Novelle umoristiche - 09

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Tredòzi errava, ignorando che Silvia qualche cosa sapeva la quale
Erminia non avrebbe dovuto saper mai. E a parte anche ogni sospetto,
a un uomo onesto quale Bicci ripugnava un'alleanza tra sua moglie e
l'antica amante.
Sarebbe un'immoralità! Faremo una visitina di dovere, e basta....
Ingenuo! La signora Silvia, ch'era sagace, in questo mentre aveva
conchiusa amicizia con la Squiti; cosicchè la relazione temuta e
sconvenevole diventò naturale, necessaria.
Eppure Gaspare s'illudeva ancora; perchè alle conversazioni in casa
Tredòzi venivano, oltre che gli Squiti, molti altri; e si ciarlava e
sonava (solo Tredòzi fuggiva appena vedeva il clarinetto); nè rimanevan
tempo e agio per confidenze tra Silvia e Erminia.
Ma a poco a poco la perfida donna, abile a non farsi scorgere da
alcuno fuorchè dalla sposina, cominciò a tormentar Gaspare con
occhiate patetiche. E non bastava: gli susurrava, fugacemente, parole
all'orecchio; parole di nessun conto, ma piano piano, quasi in segreto.
«Se Erminia non ingelosisce — pensava Bicci — è un angelo».
Più! più! La cosa andò tant'oltre che egli dovè pensare:
«Se non ingelosisce, non mi ama». Ah! l'infelice — molto infelice, tra
breve — non imaginava in che belva l'angelo si trasformerebbe, in che
demonio scatenato!
Infatti incontratolo un giorno per via, Silvia gli disse:
— Oh, caro amico! Andiamo! Accompagnatemi a casa.
Si schermì: non poteva; l'attendeva Erminia.
— Allora accompagnerò io voi.
— Non importa....
Ella sorrise.
— Non temete che Erminia sia gelosa. Non è una stupida, lei!
Altro che gelosa! Lo accolse, dopo, un mostro infernale.
— Miserabile! Infame! Vi ho sorpresi, finalmente! Quella sfacciata
t'accompagna anche a casa, dopo i convegni!
— Non è vero!
— Sì: me l'han detto! lo so! lo sapevo! Chi era quella che veniva a
trovarti quando io era fidanzata a Enrico? E me ne sono accorta troppo
tardi! Assassino!...
— Erminia, t'inganni....
— Infame! Mi son lasciata ingannare! Io! A questo modo! Io! da te!
La bile si disciolse in pianto; ed ella prese a invocare il morto, in
guisa che straziava l'anima:
— Ah Enrico, Enrico! Tu mi amavi! Tu mi saresti rimasto fedele
eternamente!... Non mi avresti tradita, tu, con la moglie del tuo
capoufficio! Oh il mio Enrico!... È un'infamia! un'infamia!
Proteste, giuramenti non valsero; la confessione sincera e piena non fu
creduta; la felicità di due che s'adoravano, distrutta per sempre; il
letto coniugale diviso per sempre....
*
No: il letto restò diviso solo due notti; chè Erminia volle togliere al
marito ogni ragione di tradirla.
Ma certi libri dello zio spaventarono, atterrirono Gaspare un mattino
ch'egli li consultò, sentendosi alcune fitte alla nuca. Urgeva, secondo
quei libri, un rimedio.
«Mi farò trasferire lontano di qui; dove mia moglie non abbia più
ragione d'amarmi tanto».
Maledetta però la gelosia! Dice il proverbio _chi sta bene non si
muova_; e chiedere un trasferimento da Bologna valeva come sfidare
la pazienza dei superiori. Ah quanto fu brutto quel mese d'incertezza
affannosa nell'attesa del trasloco!... Lo manderebbero in Sicilia? in
Sardegna? in Calabria? Dove? Dove, buon Dio?
.... Fu trasferito a Milano. Ma eccoli che anche questo bel colpo
di fortuna non fu sufficiente alla pace di tutti, alla contentezza
assoluta di Gaspare. Perchè, alla notizia, Luigi divenne cupo; scosse
il capo mestamente.
— A Milano? A Milano, io? Signorino, le due torri io non le lascio!
Eppoi, se con la signora, andiamo poco d'accordo a Bologna, s'imagini
a Milano! Insomma, io non ci vengo.
— Luigi, ti prego....
Ogni preghiera fu inutile. Asciugandosi gli occhi, Luigi scoteva il
capo, e ripeteva nel suo linguaggio:
— Povero padrone! Che «zuccata!» Oh che «zuccata» abbiamo avuta!

XII.
A chi non piacerebbe Milano? Ebbene, alla signora Bicci non piaceva.
Una città, a parer suo, di bassa gente boriosa, idonea solo a mercare
e in tutto sprovveduta del senso d'arte: bastava a convincerne
l'architettura plebea e goffa, d'un fasto da _parvenus_. La Galleria?
Un ridotto per i cantanti a spasso e le _cocottes_. Il Duomo?... Oh il
Duomo d'Orvieto!
Quanto Erminia avrebbe preferita la mistica solitudine d'Orvieto al
pandemonio di Milano! Una donna invero, Erminia Roccaforte, da fare un
poeta, o un eroe. Suo marito, al contrario, si sentiva non più che un
borghese pacifico nell'equilibrio delle sue facoltà; un ingegnere al
Genio Civile; un uomo che aveva nome Gaspare, che si chiamava Bicci, e
a cui Milano sembrava la più bella città del mondo.
Diversi i gusti, diversi gli animi. In breve la dimora a Milano fu
causa e pretesto ai dissidi, dei quali per l'addietro la gelosia era
parsa la sola cagione; in breve appicchi e ripicchi si acuirono. Che
giovava a Gaspare l'arrendersi?
Fomite alla discordia era anche il trovarsi d'accordo. Se egli dava
torto alla moglie, erano raffacci, lagrime, svenimenti, convulsioni:
un inferno; e se le dava ragione o taceva, essa inveleniva perchè non
voleva la considerasse malata o matta.
Addio al tempo in cui la sventura era sconosciuta e non temuta! Addio
sereni giorni del celibato! Addio voluttuosi giorni della luna di
miele!
E come per l'addietro si era compiaciuto di non aver figlioli,
risparmiandosi tutte le pene dell'allevamento e dell'educazione, così
adesso il povero Gaspare attribuiva alla mancanza dei figli la sua
disgrazia coniugale. E almeno avesse avuta la suocera, che per lui
sarebbe stata, adesso, di sollievo. Ridotto a desiderare la suocera!
Ma finalmente Erminia si ammalò davvero.
— Isterismo — disse il medico. — Si distragga! — E al marito —: La
distragga.
Ahi! come distrarre una creatura che preferiva Orvieto a Milano? che
non voleva uscire di casa? che non voleva veder nessuno e non conoscer
nessuno? che non parlava quasi più? E venne il dì che a Gaspare parvero
invidiabili i giorni in cui almeno si litigava.
Durante quel silenzio ostinato e irragionevole della sua signora i più
neri pensieri, i più foschi sospetti trovavano luogo pur nella testa di
Bicci; tali, che una sera anticipò d'un'ora il ritorno a casa, abbreviò
la consueta passeggiata e la sosta al caffè. Anticipare, lui, d'un'ora,
il ritorno a casa? Non solo! Non solo! Quatto quatto entrò: al buio,
nell'ingresso; poi, in punta di piedi, venne alla cucina. Buio anche
là. Avanzò allora fino all'uscio della camera da pranzo, ascoltando...;
e udì, lieve come un sospiro:
— Enrico!
Oh non aveva dunque avuto torto di sospettare! Infami!
Furibondo, irriconoscibile, quale un uomo che non s'è adirato mai
in vita sua, Gaspare spalancò l'uscio.... E la signora e la serva,
senza far motto, lasciarono andare il tavolino su cui avevano tenute a
contatto le mani.
— Via! Via di casa mia! Fuori di qua! Domattina.... A te! A te! — e con
voce strozzata, dopo avere indicata la porta, il padrone trasse, gettò,
venti, trenta lire alla serva che lo contemplava stupita.
— Vattene! Vattene!
— Ma cosa ho fatto?
— Tener mano!... Via! fuori!
— Ma che male c'è? — cominciarono a dire insieme le due donne.
— Via! Via!
Sempre più minaccioso, con la destra in alto, lui, Bicci, Gaspare!,
spinse con la sinistra la serva al di là dell'uscio e si volse. Erminia
sorrideva sarcastica.
— Sei impazzito? — ella chiese. — Non m'hai insegnato tu? non mi dicevi
tu che faceva così tuo zio?
A tanta audacia, a vedere e a udire l'uso che la sciagurata aveva
fatto e faceva d'una confidenza ricevuta al tempo della luna di
miele, Gaspare non trovò più parola: perdè forza o fiato: cadde a
sedere su di una seggiola e si strinse il capo tra le mani. Muoveva
a pietà; quantunque Erminia sorridesse sempre. Poi scotendo il capo,
tranquillamente, ella si mise a leggere il giornale.
«Siamo seri! Ragioniamo!» in quel mentre Gaspare diceva tra sè, già
stupito lui stesso d'essersi lasciato trasportare a tal punto. «Vediamo
un poco.... Può darsi che sia da considerare, questo fatto che mi ha
esasperato, come uno scherzo, un gioco, un innocente passatempo....
Ma no: è una cosa tremenda; che faceva terrore a un filosofo quale mio
zio.... Un'esperienza? È in questo caso un delitto! un delitto enorme;
tant'è vero che non è nemmeno contemplato nel codice! Sì, un tradimento
mostruoso...: intendersi con l'amante morto quando il marito è vivo!
Orribile!... Eppure, Erminia ci ride...; e anche la serva non ci vedeva
niente di male.... La scienza positiva ne ride.... Ma insomma!, io ho o
non ho il diritto di riposare almeno la notte? di dormire i miei sonni
tranquilli?...»
Dopo di che egli s'alzò e parlò con voce tremula e bassa:
— Erminia, a te sembra una cosa da nulla quella che a me sembra una
colpa grandissima. Un accordo tra noi due non è dunque più possibile;
bisognerà venire alla separazione.
Erminia aveva alzati gli occhi a guardarlo impavida. Gaspare proseguì:
— A ogni modo, prima, interrogherò il cavalier Squiti....
Solo a quest'ultima parola Erminia impallidì, si fece seria; e quindi
scoppiò in pianto dirotto, e cominciò a lamentarsi e a scongiurare:
— Hai ragione, Gaspare! Perdonami! Ti giuro che non lo farò più.... Mai
più!
Fosse la soggezione e il tedio ch'ella sentiva, anche da lontano, del
cavalier Squiti, o la paura di essere ancora condannata al clarinetto,
il fatto fu che mai un marito ingannato ebbe la consolazione di veder
pentita la colpevole come Gaspare vide Erminia, quella sera.

XIII.
Nè mai sarebbe stato così giusto il proverbio che tutto il male
non viene per nuocere, se Erminia avesse seguitato a lungo nel buon
mutamento. Riprese a uscire di giorno e di sera; riprese a discorrere
e, grazie a Dio, senza litigare. Ma tanta felicità poteva durare un
pezzo?
E sopravvenne di nuovo la noia nell'animo dell'isterica donna, con
la intollerabile intolleranza d'ogni cosa, d'ogni persona; nessuno al
mondo avrebbe saputo da che lato prenderla. Non poteva soffrire neanche
le persone che avessero avuta qualche somiglianza di gusti con lei.
Infatti una volta all'_Eden_, ove egli si divagava ma si annoiava
Erminia, Gaspare scorse, non più rivisto da anni, il più caro compagno
e più allegro amico della prima giovinezza: Gino Monarchi, un pittore
già in fama a Parigi; e benchè ricordasse il consiglio dello zio
«Sta lontano agli artisti» (il povero zio l'aveva anche esortato ad
ammogliarsi!), egli lo chiamò:
— Ehi, Monarchi!
— Oh! Chi vedo!... Bicci!
— Tu, qua?
— Tu, qui?
A un abbraccio cordiale e a baci fraterni tenne dietro la presentazione
della signora.
Il Monarchi era un bel giovane; forse troppo elegante, con la caramella
all'occhio destro e copiosi capelli alla simbolista; ma un parlatore
delizioso, un osservatore arguto. Parlò d'arte, di Parigi, fino
d'Orvieto. «Erminia ne resterà contenta» pensava Gaspare. Invece, chi
lo crederebbe?, quando se ne fu andato Erminia disse:
— Mi è molto antipatico, il tuo amico! Se verrà a trovarmi prima di
partire, farò dirgli che non sono in casa.
Nè del Monarchi si discorse mai più; nè più lo rividero, tranne, da
lungi, due o tre sere a teatro.... A teatro?
Sì, Erminia ebbe all'improvviso questa nuova smania, una nuova pazzia!
Convinta che per essere notati a Milano bisognava spendere, si mise
a spendere e a spandere rovinosamente in gioielli e abiti; e dal suo
palco pretendeva insegnar «il buon gusto nella moda» alle milanesi!
«Non basta seguire la moda!» diceva.
Come il marito l'ammonì che non erano abbastanza ricchi da impartire
cotesto insegnamento, ella gli si scagliò contro:
— Perchè mi hai sposata, se non puoi mantenermi? Dov'è la mia dote?
Quando, con chi l'hai consumata? — E così via, fino a giungere allo
svenimento e alle convulsioni.
C'era da temere si rinnovassero anche le invocazioni di «Enrico!
Enrico!» e le pratiche spiritiche. Per evitar tutto ciò Gaspare lasciò
dunque correre, rassegnato alla rovina. «Qualche santo — pensava — mi
aiuterà».
E infatti un bel giorno Erminia si disse stanca; desiderosa di quiete
e di solitudine. Un santo era intervenuto.
Ma troppa grazia! Perchè essa cominciò anche a meditare il suicidio;
e lo diceva. Che giorni per un marito di cuore e di coscienza! Mentre
a casa attendeva quali ore di tregua le ore dell'ufficio, all'ufficio,
lui, il povero marito, dubitava di trovarla, al ritorno, impazzita del
tutto, oppure asfissiata.
Un Calvario! E non era più possibile tirare avanti un pezzo così. E
solo un colpo di fortuna poteva ridar la pace a Gaspare Bicci.
*
Verso le cinque pomeridiane egli saliva le scale di casa sua, superando
ogni gradino con lo sforzo di chi ascenda al patibolo.... Quand'ecco,
era appena davanti all'uscio, che l'uscio si spalancò alla disperazione
della cuoca.
— La signora.... non c'è più!
Morta?
— Dov'è andata? — chiese lui, livido e anelante.
— Dove sarà andata? — chiese, per risposta, la donna.
Nell'angoscia Gaspare rispondeva a sè stesso: «Ad annegarsi. È finita!
Ma che guaio!»
— Di', parla! A che ora?...
— Dopo colazione, è uscita con la valigetta.
Ad annegarsi con la valigetta?
— E non ti ha detto nulla?
— Sissignore; che c'è una lettera per lei, su lo scrittoio.
— Ah! Meno male!
Si precipitò nello studio. Lesse:
«_Gaspare_,
«Io ti ho reso molto infelice.... Lo riconosco lealmente, e ti giuro
che mi annegherei se non fossi persuasa di saper rendere felice
Gino Monarchi. Vado con lui a Parigi. Tu vieni in Francia: vi faremo
divorzio; così sarai libero di trovarti una donna degna di te. Addio.
«_Erminia._»
— Sciagurato! — gridò Gaspare volto il pensiero al traditore.
Per altro, gli sembrava che una mano benefica gli levasse, o dalle
spalle, o dal petto, o dal cuore — non sapeva da qual parte, certo
d'addosso — un enorme peso; e tant'era il sollievo, che gliene conseguì
una mitigazione all'ira, un senso di dolcezza; e tant'era buono, Bicci,
che a poco a poco il sollievo e la dolcezza gli si convertirono in un
senso di pietà.
«Sciagurato! — ripetè, a bassa voce. — S'accorgerà presto di qual
natura è quella donna!» «Dopo tutto — aggiunse in un risveglio
d'irresistibile letizia —, meglio a lui che a me!»
E quasi fuori di sè medesimo, o piuttosto ritornato interamente a
se medesimo, da morte a vita, scrisse — senza nemmeno riflettere che
arriverebbe prima lui della lettera —:
«_Caro Luigi_,
«Un amico mi ha portata via la moglie. Sono salvo, libero, felice;
l'uomo più fortunato del mondo! E corro a Bologna da te.
«_Il tuo Gaspare._»


Una “scampanata„.

In Romagna.
Tornavano dalla parrocchia, dopo i vesperi, frotte loquaci di donne,
uomini e fanciulli e coppie amorose, sorridenti o serie nel loro
bisbiglio; i dami col garofano all'occhiello.
Una gran dolcezza primaverile calava dal cielo, ove serenamente moriva
il lume crepuscolare e, sensibile e ineffabile, si effondeva dalla
terra ove il nuovo verde pareva velarsi a poco a poco e oscurarsi e,
lontano, sparire. Come due ragazzi s'arrestarono per tirar sassate in
un ricovero di passeri, nel fitto del cinguettio, il nonno d'uno di
loro ammonì a voce aspra:
— Lasciateli stare, poveri animalini! — Ubbidirono; lanciarono i sassi
nel fiume; e nel ricovero di fronde le piccole voci ripresero richiami,
proteste, confidenze, querele, saluti.
A un punto della strada, la Faziòla e Fulgenzio, che venivano fra gli
ultimi, l'uno dal lato destro, l'altra a sinistra, si videro.
— Buona sera, Fulgenzio.
— Buona sera, Faziòla.
— Il sole è calalo bene. Avremo bel tempo anche domani.
— Ce n'è bisogno.
— Dove siete a lavorare, adesso?
— Vanghiamo le vigne.
— Sarete in molti.
— Quindici o sedici.
— E han fatto «caporale» Giulio, eh?
— Giulio.
— Povero Fulgenzio! Non c'era era ragione di farvi torto.
— Chi comanda ha sempre ragione.
Dopo una pausa lei chiese:
— Ma è vero quel che dicono?
— Dicono.
La loro malignità non andava più oltre dell'accennare alla ciarla che
Giulio dovesse ai meriti della moglie la nomina a capo degli operai
braccianti.
— Per fortuna non avete famiglia da mantenere, voi.
— Oh! io mi contento che Dio mi lasci la salute. Ma.... — E l'infelice
guardò la Faziòla sorridendo in quella sua maniera di bontà ingenua per
cui appariva men brutto e più triste: — .... Ma se mi viene una febbre,
io non ho un cane che mi porti una goccia d'acqua.
Allora, quantunque compiangesse lui, la Faziòla sospirò per sè.
— Meglio non aver nessuno, che aver dei cani, per modo di dire, che vi
porterebbero via il boccone di bocca, se potessero.
— Non vi trattan bene in casa?
Essa volle attenuare.
— Capirete anche voi: le annate vanno scarse e uno di più in famiglia,
aggreva.
— Ma voi lavorate.
— Questo è vero. C'è la tela da fare? Tocca a me. C'è da rappezzare la
roba? Tocca a me; la sera o la mattina. Al dì, o si va alla foglia, o
all'erba con le ragazze; o s'aiuta la reggitora. In ozio non ci sto;
quest'è vero.
Era disgraziata anche lei, la parte sua, povera Faziòla!
Quindi Fulgenzio riprese:
— Avete fatto male a non maritarvi un'altra volta, quando eravate a
tempo.
— Le vedove che non han quattrini si lascian dove sono; lo sapete pure.
Piuttosto voi, Fulgenzio, perchè non avete preso moglie?
Entrambi s'erano già dimenticati d'aver riconosciuto un vantaggio in
lui il non aver famiglia da mantenere; e lui tornò a sorridere.
— Chi volete che mi prendesse?
Infatti da giovane era anche più brutto e più magro, sembrava più
zoppo; sembrava tirasse l'anima coi denti.
— Una ragazza non dico — la Faziòla rispose. — Le ragazze han delle
pretese; ma una donna quieta....
— Trovarla una donna quieta!
Tacquero, mentre la Faziòla diceva fra sè e a occhi bassi, nel
silenzio: «Oh non c'ero io?» Almeno così egli credette, perchè sorrise
ed esclamò commosso:
— Ah, lo capisco il mio sbaglio! Avrei dovuto sposarvi voi, Faziòla!
Voi eravate proprio la donna per me.
— E io vi avrei preso, Fulgenzio!
Mormorò l'uno:
— Adesso è fatta.
— Adesso è fatta — mormorò l'altra.
Nè parlaron più finchè furono vicini a casa.
Ma quando la Faziòla stava per augurar la buona notte, lasciar la
strada e passare la siepe, Fulgenzio, fermo, si guardò attorno,
raccolse il fiato e con voce tremula disse:
— Sentite: la gente può dir quel che vuole; ma io, di una donna ne ho
proprio bisogno.
— Lo dico anch'io.
— Se voi mi voleste....
Alla proposta lei si mise a ridere forte.
— Ma siete matto? Ho cinquant'anni; sono vecchia....
— Mi volete?
Ridevano tutti e due, tanto la cosa era seria; tanto egli temeva un no
e tal voglia aveva lei di rispondere sì.
Ma vinse la ragione.
— Bisogna pensarci su, per non pentirsi dopo.
— Pensiamoci. Domenica ne discorreremo.
— Va bene. Buona notte, Faziòla.
— Buona notte, Fulgenzio.
*
Avevano una settimana per pensarci; ed era troppo; e la settimana fu
lunga. Finchè aveva sperato di migliorare un po' la sua condizione
risparmiando il corpo malconcio, Fulgenzio aveva sperato anche di
trovar donna non molto innanzi con gli anni la quale lo compensasse
della giovinezza perduta senza amore; ma cadutagli ogni speranza e
presunzione, doveva ringraziar Dio se la Faziòla lo voleva! Era una
brava donna, che a opera nei campi o a tessere, guadagnerebbe tanto da
non tornargli di peso; una buona donna da cui, quando Dio lo chiamasse
per primo a sè, avrebbe amorevole assistenza. Davvero?... Non seduceva
la Faziòla il solo interesse? Non si era sparsa voce ch'egli aveva da
parte qualche soldo? Questo sospetto lo infastidiva; ma, insomma, la
donna era buona o no? Sì, era buona. E allora, via il pensiero maligno!
Quanto a lei, la Faziòla, uscir di quella casa in cui i parenti la
trattavano da serva e le invidiavano il pane che mangiava; e faticar
meno, e vivere in casa sua, giudicava tal fortuna che a rifiutarla le
sarebbe parso d'offendere la Provvidenza. Pure un ritegno le restava.
Perchè? si sentiva il coraggio di sfidare la gente, o no....
Finalmente venne la domenica a chiuder la settimana dell'attesa e
dell'incertezza.
— Come la mettiamo? — chiese, al ritorno dai vesperi, Fulgenzio. E
sorrideva in quel suo modo faticoso.
— Ho paura del mondo.
— Io no; non ci bado io!
— Ci faranno la «scampanata».
— E che la facciano!
Egli cercò inanimirla; e tanto disse, che lei accondiscese. Pur mentre
incoraggiava, quella giusta apprensione degli scherni che turberebbero
forse per anni la loro pace; quel timore dell'avversione o della
condanna pubblica, toglieva ardimento a lui stesso e l'induceva, il dì
dopo, a interrogare l'arciprete. — A costo di spender qualche cosa, non
si potevano evitare le pubblicazioni matrimoniali? —
— Impossibile!
L'arciprete però fece coraggio a Fulgenzio: — Non badassero a rispetti
umani! —
— Un po' di meraviglia in principio, eppoi smetteranno.
— È quel che dico anch'io.
Altro che meraviglia! Fu stupore, fu ilarità mal repressa per tutta la
chiesa quando l'arciprete disse dall'altare:
— Si pubblica per la prima volta la domanda di matrimonio di Fulgenzio
Landi con la Violante Stradelli vedova Faziòli.
E, dopo, la fidanzata non osava più uscir dalla porta di casa,
avvelenata in casa dalle canzonature dei nipoti e dei pronipoti; nè il
fidanzato osava cercarla. Essa ignorava in che modo resisteva lui alla
tempesta. E Fulgenzio sorrideva e taceva.
«Presto o tardi smetteranno!»
Altro che smettere! Dio sapeva quel che preparavano per il dì delle
nozze!
Fortunatamente l'arciprete ebbe un buon consiglio; e allorchè, nel
gran giorno, la gente accorse alla prima messa per assistere allo
sposalizio, apprese che da due ore gli sposi eran già fatti e che già
erano a casa loro.
— Stamattina ce la siam cavata — sospirava la Faziòla. — Il peggio sarà
stasera.
Ripeteva Fulgenzio:
— Non ci pensate.
Intanto si vedeva che lui ci pensava.
Attendevano, intanto, a riordinar la casa, oh senza alcuna smania di
sposi novizi!: irritati, al contrario, che a loro due, così quieti e
consapevoli degli anni e dei malanni che portavano addosso, il mondo
attribuisse simili sciocchezze.
Molte erano le faccende. Anzitutto, il letto, primo talamo della
Faziòla, da riconnettere; e i pagliericci da riempir di foglie, e
i cuscini da rifare; quindi, ripulire le masserizie, riordinare e
spartire la biancheria e i panni che meritavano rattoppi; e nettar la
cucina in modo che non ci fosse da vergognarsi nemmeno se v'entrassero
l'arciprete e il fattore.
— Ah le mani d'una donna! — diceva Fulgenzio strofinando, dentro, il
paiolo.
Inoltre, si prepararono il desinare di nozze con le tagliatelle in
brodo e il lesso.
— Sono dieci anni che non ho sentito un poco di manzo; da quando si
maritò mia sorella — confessò Fulgenzio.
Similmente la Faziòla gustava il vino.
— Buono! Buono! Non me ne davano mai, in casa, a me!
E, d'improvviso, il vino le fece concepire l'idea mirabile, che schiarì
del tutto il malumore in entrambi. Se dessero da bere agli offensori?
— Ho fatto un pensiero curioso — lei disse. — Se dessimo da bere?...
Fulgenzio ascoltava, sorridendo; approvando,
— Sì, sì! Un bel pensiero! Sicuro!... Rideremo! — E rideva.
— Il vino dove lo mettiamo?
— In un bigoncio.
E poco dopo egli fermò il bigoncio nella carriola; e andò alla fattoria
a riempirlo di quello buono.
Ma al ritorno vide la moglie desolata, pentita d'averlo indotto alla
grave spesa.
— Ne avremmo tante delle spese da fare! — Infatti mancavano di questo;
mancavan di quest'altro....
Allora Fulgenzio si sentì in obbligo di consolarla; di rivelarle il
segreto contenuto nell'animo a fatica. Trasse dalla tasca della giacca
il libercolo.
— Guardate qui! Non siamo poi disgraziati come vi credete.
— Cos'è?
— Il libretto della cassa di risparmio.
Essa aveva spalancati gli occhi; guardava; ma non sapeva leggere.
— Dice — spiegò Fulgenzio — che ci ho settecento franchi, senza i
frutti.
— Ma vi fidate voi a lasciarli in mano di altri?
— Eh! alla cassa....
— Io no: io non mi fido di nessuno! Volete vedere dove li tengo, io?
Salirono nella camera del talamo. Ivi lei, rimestato che ebbe in
fondo alla cassapanca, elevò la calza trionfale, sonante e gravida del
gruzzolo; e disse, sgroppandola e riversandola sul letto:
— Contiamoli. Non so neanche quanti me ne abbia.
Il marito aveva le lagrime agli occhi men per la gioia che per
il rimorso di quel suo dubbio, che la donna l'avesse sposato per
interesse. In un'occhiata si vedeva che dei quattrini n'aveva più lei!
Altre lagrime, non di gioia, non di rimorso velavan gli occhi della
moglie.
— Sono quei pochi — disse — che mi rimasero dopo la morte di Faziòli,
e quelli che misi insieme a vendere la roba quando perdei il ragazzo.
Ma se fosse vissuto il suo figliuolo, oh no, non avrebbe pensato a
rimaritarsi, a cinquant'anni!
— Povera la mia Faziòla! — esclamò, intenerito, Fulgenzio.
Per impedire ogni tenerezza e per sottrarsi alla dolorosa memoria, lei
ripetè:
— Contiamoli.
Cominciarono il conto, il loro sguardo si riaccendeva mentre
distinguevano le monete e le ammucchiavano sorte per sorte, ed
enumeravano i biglietti di banca; mentre il vino, a cui non erano
avvezzi, ferveva loro nel sangue. Così, a poco a poco, i diversi
sentimenti si confusero in una gioia comune.
E il marito non potendo terminare il conto, distese le magre braccia a
un timido abbraccio.
— Povera la mia donna!
Lei sorrise.
Fu un momento. In quel momento avrebbero dato fors'anche il libretto
della cassa e tutte quelle monete per tornare indietro di dieci anni;
ma la sposa subito tornò in sè:
— Sono vecchia, Fulgenzio!
Nè lui insistette; ebbe anche lui la coscienza della sua propria
insania; e ripresero il conto.
*
.... La turba frenetica avanzava avanzava. Era una gara a chi
strepitasse più forte: un fracasso di secchi battuti a furia; di
cassette di latta bastonate senza tregua; di coperchi picchiati
l'un contro l'altro come piatti striduli; di campanacci — quelli che
s'appendono al collo de' buoi per la fiera — scossi da instancabili
mani; e corna di bue roboanti, e voci umane fatte bestiali: grugniti,
gallicini, ragli, fischi. Un ex soldato, trombettiere, si sfiatava
nel suo strumento; un cacciatore, con meno fatica, sparava a quando
a quando colpi di schioppo all'aria, e due cani abbaiando e latrando
s'introdussero nella compagnia.
La dimostrazione veniva solenne, memorabile. All'infernale sollazzo
dava motivo e impeto l'oscura coscienza rusticana, avversa a che
la vecchiaia presuma cosa da giovani, e offesa da una vedovanza
interrotta. Nessuno di coloro pensava certo che invece di schernire un
connubio ridevole e sozzo, scherniva l'alleanza di due povere anime e
di due timorosi egoisti condotti dalla fortuna a reciproco soccorso.
Ma la Faziòla e Fulgenzio ridevano.
— Sono qui! — disse la donna. — Vado a smorzare il lume.
A posta, per far credere che erano a letto e per accrescersi il piacere
dell'improvvisata, l'avevano acceso nella camera nuziale.
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