Novelle umoristiche - 06

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desinare. Quel giorno? No! Impossibile ch'egli mangiasse, quel giorno,
il pane a tradimento!
Tornò indietro, sempre con in testa l'impressione che avrebbe provata
girando con iscarpe non sue e troppo larghe; s'arrestò, guardò
l'orologio....
Quand'ecco, dall'altro lato della strada, frettoloso e intento a
leggere una carta (con in testa, sulle quarantatrè, il cappello non
suo) passare.... Alfonso! Incontrarlo e dirgli: — A te, dammi il mio
—, sarebbe stato il modo più semplice per restituire il mal tolto
e riavere il proprio; era anzi un fortunato incontro. Eppure Giulio
Galardi non si mosse; guatò; nè potè muoversi fino a che l'amico non
disparve.
Perchè Alfonso non gli era venuto incontro lui? Leggeva. Un documento,
forse, che portava prima del desinare a qualche avvocato o in qualche
ufficio. Dunque gli premeva più l'avvocato e il documento che il
cappello del suo migliore amico! più il documento o l'avvocato, forse,
che la moglie! Oh! non v'ha castigo che non meriti un _affarista_!
E Galardi, con un malessere invano respinto, che dal capo gli
discendeva a tutto il corpo e pareva condensarsi al cuore, venne a casa
sua per trar dall'armadio un cappello vecchio e uscire a desinare. A
casa però si sentì stanco morto; di mala voglia; malconcio.
Sedè presso il tavolino, dove aveva deposto quel maledetto....

V.
Era, anche a prima vista, un cappello onesto. Esternamente patito
solo nell'orlatura e nel nastro, al margine inferiore; ma per il
colore resistente e per il denso feltro meritava lode alla manifattura
nazionale.
Qua e là, è vero, nell'ala, al di sopra, e sulla cupola un critico
esteta avrebbe potuto rintracciare indizi di gocce asciugate prima
dalla polvere che dal sole; ma alla carezza di una mano o di una
spazzola ogni ombra sarebbe tosto dileguata. Elegante non era: nè alto,
nè basso; nè stretti, nè larghi i risvolti; nè pesante, nè lieve; d'una
forma, di un'indole quasi, non troppo avversa e non troppo data alla
moda; non perturbabile in vicende di stagioni e di gusti; non asservita
a umani giudizi. L'età senza infingimenti appariva dall'interno;
e forse per conoscerla, con un moto dispettoso, con l'amarezza e
la bieca avidità con cui il colpevole indaga l'altrui coscienza,
Giulio lo rovesciò, vi fissò lo sguardo. Ma non attese al marocchino
che annoverava tre mesi di sudori anche invernali; nemmeno sorrise
all'aquila, la marca di fabbrica esotica, che apriva l'ali sul nome del
cappellaio italiano: ebbe, al contrario, istantaneo, uno sbigottimento;
provò il turbamento e il ribrezzo di chi avventa una vertiginosa
occhiata entro un cratere.
Quante idee là dentro, agitate e agitabonde, in una comprensione
caotica! Quante prorompevan fuori; ricadevano nel vortice; superavano
la cinta; s'arrestavano, o precipitavano concrete; vaporavan vane,
o risplendevan fatue! Quante faccende, propositi e illusioni
e disinganni; quanti conti, e missive e risposte di lettere, e
trattative, e imbrogli da districare, e tranelli a cui sfuggire,
e colpi di fortuna avversa o buona, e contrattempi, e questioni e
contratti, e crediti e debiti! Tutte le commozioni e le vicende d'un
uomo d'affari che si consuma la vita per lucro; tutti gli affanni di
un uomo in balìa ora della propria testa ora della sorte, e involto
nelle complicazioni del commercio e delle industrie; tutti i gaudi
che generano l'operosità e la fede; tutto ciò, in tumulto, aggiravasi
là dentro, turbinava agli occhi e alla fantasia di Giulio Galardi,
quantunque non vi guardasse più.
E d'improvviso nel turbine imaginario la sua fantasia gettò un grido
il quale disperse ogni cosa: — Tua moglie ti tradisce! — E successe, là
dentro, un'immobilità di stupore, un abbattimento di disperazione, una
quiete di morte.
«Tua moglie ti tradisce!»
E tutto era finito!
Perchè, per chi, tanti lavori? tanti triboli? tante angustie? tanti
sforzi? Per la famiglia; per i figlioli.
Logoratasi l'esistenza, Alfonso sarebbe morto non vecchio, ma avrebbe
lasciato in buona condizione i suoi cari: i figli sarebbero cresciuti
onesti con poca fatica; i nipoti benedirebbero un giorno la memoria
dell'avo che loro tramandava una cospicua eredità di quattrini e di
virtù.
«Tua moglie ti tradisce col tuo miglior amico!»
Il disonore! il tradimento! la felicità distrutta; perduto ogni
affetto, ogni bene! Una tempra d'acciaio spezzata d'un colpo; una vita
rigogliosa, fulminata! Infamia! Infamia!... Ahi!
Giulio palpita; tace; si ascolta: gli pare che gli si sia rotta qualche
cosa dentro: un rovescio: un disastro. E non è nulla; non è altro che
il risveglio della coscienza.
E tornano i ricordi; e si rivede ragazzo compagno di Alfonso, quando
Alfonso, generoso fin d'allora, a scuola, gli dava a copiare i compiti;
e si rivede uomo quando Alfonso, fuori d'ogni sospetto, gli annuncia il
suo matrimonio, gli presenta la moglie, l'invita a pranzo. Disgraziato!
disgraziati entrambi: lui e Alfonso! disgraziati tutti e tre, anche
Giovanna!
— Porta questo cappello al signor Varchi: se non c'è, aspetta; e
prendi il mio! — Galardi comandò fieramente al servo accorso allo
scampanellare spaventevole.
Ma pochi minuti dopo il servo rientrava, essendosi imbattuto nella
cameriera che veniva proprio per il cambio.
Oh con che sollievo Giulio si mise il cappello suo!
Gli stava ancora bene. Pure, non lo tenne; lo depose: lo giudicò in un
confronto spregiativo. Sì sì: era un cappello elegante, ma vanesio; la
cui ala, in una linea esageratamente ondulata, accusava l'affettatura
della moda; la cui sagoma significava volubilità e leggerezza; e
quantunque l'abito non faccia il monaco, perchè il cappello non
manifesterebbe qualche cosa del capo che lo porta?
Tornandogli perciò la nausea di prima e non volendo confessare agli
amici che un cappello gli aveva fatto male, Giulio non andò a desinare
quel giorno al solito luogo. Andò altrove; rincasò presto. E subito si
mise a letto.
Cattiva notte. Indarno cercava di pensare amorosamente a Giovanna;
e costretto a ragionare, indarno cercava di sragionare. Impedire in
qualche modo la caduta d'una donna era fortezza o viltà? Viltà forse
per lei, la donna amata, e forse per tutte le donne, e certo, per tutti
gli amici e gli uomini di mondo; ma era fortezza per tutti i mariti,
per le anime timorate, i moralisti. Oh i moralisti! Cos'è la morale
se non il vantaggio dell'individuo in rapporto alla società? se non
un egoismo collettivo? se non una menzogna della civiltà? Maledetti i
pregiudizi che avvelenano il piacere!
Felice la barbarie! I barbari accordano la morale al loro vestire —
per lo più van nudi —; hanno il capo libero o tutt'al più portano una
semplice penna che non riscalda il microbio della calvizie, e hanno
libero l'arbitrio. Invece l'uomo che ha inventato telegrafo e telefono,
l'uomo dell'elettricità e del vapore, si copre il capo con un coso o
una cosa convessa, che è focolare d'infezione; ignobile difesa di idee
false e di pregiudizi atavici; strumento di servitù e di assenso al
patto sociale; simbolo, in certi casi, di virtù e di vizio; emblema
dell'uomo operoso o dell'uomo vano, del sapiente o dello stolto, del
buon amico o del cattivo amico!
Da tali pensieri affaticato, Giulio non si addormentò che verso l'alba.
Nè dormiva da molte ore quando il servo venne a svegliarlo con una
lettera _urgentissima_.
Egli la lesse, d'urgenza:
«.... Che cosa avete fatto! Appena siete uscito voi. Alfonso è corso da
me col vostro cappello in mano.
«Era così triste! Mi ha domandato: — Come mai Giulio ha potuto
confondere il mio col suo? — Ah! che angustia! che paura! Pareva
dubitasse.... Ma io mi sono convinta che mio marito è fiducioso, è un
modello di marito e di padre di famiglia; e mi è bastato vederlo uscire
col vostro cappello, che non gli stava in testa, per comprendere tutta
la mia colpa. Sarebbe un'infamia!
«E vi avverto che non verrò da voi nè oggi nè mai più. Però vi prometto
che non mi confesserò a mio marito come quella vostra marchesa; perchè
nella vostra storia, scusatemi, non ci ho creduto....»
*
Giulio Galardi e Alfonso Varchi rimasero amici fedeli.
Solo, Giulio concepì un inestinguibile odio contro i cappelli sodi
e ne adottò uno floscio, quale Alfonso non avrebbe portato mai. Ma
con questo gli pareva di star così male che, dubitando di poter più
innamorare le donne degli altri, prese moglie anche lui.


Efficacia d'una giarrettiera.

L'ora pericolosa non è l'ora del confessionale, quando abitudine
o gravezza o vigile coscienza delle divine funzioni assunte per
rappresentanza mortifica ogni senso. Nemmeno è l'ora del riposo,
quando in letto molle e caldo tornano alla memoria le dure veglie
degli anacoreti e dei Padri e le dibattute vittorie con i demoni nel
deserto: il pericolo è all'ora della siesta; quando mentre fermenta il
cibo nello stomaco e nelle vene il sangue fluisce più abbondevole, una
dolcezza sale o scende, non si sa di dove, a cullare il pensiero che
si quieta, e l'anima (fuori sia freddo o il sole si spenga nella rossa
calura dell'agosto), l'anima risponde all'anima in cui avrebbe dovuto
integrarsi e che, ahi, le fu tolta, e il cuore domanda un altro petto
che l'ascolti. Sembra l'anima o il cuore; e sono forse i fumi del vino.
Ma allora basta — e grazie se si abbia! — il cuore d'un amico. Se no:
— Chiamatemi il sagrestano per la partita (a carte o a bocce)! Presto!

«Gli propongo una partita a briscola?» si chiese, quella sera, don
Giuseppe guardando padre Ignazio e riprendendo la bottiglia.
— Padre Ignazio, un altro gocciolo?
— Solo un gocciolo — disse il gesuita; il quale avanzò il bicchiere
con la mano aperta; senza badarvi lo ritrasse pieno, e sorseggiò
meditabondo. A che pensasse, non diceva; certo, non a cose per
distrarsi dalle quali fosse opportuna una partita a carte.
Che amico! che faccia!: smorta, magra, arcigna. Ma un predicatore,
ve', di prima forza; da metter terrore dell'inferno nel più accanito
liberale. Onde a ragione don Giuseppe, che per essere un buon prete,
gaio, grasso tecchio, abbonito e domesticato da vent'anni di cura,
non riusciva a impaurire parrocchiani e parrocchiane, l'invitava a
predicare lassù e a metter cervelli e coscienze a posto.
— Gran bella predica, padre Ignazio! Ce n'era bisogno! Perchè è proprio
_quel peccato_ il peccato in cui i miei fedeli pericolano di più.
— Non si assolvono. — Appena questo disse padre Ignazio, sempre con
l'occhio alle sue idee e col mento alla palma sinistra, il gomito su la
tavola.
Allora don Giuseppe sospirò; pensò che colui non era un amico
meritevole di confidenza nè utile in ogni circostanza, e che gli
sarebbe stato meglio non dir nulla. Infatti la risposta del gesuita lo
spinse più a dentro in quei pensieri da cui altra volta avrebbe trovato
scampo in una partita col sagrestano.
Proprio vero! Si può essere un po' goloso, un po' avaro o di non troppa
carità, o invidiare il vescovo, invidiar magari un padre gesuita,
o lasciarsi prendere dall'ira come padre Ignazio quando predica, e
rimanere un prete quasi buono. Ma uno scappuccio in quel tal peccato,
che pure non è il primo nè il secondo nell'ordine dei peccati capitali,
e ti saluto! Cattivo prete! Addosso! Che se per questo il parroco non
assolvesse i parrocchiani, i parrocchiani s'arrogherebbero loro il
diritto di lapidare il parroco!
.... Quand'ecco:
— Raccontatemi qualche cosa, don Giuseppe.
_Deo gratias!_ Era accaduto un prodigio! Perchè, vuotato il bicchiere,
padre Ignazio aveva rivolto il viso all'ospite; e il viso non più
bieco, ma sereno, sorrideva, aveva luce come riverberato anch'esso dal
raggio di sole che colpiva i vetri. Così don Giuseppe si consolò tutto;
sorrise anche lui; poi, súbito, senza interrompere il corso alle idee
di prima, si rammentò dell'aneddoto che già gli era tornato in mente la
mattina, alla predica, e che ora gli parve piacevole nel tempo stesso
che giovevole per sè quanto un tresette.
— Vi racconterò un mio caso — disse ilare — che potrebbe servirvi di
esempio, di prova a quel che dicevate stamattina così bene: che il
Signore, nella sua divina misericordia, spesso ci soccorre nel fatto
medesimo della colpa.
— Sentiamo.
— Un esempio però non da predica — sfuggì detto al buon prete —; il
fine non giustifica il mezzo.
— Lo giustifica qualche volta, se non sempre, come affermano i
machiavellici; e.... Ma sentiamo il racconto, prima.
Uso a procedere francamente, senz'ambagi, ne' suoi racconti, il curato
ebbe uno sguardo di preghiera all'amico che non interrompesse; e
cominciò:
— Fu del '70 dopo _il fatto_....
L'altro scosse il capo, d'intesa.
— .... e io ero in aspettativa d'una cappellania; e abitavo in una
cameretta a un terzo piano. Di contro a me ci stava una signora
vedova....
— _Vidua, periculosa_ — mormorò don Ignazio, riprendendo il mento nelle
mani.
— .... giovane e belloccia.
Ma padre Ignazio chiese malignamente:
— Chi ve l'aveva detto ch'era belloccia?
Divenuto più rosso sui pomelli delle guance, don Giuseppe s'imbrogliò
un poco.
— Già; lo dicevano.... Io no...; io ero in cerca d'una cappellania.
E parendogli che l'amico desse soverchia importanza all'aneddoto, che
altrimenti egli avrebbe narrato in due parole, e già a disagio per
quelle interruzioni inopportune, il buon curato procedè meno sicuro.
— Quella vedova era mia penitente.
— Uhm!...
Uhm! che cosa?... — Penitente sincera, fervida! Pareva. Mi chiedeva
anche dei consigli....
— Di che genere?
— .... aveva una questione con i parenti del marito e voleva mettermi
in mezzo per riconciliarsi.
— Al solito; un pretesto.
Spento il sole, la faccia che non riceveva più riverbero, rincupiva.
Si pentiva don Giuseppe d'aver ceduto all'apparente indulgenza di un
inquisitore interruttore. Nè poteva fidarsi alla fantasia e attenuare
o accomodare il racconto; giacchè a un certo punto, al punto capitale
del fatto, era inevitabile arrivarci.
— Un giorno dunque, tutt'allegra, la vedova mi chiamò in casa sua.
Aveva proposte di conciliazione; ed era allegra.
— _Lætitia, periculosa_....
— Io la consigliava a non fidarsi degli avvocati.... Ma in quel mentre
la punta d'un suo piede, di lei, faceva _toc toc_ per terra.
Invece d'interrompere, questa volta padre Ignazio sorrise; rianimando
così il povero amico.
Oh forse era meglio, per dilettar un gesuita che sorrideva in quel
modo, in quel certo modo, indugiare nelle particolarità da cui
l'aneddoto acquistasse più sapore? Chi li capisce i gesuiti?...
— Era, si può dire, il primo piede che vedevo, d'una donna; e la scarpa
non era una scarpa.
— Pantofola?
— Aperta come una pantofola, per lasciare scorgere la noce, il....
— Malleolo.
— Il malleolo. E la calza.... Oh malizia di femmine! La calza era nera;
la prima che vedevo, in una donna. Avrei sempre creduto che anche le
vedove portassero le calze d'altro colore!
Nuovo sorriso, agli angoli della bocca, di padre Ignazio.
— La calza non si vedeva solo sul collo del piede. Anche un po' più su,
si vedeva; e.... Ho dimenticato di dirvi che la scarpa non era nera.
— Non importa.
— Importa! importa! Una scarpa di colore, come dire?, caffè e latte.
Che pelle è?
— Non so...; di capra.
— Dunque.... Il diavolo scoteva quel piede; _toc toc_; la gamba tremava
tutta ogni volta, da mettermi il convulso, mentre discorrevamo della
conciliazione.... Io (chi lo direbbe?) ho sempre patito un po' di
convulso. E voi, padre Ignazio?
— No; grazie a Dio.
Don Giuseppe sospirò. Poi riprese:
— Come vi dicevo, discorrevamo di avvocati e di cose legali, ma non
sapevo più dove guardarla. In faccia? Gli occhi!... Che occhi! In
terra? C'era il piede. Dove avreste guardato, voi?
— Al muro.
— Bravo! Ma io non potevo guardare al muro, per colpa di quel
piede.... Non sapevo più che cosa mi dicessi. Quel piede grande così
(il narratore con la mano destra divise la sinistra), quel piede
indiavolato, che non poteva star fermo, e la calza, e la scarpa, e il
_toc toc_, mi trasportavano verso il diavolo: ecco! Finchè il diavolo
se n'accorse, e smise di battere in terra.
Giunto a questo punto, don Giuseppe tacque, lasciando perplesso il
padre.
— È finita?
— Ah no! Pur troppo un minuto dopo il diavolo mise una gamba a cavallo
dell'altra, e quella di sopra cominciò a dondolare così, come se niente
fosse! Voi che siete un sant'uomo, padre Ignazio, sareste scappato
via....
— E voi?
— A me, per disgrazia, mi cadde il cappello. Mi chino...: il polpaccio!
— Cosa?
— Vidi.... cioè, vidi la calza nera, sino al polpaccio. E.... Un altro
gocciolo, padre Ignazio; un altro gocciolo....
— No, no; non ne voglio più. Avanti!
Dunque ci pigliava gusto? Bevve lui, don Giuseppe; cercò, trovò l'idea
di sostegno a proseguire con tono più dimesso, lentamente.
— Sentite. Quest'autunno, nell'orto, vidi un giorno una melagrana
matura, tanto piena che era crepata e per la crepa facevan gola una
fila di grane rosse: la colsi; non potei stare! L'altro dì, quando
mi portarono i quattrini dell'uva, li contai due volte; prima mi
sembrarono abbastanza; ma dopo no, dopo mi sembravan pochi. A udirvi
predicare, padre Ignazio, vorrei che predicaste in eterno; ma quasi
quasi vi invidio....
— Oh che vi confondete adesso in una confessione generale? — esclamò
padre Ignazio, con un gesto d'impazienza.
— Fo per mostrarvi che non credo di essere un perfetto prete. Allora
però io stavo per diventare un prete del tutto cattivo, e solo perchè
quella gamba mi tentava più che una melagrana, o una sommetta di
quattrini, o le vostre prediche, padre Ignazio.
Che discorsi!... Il gesuita ebbe un gesto più duro dicendo:
— Dunque.... la gamba?
— La gamba? Non ho detto bene. La calza, fu. Perchè io sono certo,
certissimo che quella gamba non mi avrebbe messo sottosopra il giudizio
e la coscienza se noi sacerdoti invece di nere portassimo le calze
bianche o di un'altra tinta, dopo che le donne le hanno messe su nere.
Quel nero....
L'amico affrettava:
— Concludiamo.
— Quel nero che, come dire?, per noi è il colore della mortificazione,
là faceva pensare a tutt'altro. Insomma, mi sconvolse la testa. Ma con
l'aiuto di Dio, la stessa causa del male giovò poi al buon effetto.
— Quale effetto?
— Voglio dire — proruppe d'un fiato don Giuseppe togliendosi il peso
d'addosso —; voglio dire che se per la tentazione della calza arrivai
a.... vedere il legaccio, per quel nero il legaccio mi fece più colpo:
mi tirai indietro, tornando in me; balzai in piedi, salvo! Salvo, padre
Ignazio! — ripetè pieno di gioia don Giuseppe. — Io ero salvo! — E
pareva uscito allora allora dal pericolo.
Ansioso, chino verso di lui a intendere ciò che non intendeva, il
gesuita dimandò:
— Come? il legaccio? che cosa?
— Sì. Non v'ho detto ch'eravamo del '70, dopo il settembre?
— Del '70.... Il legaccio?... Non capisco! Il legaccio della calza?
— Sì! La gerr....
— La giarrettiera! Ebbene?
— .... bianca, rossa e verde!


La fortuna di un uomo.

I.
Lo zio Giorgio Bicci era noto a Bologna quale curioso tipo di
patriotta, di filantropo, di pensatore profondo e di parlatore
arguto. Se fosse stato uno scrittore, gli eruditi l'avrebbero forse
assomigliato a qualche filosofo umorista moderno e accusato di plagio,
quantunque egli non leggesse che i classici latini e i giornali
quotidiani. Scapolo e scettico, come in molte cose, intorno alle donne,
viveva d'amore e d'accordo con soli il servo Luigi e il nipote Gaspare.
Ma questi, al contrario dei più, non poteva credere che lo zio non
avesse mai amato alcuna donna.
Essendo ancora ragazzo, una sera tardi, dalla sua camera Gaspare aveva
udito una voce angosciosa esclamare sommessamente:
— Figlia mia!...
Ond'egli, per la curiosità che è comune a tutti i ragazzi e che di lui
era il difetto più grave, aveva spiccato un salto dal letto ed era
corso a spingere lo sguardo per la serratura dell'uscio. Oh! Di là,
nella sala attigua, al fioco lume della lampada, una signora vecchia in
vesti nere, lo zio Giorgio e un terzo stendevan le mani, a contatto, su
di un tavolino, e il tavolino sembrava che ballasse!
A tal vista e alla vista dello zio coi capelli irti, gli occhi accesi
e fuori delle orbite, la faccia pallida e contraffatta, Gaspare era
ritornato subito sotto le lenzuola, giurando di non scrutare mai più
che diavolo si facesse in casa a certe ore notturne; già guarito, e
per sempre, del suo difetto più grande. Nè soltanto a ciò gli valse
quella paura, perchè nell'avanzare degli anni e nel meditare su
quel ricordo fanciullesco si convinse che se lo zio aveva avuto tale
orrore dall'esperimento spiritico, certo era meglio lasciar in pace i
morti e non confondersi nel mistero della morte; e anche si convinse
che se lo zio aveva amato una donna sino a rievocarla in quel modo,
con l'aiuto della madre di lei, certo era bene non innamorarsi così
appassionatamente.
Quanto a Luigi, meglio che servo, poteva dirsi amico dello zio Giorgio.
Commilitoni nelle schiere di Garibaldi, avevano combattuto l'uno
a fianco dell'altro; inoltre, il secondo aveva prestato quattrini
al primo; e come questi, da ignorante qual era, non dimenticava
i benefizî, quegli, da filosofo qual era, si affezionava ai suoi
debitori, dimentico dei crediti.
In più d'una battaglia Luigi, il servo, aveva sospettato che il
compagno cercasse la morte, e il signor Bicci che il compagno volesse
salvargli la pelle. Solo alla presa di Palermo, sul ponte, erano stati
divisi nella mischia; ma il domani, dopo lunghe ricerche, l'incolume
aveva rinvenuto il ferito all'ospedale: ferito al ventre e a una gamba
in modo che si credeva impossibile rattopparlo. Ne rincresceva allo zio
Giorgio; e più gli rincresceva che a Luigi, esuberante di giovinezza e
di energia, dovesse spiacer molto il morire; e, con cuore di filantropo
e con mente di savio, s'era proposto di prepararlo al passo dubbioso
affinchè lo varcasse meno malvolentieri.
— Morire per la patria, in campo di battaglia o dopo la battaglia, è
sempre glorioso e dolce.
Fra gli spasimi Luigi rispondeva:
— Una delizia. Ma io non muoio!
— Speriamo — augurava l'altro. Poi seguitava: — Non credere, del resto,
che la morte sia brutta come dicono i deboli. Seneca.... — e aveva
tradotto la sentenza dello stoico.
E Luigi:
— Il suo Seneca può dir quel che vuole; ma io non muoio!
— Quasi quasi non te lo augurerei, di vivere — disse il signor Bicci.
Poscia tentò una nuova via: — _Morte, che sei tu mai?_ Ciro Menotti,
caro Luigi, recitava il sonetto del Monti nell'andare alla forca.
— Ma io non recito niente, perchè io non vado alla forca: sto qui: non
muoio!
— Forse. Quando però non si riuscisse a salvarti, non dubitare che
io, di ritorno a Bologna, porterò i tuoi saluti e dirò le tue ultime
volontà ai tuoi fratelli.
A questo punto Luigi si drizzò a mezzo del letto.
— Perdio, vuol capirla sì o no? Non muoio! non muoio! non muoio! Se non
lo so io, chi l'ha da sapere?
— E tu vivi! — gridò non meno forte lo zio Giorgio, perdendo la
pazienza. — Ma la tua vita, bada, sarà legata per sempre alla mia,
che non importava t'incomodassi a difendere! Chi sta bene al mondo ha
l'obbligo sacrosanto di tener compagnia a chi ci sta male. Hai capito?

II.
Quantunque sappiamo tutti che la perdita dei genitori è il più gran
dolore umano, sarebbe disumano dir fortunato Gaspare Bicci perchè
nacque postumo e perdè la madre non ancor giunto agli anni della
discrezione. Egli però riconosceva che per lui, orfano, era stata una
fortuna grande l'aver avuto a fargli da padre e da madre, con alterna
vicenda, a seconda dei casi, lo zio Giorgio e Luigi.
Riandando gli anni della puerizia e dell'adolescenza, Gaspare non
vedeva che rose senza spine. Fin delle scuole e degli studi, che
angustiano e deprimono tutti i ragazzi, serbava grata memoria; così per
tempo aveva saputo adattarsi alle necessità del mondo; tanto affetto
gli era rimasto dei buoni maestri; tanto agevole gli era parso ciò che
appariva disagevole agli altri. A superar gli esami tranquillamente
lo zio Giorgio gli aveva dato in aiuto un vecchio precettore, il quale
valeva una mediocre enciclopedia; e a guida negli svaghi e nei sollazzi
gli aveva concesso Luigi, che gli lasciava lungo il guinzaglio.
Quando di guida non ebbe più bisogno — all'età cioè, in cui tutti
pericolano — lo zio lo sorresse donandogli trattati d'igiene e
trattati intorno le cause e le forme di morbi insanabili: per di più,
le precauzioni non essendo mai troppe, gli regalò il codice penale.
Così Gaspare crebbe sano di mente e di corpo; non di molto ingegno,
ma abbastanza da comprendere che il grande ingegno rende infelici;
abbastanza di cuore da commiserare il prossimo suo, ma non tanto tenero
da patir danni, a mo' dello zio Giorgio, per gli altri; abbastanza di
buon senso da persuadersi che i desideri superiori ai mezzi tolgono
quiete e pace, e da scorgere in sè e fuori di sè prove indubbie della
sua buona fortuna.
Oltre a questo, anzi prima di ogni cosa, chi non gli avrebbe
invidiata la nativa arrendevolezza ai bisogni, alle convenienze, alle
contingenze, ai consigli della ragione?
Gaspare Bicci non si preoccupò nemmeno delle due sole pretese in cui
lo zio Giorgio insisteva. L'una: che suo nipote dimostrasse come i
ricchi debbano servire la patria ugualmente ai poveri e come l'anno di
volontariato sia un'ingiustizia e una vergogna; l'altra: che suo nipote
conseguisse una laurea. «È vero — diceva — che troppe volte è meglio
un asino morto d'un dottore vivo; ma giacchè gli asini vivi superano i
dottori vivi, e quelli credono aver necessità di questi, è lecito trar
partito dal comune pregiudizio.»
Ora, a proposito della laurea, Gaspare non dubitava che presto o tardi,
scampato agli scogli della licenza liceale, appagherebbe lo zio e se
stesso con un diploma d'ingegnere; e quanto alla milizia, sapeva bene
che i volontari d'un anno soffrono, invisi come «signori», le angherie
dei caporali e dei sergenti, e che, essendo egli un giovane istruito,
diventerebbe presto un bravo sergente, benvisto dagli stessi volontari.
Niente, dunque, volontariato!
La qual preparazione ad ambedue gli impegni dell'avvenire gli era
così tranquilla, e quasi così grata, che la fortuna avrebbe potuto
risparmiarsi la fatica di soccorrerlo.
Invece fu soccorso. Perchè mai? Un triste dubbio gli penetrò per la
prima volta nell'animo: che la fortuna sua portasse jettatura agli
altri; ed ecco come. Alle prove di licenza s'incagliò nella traduzione
del greco; s'ingarbugliò in un maledetto periodo ipotetico, lungo
lungo, da cui tutto il resto dipendeva in connessione logica e da cui
egli, per quanto tirasse, non riusciva a strappare un senso razionale.
E le ore passavano. Già qualcuno copiava la traduzione in buona
copia; già i professori guardavano biechi, passando, ai fogli pieni di
cancellature e di triboli, che non davan speranza di prossima fine.
E passò un'altra ora. Poscia uno consegnò il cómpit; quindi, in breve,
molti; dei quali chi tornava dalla cattedra con aria dimessa: «sarà
quel che sarà!»; e chi con viso lieto: «anche questa è fatta!»; e tutti
con la colazione davanti agli occhi e l'anima alleggerita.
Ma gl'infelici in ritardo s'asciugavano la fronte; si curvavano
sempre più sulle sudate carte e sui vocabolari copiosi e indifferenti;
inghiottivano, sentendosi mancare le idee, la speranza e la lena, un
pezzetto di cioccolata o s'attaccavano alla bottiglietta del cognac;
si compromettevano con segni di richiamo e gettiti di pallottoline che
recavano in seno una domanda o una risposta, un'invocazione d'aiuto o
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