotto, la borsa, il
libro da messa, la scatola di profumi e il cuscino! Che bel salotto! —
esclamò la Gigia.
Propose Gustavo:
— Perchè non avvertire la signora Tecla? Potrebbe ottenere qualche cosa
in cambio, dal negoziante.
— Oh io non m'attento! — borbottò la mamma.
E la figliola:
— Nemmeno io!
— Dunque si tiene il secondo «servizio» e si ringrazia! — disse
Terpalli, al quale rincrebbero il broncio della vecchia e l'ironia
della sposa.
— Lo butterei dalla finestra! — esclamò la Gigia, alla quale per contro
rincresceva l'indifferenza ostentata dallo sposo.
— Ma la colpa è vostra! — esclamò la mamma, che il riso del genero
aveva inviperita.
— Che colpa?
La vecchia tacque; poi sospirò e borbottò:
— E siete senza parenti; non avete che quell'avaro gesuita!
— Colpa mia? — Gustavo dimandava. — Colpa mia? — ripeteva.
Presentendo il litigio, la ragazza pregò:
— Zitti! basta!
— Se non ho parenti, ho degli amici — asserì lo sposo. — Ho i colleghi!
Allora la signora Clotilde si mise a ridere lei.
— I colleghi? Un mazzo di fiori e tanti saluti! Un _bouquet_, come
daranno i vostri testimoni; e ciao!
— E il conte? Perchè è in viaggio credete si dimentichi?... Mi vuol
bene, lui!
Terpalli l'aveva ricordato per il colpo finale.
Il signor conte non solo non si dimenticherebbe, ma spedirebbe o le
posate o lo specchio.
— Vedrete!
Questa la sua fede.
— Il conte? — ribattè la mamma rivelandosi del tutto suocera. — Neanche
un biglietto vi manda! Ci scommetto!
— Forse sì e forse no.
— Oh che pretendereste da lui? Cosa può regalare a un impiegato
così.... modesto come voi?
— Il lume! — rispose in modo di canzonatura Gustavo.
Frattanto la Gigia pregava:
— Smettetela; finitela....
— Il lume dovevate chiederlo a quel tanghero; e adesso non avreste due
servizi da caffè!
— Ma sono un profeta, io? — urlò Terpalli.
— Profeta, no; timido, sì.
.... — Mamma! Gustavo!
— Timido?
— Timidissimo! Avete avuto paura d'obbligarvi troppo con vostro zio, e
gli avete domandato quel che costa meno!
— Sissignora! E ho fatto uno sforzo a domandare anche così poco!
— Ma Dio vi ha castigato! Chi non si aiuta..., mio marito lo diceva
sempre, muore senza aver goduta una zuppa calda!
— Mio marito; — grugniva Gustavo senza attendere alla Gigia che lo
tirava per la giacca. — Sempre «mio marito»! Lui, lui sapeva stare al
mondo!
— Ah, meglio di voi, signorino!
— Infatti....
.... E la Gigia scoppiò in pianto. E lo sposo afferrò il cappello, e
scappò via.
— Gustavo! Gustavo!
— Mio marito era un uomo! — la suocera gli gridava dietro. — Si può dir
forte: era un uomo lui! Se fu disgraziato....
Insomma, la buona donna aveva bisogno di sfogare un gran malumore; e la
buona figliola ebbe ragione di gemere:
— Il cuore me lo diceva che eravamo troppo felici!

III.
ALLA CITTÀ DI PARIGI.
GRANDE ASSORTIMENTO DI OROLOGI E SVEGLIE.
NOVITÀ IN OGNI GENERE.
BIJOUTERIA — CHINCAGLIERIA — ARGENTO CHRISTOFLE.
REVOLVERS E FUCILI.
EMPORIUM PER REGALI — GIOCATTOLI.
Il commesso s'inchinò ai tre signori, che entrando l'uno dopo l'altro
gettarono uno sguardo intorno, come per sorprendere un oggetto e
riposarvi il pensiero incerto; quindi, dopo i tre inchini, chiese:
— Desiderano?
— Un regalo per nozze.
— S'accomodino. Ne abbiamo di tutte le sorta.
Infatti troppe cose attiravan l'occhio là dentro.
Per di più, Bonariva, Sandri e Guizzi, quantunque d'accordo a spendere
poco in cosa che desse apparenza di molta spesa, erano discordi nel
dono da scegliere.
— Se prendessimo.... un tavolino da lavoro, per la sposa? — suggerì
primo Bonariva; quantunque poco lieto lui stesso della proposta.
— Ti pare? — esclamò Sandri. — Tocca farli ai parenti cotesti regali da
buona famiglia! Tocca alle amiche della sposa.
— Piuttosto due vasi — proponeva Guizzi.
— Vasi di vero Giappone, o d'imitazione tedesca.... Da trecento lire a
quindici. Vedano.... — Così dicendo il commesso accennava a quelli da
trecento lire.
— Ce ne mostri da venti — rispose Guizzi, intanto che Bonariva
disapprovava col capo.
— Belli, eh? Mi piacciono. — Piacevano anche a Sandri, e costavano poco.
— Osservo — disse Bonariva — che i vasi sono pericolosi....
— Già, se vanno in terra....
— No, non per questo! Chi non sa che cosa regalare, regala due vasi,
sempre: c'è il pericolo d'una combinazione.
Nè Sandri poteva dargli torto. Guizzi allora mutò consiglio.
— Prendiamo uno specchio.
— Peggio! Credi che non l'abbiano uno specchio?
— Ma bello; per il salotto.
— Che! Non son gente da salotto!
— Veramente sarebbe meglio conciliare il bello con l'utile — mormorava
Sandri.
E a lui il commesso:
— Un _nécessaire_ da viaggio?... Un _lavabo_?
— No, no. — Bonariva insisteva per qualche cosa di più utile e di meno
comune.
— Un astuccio per guanti? un cofanetto? Sono di moda; servono a tanti
usi! Guardino questo: dorato a fuoco. Resterà tale e quale cent'anni.
— Perchè no? — Guizzi quasi quasi.... Ma Bonariva scoteva il capo.
— Costa? — domandò Sandri.
— Ottanta lire!
— Ahi!
— Un calamaio?... un portafogli?... un fermacarte? un portabiglietti?
— Io torno alla mia prima idea — Sandri disse —: un bell'album con i
nostri ritratti....
— È pericoloso! Potrebbe indur la sposa in tentazione — fece Bonariva,
mentre Guizzi, per gusto suo, maneggiava e considerava un bastone dal
pomo cesellato, e diceva:
— Vuoi che non l'abbiano un album?
— Eppoi, io non l'ho neanche il ritratto! — aggiunse Bonariva.
Quand'ecco, a sollevare o a distrarre la pazienza del commesso, entrò
una signora. I tre rimasero così a guardarsi in viso, con un'aria di
tacito e vicendevole rimprovero; finchè uno chiese a un secondo giovane
del negozio:
— Cos'è quell'affare là, di vetro?
— Un portafiori in cristallo di Boemia: stupendo! Se vuole....
— No, no! È troppo bello!
Guizzi adesso mormorava:
— Non abbiamo pensato a un ventaglio.... — Quasi a sì bella idea fosse
possibile il consenso degli amici!
— Ohibò!...
— Si regalano alle signore che non si maritano, i ventagli!
— Dunque?
Parlava il giovine:
— Scusino.... Vogliono fare un dono cumulativo?
— Cioè?
Ah, l'aveva avuta lui l'idea buona!
— Dodici posate d'argento Christofle...?
— Troppo, troppo!
— Sei, allora....
— Poco: troppo poco!
— Poi le avranno già le posate! — Sandri ripeteva.
Proseguiva il commesso:
— Oggetti di _toilette_? Candelabri?...
— Un lume! — esclamò Bonariva alla fine, contento. Se non che Guizzi si
mise a ridere.
— Un lume! Gli amici che mandano il lume! — E al commesso che
proponeva: — Un orologio? una _sveglia_? —, rispose: — Da _sveglia_
farà la sposa: non dubiti!
Così fu eccitato il riso anche in Bonariva, che quando cominciava non
la smetteva più. Disse Bonariva:
— Prendiamo un organetto, o un'armonica per calmare la signora dopo la
luna di miele!
A che Guizzi:
— Sarebbe meglio un revolver!
Ma Sandri, avendo moglie, ammonì con un'occhiata i colleghi ad essere
seri. Anche, li rimproverò:
— Se aveste dato retta a me e avessimo chiesto allo sposo che cosa
gradirebbe....
Perchè non sapevano proprio che cosa scegliere.

IV.
Impazienza, ira e litigi promuovono le piccole sventure; non le grandi,
le quali abbattono quanti ne sono colpiti in un pietoso filantropico
accordo.
— Che volete farci? — mormorava la signora Clotilde dinanzi al terzo
«servizio da caffè» e alla muta desolazione dei fidanzati. — Buon viso
a cattiva fortuna, figlioli!
Disse finalmente Gustavo:
— Dimani bisognerà ridere; ingoiare la rabbia; fingere che niente sia;
se no, ci metteranno su le ventole!
— Sarà bene avvertirli prima, gl'invitati, perchè si meraviglino meno
— disse la Gigia, finalmente.
Non era possibile, infatti, nascondere i due primi servizi, il donatore
e la donatrice essendo invitati alla colazione; e non volendosi
sottrarre il terzo, quello dei colleghi, che appariva, al confronto,
magnifico. Per suprema ironia era magnifico!
Nè il domani mattina alla funzione nuziale, in chiesa prima e dopo
al municipio, fu alcuno che al vedere la sposa un po' turbata, un po'
troppo smorta, non ne ammirasse la commozione del solenne ufficio che
si compieva, il verginale panico per il solenne sacrificio a cui era
condotta, il trepido cuore per l'amore che la beava: nessuno ci fu che
pensasse a un estraneo disturbo di tanta felicità. La poverina aveva,
insistente, la visione d'un collegio di chicchere vigilate da matrone,
che erano le caffettiere e le zuccheriere. Quanto allo sposo, avanti
di arrivare a casa, rivelò a un testimonio una sola causa di cruccio:
l'ingratitudine del conte.
— Nemmeno un biglietto! E son dieci anni che lavoro per lui senza
aumento di stipendio!
— Pensate — aggiungeva — che ogni volta che capitava in ufficio era
sempre lì a dirmi: «Terpallino.... Gustavino....: quando la facciamo la
corbelleria?»
— Dov'è adesso? — chiese uno.
— A Firenze col maestro di casa, che mi promise di rinfrescargli la
memoria.... Ma sì!...
Esclamò uno dei testimoni, che era socialista: — Tutti uguali i nobili!
— L'altro, moderato, tacque.
Avanti d'entrare in casa, Terpalli s'arrestò dicendo:
— Ora vedrete i tre «servizi»!
Tanta serenità e disinvoltura indussero tutti a ridere: anche la
sposa e la mamma; anche gli invitati che attendevano, e quelli che
sopraggiunsero; toltane, s'intende, la vecchia amica signora Tecla, a
cui il suo servizio sembrava il più brutto dei tre, e s'arrovellava a
valutare gli altri due.
— Che caso! — Oh che caso!
— Sono casi però che fanno rabbia — disse lo zio materno.
— Son brutti scherzi del destino! — esclamò un secondo. — Una cosa
che non si crederebbe! — borbottava un terzo; di guisa che l'ilarità
diveniva compianto sincero nell'attesa della colazione.
— A tavola! a tavola! — chiamò la mamma.
— Chi manca?
Mancava lo zio di Gustavo. Ma lindo, nitido, sorridente, senza peli,
con una impressione di maschera benevola su la faccia tonda, eccolo, lo
zio Tarabusi.
— Fortunato!... felice!... Stieno comodi — rispondeva alle
presentazioni, dopo aver baciata su la fronte la sposa, la «cara
figliola» — Oh caro: oh! carissimo! — diceva a quelli che conosceva. —
Tanto, tanto piacere! — ripeteva alle nuove conoscenze.... Finchè diede
una sbirciatina alla tavola dei regali. — To'! quante chicchere! Pare
un reggimento di fanteria....
— Eh, zio: che ne dice? — Raccontavano la storia.
— Oh bella! bellissima!... Ma se io avessi potuto prevedere.... Oh
senti — aggiunse con quella sua bocca melliflua, traendo a sè lo sposo.
Quindi a bassa voce: — Sai? debbo partire...: alle dieci e trenta per
Modena....
— Come?
Più piano:
— Eh!... Bella figura m'hai fatta fare!...
— Ma..., zio....
— Dovevi avvertirmi...; tuo dovere.... I confronti sono odiosi.
— Creda....
— Dovevi avvertirmi!
Ogni preghiera fu inutile. Tornò mellifluo tra gli altri.
— Dicevo qui, a Gustavo, che non posso trattenermi.... Mi scusino....
Debbo partire.... per Modena: alle dieci e trenta. Mi scuseranno tutti
questi signori....
— Rimanga, zio!
— Resti, signor Tarabusi!
— Diavolo!..., signor Tarabusi!
.... — Non posso, davvero.... Sposina, i miei auguri!
— Due confetti, zio....
— Grazie....
— Il caffè, zio? Un goccio di caffè, almeno...? Offrire il caffè a lui
(in quale delle chicchere?) sarebbe stato un grave insulto, se lo zio
non avesse compatito il nipote come uno che avendo preso moglie aveva
perduta la testa, e se Gustavo non si fosse corretto subito:
— Un _cognac_, almeno...?
— Bevo di rado _cognac_... Grazie.... Un'altra volta, caro. Addio!
riverisco! addio! Stiano bene.... tutti! — E con un nuovo inchino e un:
— Evviva gli sposi! — quel Tarabusi se ne andò.
.... La colazione nondimeno procedè benissimo. Vini e liquori
dissiparono ogni ombra dall'anima della sposa, rapirono allo sposo il
ricordo dello zio e dell'ingrato conte; avvivaron giocondità e malizia
nelle giovani donne; suggerirono motti agli uomini, e bei racconti.
Quando, d'improvviso, squillò il campanello. Chi mai?
Alla Gigia era sobbalzato il cuore. E Gustavo correva alla porta
gridando:
— Il conte! — Un telegramma forse?..., o il regalo?... — Il conte!...
— Il conte.... senza dubbio!
— Oooh!... — fecero tutti, vòlti al facchino dell'agenzia che veniva a
deporre una cassetta.
— Viva il conte! — Su la cassetta era scritto _fragile_; la sposa vi
teneva lo sguardo smorto.
— Presto! un martello, un coltello! — Con una lama da interporre alle
assicelle del coperchio Gustavo tornò dalla cucina; mentre il testimone
socialista gridava:
— Il primo aristocratico galantuomo che conosco!
— Oh ce ne sono! — ribatteva il testimone moderato. — E di cuore!
— Se vuol bene a Gustavo, Gustavo se lo merita: ecco tutto! — osservava
un altro.
— Non dico; ma....
— Viva il conte! Viva il conte!
_Crac_ fece l'assicella allo sforzo di Gustavo. Allora tutti tacquero,
ansiosi, nell'attesa che la cassa fosse aperta interamente. Ma perchè
la cugina aveva scambiato uno sguardo d'intelligenza col socialista,
quasi a un vicendevole ridevole dubbio? Perchè lo zio paterno tabaccava
adagio, quasi a togliersi d'imbarazzo? Perchè il testimonio moderato
fumava in fretta guatando alle donne; e la mamma e l'amica Tecla
tenevan gli occhi su la sposa come temessero d'uno svenimento? Quale
idea uscita di mente alla sposa o dalla cassetta, e venuta in mente
a tutti, accresceva l'ansia e dipingeva nel viso di chi più avrebbe
dovuto esser felice il terrore d'un malefizio, e accendeva negli occhi
degli altri una perfida speranza di lunghe risa? Gravava un destino
assurdo o tremendo su quella cassa, su quelle anime?...
Lo sposo — _crac_ — con l'angustia di quando, ancora in preda a un
sogno funesto, si ricorre, nel destarsi, alla vita, sollevò del tutto
il coperchio....


Dall'Eldorado.

I.
Raccogliendo e riprendendo con la sinistra la scarsa barba, dalla
tavola a cui sedeva Polla guardava a quanto poteva scorgere del
temporale. Passavano di furia i nuvoloni neri: uno ne dilacerò un
fulmine. E cominciava a piovere; nè ancora cessava il vento che faceva
sbattere le imposte, da Polla lasciate sbattere.
«Oh portasse via la bufera anche la casa! Una tempesta enorme
rovesciasse Roma e tutte le città d'Europa! Un ciclone rovinasse,
magari, il mondo!»
Non che Polla — il quale amava tutti gli uomini come fratelli e pel
quale i borghesi sfruttatori e capitalisti erano non uomini ma belve
— si arrovellasse così, in un desiderio di distruzione, per malanimo
o per teoria socialista o per lotta di classe: no, no; solo risentiva
lui stesso di quel turbamento elettrico e meteorico e, per di più, gli
sommoveva pensieri neri come le nuvole, che si aggrappavano nel cielo
di contro, un appetito ahi quel dì insaziabile! All'ora infatti in
cui i borghesi andavano a desinare, egli restava alla tavola deserta,
perchè già pioveva e non aveva ombrello e perchè non aveva un soldo in
tasca e non sapeva qual trattore potesse più accoglierlo a credito.
Fino a quando?... Ah che appetito! In verità, quel giorno sarebbero
appena bastate al suo desiderio una porzione di spaghetti, una di
lesso, una di vitello, una di fragole e una bottiglia di barolo, il
vino che prediligeva.
Frattanto, di sottovento, la pioggia entrava nella camera con
tal impeto e abbondanza che il buon Polla finalmente si alzò per
chiudere i vetri. Ed ecco sembrargli che una nuvola più densa, opaca,
precipitasse, abbattuta da una ventata, giù, alla volta della sua
finestra.... Una nuvola? Arrivava con la velocità d'una palla da
cannone e non era una nuvola: un corpo strano, solido, straordinario:
un enorme animale!... Oh! Nell'attimo, Polla fece appena in tempo a
scampare alla parete, che già piombava nella camera: vi cadde con un
tonfo profondo su l'impiantito.... Che cosa? Chi?...
Un condor spaventevole, un pipistrello pauroso? Era un misterioso
involto, che, come cosa morta, non si moveva più affatto. Riavendosi
però dal primo spavento, invece d'invocare soccorso, il socialista
tacque, avanzò; retrocedette. Non era un condor, non era un'aquila,
non era un pipistrello! Avviluppata nell'ali che s'erano raccolte al
cessare del volo, l'insolita bestia non dava a conoscersi che per
le estremità inferiori. Ebbene, Polla si avanzò di nuovo e ruppe
in un'esclamazione di meraviglia alla vista di sì fatti piedi e di
cosifatte gambe. Quell'animale era un uomo o, alla peggio, una donna
volante! Una creatura umana, immota, svenuta o morta al suolo della sua
stanza!
Con che cuore egli la volse supina e ne udì battere il cuore (era un
uomo)! Con che cuore si sforzò a trascinare e adagiar il miracoloso
viaggiatore nei suo lettuccio, dopo averlo spogliato delle fine e
seriche ali e della giubba cui stavano connesse! Un uomo non calvo!
I capelli lunghi e aurei diffusi su la bianca fronte e la lunga e
gentile barba non scemavano giovinezza all'aspetto venerabile; e tutta
la persona incuteva tal rispetto di beltà che, non potendo paragonarlo
a un angelo, in cui non credeva, il positivista Polla lo paragonò
a Adone, se pure Adone aveva la barba. N'esercitava frattanto il
sangue al cuore con massaggio; ne spruzzava d'acqua il volto; finchè
sospirarono entrambi: l'uomo che ricuperava vita e coscienza, e l'uomo
che aveva salvato un fratello, quantunque volante.
Polla disse subito:
— _Good day!_
No. Era biondo, ma non inglese.
— _Guten abend!_ — Non tedesco.
— _Bonjour, monsieur!_ — Non francese.
— _Buenas dies, caballero!_ — Non spagnolo.
Ricordandosi infine di essere italiano, Polla fece, cortesemente:
— Ben arrivato!
D'un soave sorriso, avvivando gli occhi da prima incerti quali d'uno
che davvero sia cascato dalle nuvole, lo straniero mormorò qualche
melodiosa incomprensibile parola; poi contorse la bocca a pronunciare
una parola di lingua evidentemente non sua; di lingua internazionale.
— Volapuk?...
— Volapuk! — gridò Polla, che dai comizi aveva presa l'abitudine di
parlare a voce alta. — Oh, oh! Al vostro paese si studia il volapuk?
Non ha attecchito da noi! Non importa. A poco a poco, fratello,
c'intenderemo lo stesso! E, ditemi....
Ma o per quel chiasso dell'eloquente socialista, o per il dolore
della caduta, o per lo sfinimento di cui era prova il pallido viso,
l'infelice forestiero sarebbe svenuto ancora, quando con uno sforzo
supremo non avesse rialzato il capo, e stringendo all'estremità le dita
della destra, non avesse portata due volte la mano alla bocca mentre lo
sguardo aiutava l'espressione del gesto.
— Avete fame? — comprese e chiese Polla. — Poveretto! Anch'io ho fame!
Ma io non posso offrirvi che un bicchier d'acqua!
Quasi indovinasse le condizioni economiche dell'ospite, l'altro
affrettava un segno della mano verso l'involucro rimasto sul pavimento.
E Polla ubbidì. Presso al punto ove ai fianchi dell'arnese (fosse
corpetto o giubba) eran fisse le ali, egli avvertì subito due bisacce;
nè esitò a introdurvi la mano, quantunque il forestiero già accennasse
di tastar più in basso. Ma..., e là cosa c'era? Sentiva un peso non
lieve, come di ciottoli, e per accertarsi se era o no la zavorra,
introdusse la destra. Questa volta Polla, che non credeva in Dio, che
credeva solo nel «fattore economico», esclamò:
— Dio! Non sono pezzi di vetro! Non sono sassi! — Che cosa erano? Che
cosa erano?
Erano diamanti, smeraldi, oro! E non un sogno! Ma realtà! Un miracolo!
Diamanti! smeraldo! rubini! oro! Fu tale la meraviglia di Polla che
attese a lungo prima d'accorgersi come l'infelice girasse e chiudesse
gli occhi, e sveniva. Presto, più giù, ove disperatamente il misero
aveva volto il cenno, l'ospite trovò un grazioso vasetto piccolo
piccolo, che quasi si aperse da sè effondendo un cordiale profumo....
Conteneva roba così buona che ne bastò un pizzico a ristorare d'un
tratto dal profondo del cuore, il forestiero estenuato. Il quale poscia
offerse il vaso all'amico; sorrise d'un suo dolce e luminoso sorriso;
e per riposare reclinò il capo e chiuse gli occhi, non più alla morte,
ma al sonno.
Polla aveva fame: aveva sotto gli occhi, sotto il naso, presente alla
gola l'«estratto» ch'effondeva quel profumo saporito, ineffabile;
eppure non lo toccò, sdegnò ristorarsi anche lui, per tornare
all'involucro volatile. Nè riusciva a persuadersi che non sognava;
la zavorra era tutta quanta di gemme preziose! E se poteva ingannarsi
intorno alla qualità e al prezzo d'alcune delle pietre, su altre non
s'ingannava certo. Convinto, alla fine, le depose tutte in terra, in
un mucchio, e stette a contemplarle. C'era proprio da impazzire; tanto
più che la fatica della contemplazione accresceva la debolezza del
digiuno.... E non si risolveva ancora ad approfittar dell'«estratto»!
Solo quando si sentì venir meno, allora prese un pizzico di polvere dal
vasetto, e parendogli néttare o ambrosia ne prese un secondo, eppoi
un terzo, eppoi un quarto, eppoi un quinto; finchè n'ebbe nausea;
che quella roba era troppo sostanziosa e focosa. Ma sublime! ma
incomparabilmente migliore d'ogni nostro più squisito cibo! Inoltre,
a ingoiarla, seguiva un fervore nel sangue, come per un eccitante
liquore, e una gran fretta e lucidità di idee e una gran letizia
nell'animo.
— «Il tuo è mio!» — cantava Polla tornando alle gemme per raccoglierle
e metterne nella sua tasca più d'una. Ma, e se il forestiero non le
teneva in conto di ciottoli ed era un borghese? Ebbene, in tal caso,
éccogli restituita la sua zavorra! Lui, Polla, non prendeva che uno
smeraldo per far moneta, per esercitare secondo conveniva gli uffici
dell'ospitalità e provvedere da pranzo non a sè, che non aveva più
fame e solo aveva sete di un po' di barolo ma all'ospite, che tra poco
si sveglierebbe e avrebbe fame e sete. In ogni caso, lo strano uomo
dalla strana visita contraeva obbligo di gratitudine, di amicizia, di
compenso al disturbo.... Lui, Polla, si prendeva dunque uno smeraldo.
Una cosa da niente in confronto al resto! Un ciottolino da non
ringraziarne nemmeno la Provvidenza, quand'anche un socialista marxista
e inscritto al partito avesse potuto ammettere la Provvidenza.
Dopo di che Polla sarebbe uscito di casa, allegro come mai in vita
sua, se al limitare non l'avessero trattenuto queste domande: Lo
smeraldo non era troppo grosso e non susciterebbe ingiusti sospetti nel
gioielliere? Qualcuno non aveva forse visto entrar là l'uomo volante?
Aveva questi un foglio di via? Non ne sapevan nulla le guardie di
pubblica sicurezza?
Per tutta risposta, tornò indietro, sollevò giubba e ali; osservò
meglio il piccolo e semplice congegno di molle riposte tra seta e
fodera e provò di adattarsi quell'abito. Ma dopo inutili tentativi
s'avvide che il congegno era guasto; forse irreparabilmente guasto!
Gli bisognava restare a terra, restar a Roma. Rassegnandosi, Polla
sostituì al grosso smeraldo un men grosso rubino, e dimenticandosi,
non di mettere questo in tasca, ma quello nel mucchio, con uno sguardo
pieno di gratitudine stette a considerare il forestiero che dormiva
dolcemente, senza russare; ad ammirare quell'uomo la cui bellezza
assumeva a' suoi occhi un'imagine bella come nessun'altra mai.
Caro amico! Si rassomigliavano senza dubbio, lor due, quantunque Polla
avesse il naso un po' troppo aquilino, e l'altro l'avesse perfettamente
fidiaco; Polla avesse barba scarsa, dura e rossiccia, e l'altro una
barba aurea, fine e copiosa; Polla fosse calvo e l'altro capelluto;
Polla vestisse nè con garbo nè con grazia, e l'altro indossasse
sandali, calzoni e maglia di un'ignota materia che aderiva alle membra
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