Novelle umoristiche - 10

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Quindi, al mancar di quella luce, le oscene grida e le risa superarono
tutti i suoni.
— Adesso accendiamo il lanternino.
Così fecero, nascosti sotto la scala; e attesero.
— Bisogna lasciarli un po' sfogare — ammoniva Fulgenzio.
— Sentite la voce di Mauro?
— E quel della tromba chi sarà?
— È Martino dell'Argine.
— Che matti!
— Vogliamo ridere!
Ma in quel punto il cacciatore sparò due colpi.
— Anche delle schioppettate!
E la moglie:
— Non ci faran del male, eh? Quando si è matti!...
— Lasciatemi andare innanzi.
Innanzi lui, con la carriola su cui il bigoncio; dietro, andò la donna
col bicchiere e il lanternino.
A quell'apparizione improvvisa, chi tacque un istante, chi sonò o
soffiò con più lena; e in massa tutti s'appressarono alla porta.
_Miauu...; chicchiricchì...; ohn: ohn: ohn!...; buum buum buum...;
taratatà taratatà, taratatà...; cococodè!...;_ e, prevalenti,
strazianti, i _cian cian_ dei metalli e il _dan dan_ dei campanacci.
— Bravi ragazzi! Bravi! Venite a bere!... Ohe!... gente! Chi vuol bere?
— Vino buono, vino buono! — ripeteva la Faziòla. — E di cuore, ragazzi!
Súbito porse il bicchiere pieno a colui che ebbe di fronte. Quegli
lasciò cadere la secchia disarmonica per bere d'un fiato, e gridar
dopo:
— Viva gli sposi!
— A voi! — disse la sposa riempiendo a sua volta il bicchiere per un
altro.
Gli ultimi, di dietro, sospingevano: — Cosa c'è? — Cosa fanno?... Dan
da bere! — Un bigoncio! — Ohe! ci siamo anche noi! — Vino!
Di súbito la meraviglia, l'ammirazione e un senso quasi di gratitudine
avevan còlti gli animi; di súbito, secondo avviene nella gente rude, i
cuori s'erano aperti a un sentimento nuovo, opposto.
Non come altri, nella condizione loro, la Faziòla e Fulgenzio avevano
gettato dalla finestra, per vendicarsi, immonde cose o inani minacce;
o non avevan taciuto, essi, in una vile rassegnazione; ma passavan da
bere, e vino buono! Succedevano alle grida folli e ai motti sconci,
voci di gioia e motti che esprimevan benevolenza; e tutti in una volta.
— La fanno da signori, gli sposi!
— Viva gli sposi!
— Ehi! Faziòla! Il primo che nascerà voglio tenervelo io al battesimo!
— Guardatevi dai compari, Fulgenzio!
— Adesso che ha moglie, Fulgenzio diventerà caporale anche lui!
— No, no! la Faziòla non gli farà torto!
— Fulgenzio è geloso!
— Fulgenzio è pacifico!
— Viva gli sposi!
— Viva l'allegria!
Il trombettiere impose silenzio.
— Zitti! state zitti! — e avventava scapaccioni ai ragazzi più ostinati
nel frastuono. — Adesso gli sposi ballano la monferina! — La proposta
fu accolta da applausi; la monferina fu intonata dalla tromba, cantata
e zufolata; mentre altri tentavano di convincere Fulgenzio, il quale si
schermiva con ambedue le braccia.
— Ho gambe da ballare io, matti che siete? — Rideva dimenandosi fra le
mani e le braccia che l'urtavano, lo spingevano.
— Avanti! Forza! — Forza, Fulgenzio!
— Lasciatemi stare! Lasciatemi andare!
Ma la Faziòla diede al marito la prima prova di abnegazione; una gran
prova, anzi, di virtù. Comprendendo che per acquetarli era necessario
che lei almeno accondiscendesse, tosto s'adattò al ballo con l'agilità
e la disinvoltura de' suoi vent'anni e del ballerino che combinò a
saltarle di contro.
Ebbene: la virtù fu premiata; Fulgenzio lasciato tranquillo; e, per
emulazione più che per burla, i giovani gettarono i recipienti sonori,
i campanacci e i corni; e in mancanza di donne, si misero a ballare
tra loro, intanto che Fulgenzio attingeva e offriva il vino attorno con
viso lieto.
— Chi ne vuole, ragazzi?... È poco, ma volentieri.... Finchè ce n'è!...
Di cuore!
Quando egli ebbe vuotato il bigoncio e il trombettiere perduto il
fiato, tutti ripresero gli strumenti del baccano.
Adesso però ciascuno dava dentro nel suo con l'anima d'un inno glorioso.
.... — Felice notte!
— Viva gli sposi!
— Viva l'amore!
— Viva l'allegria!
*
.... E finalmente gli sposi andarono a letto, felici per il sollievo
del peso che aveva preoccupato a lungo il loro animo; per il piacere
d'una vittoria guadagnata, in disuguale battaglia, con l'astuzia; per
la gioia d'essersi sottratti, anche in avvenire, a beffe o biasimi,
meritando invece indulgenza e benevolo ricordo.
E aggiungendosi a ciò un eccitamento intimo, di reciproca gratitudine,
e la certezza di giorni meno tristi, forse ebbero allora la
persuasione! che avevano saputa togliere agli altri l'illusione, che
a torto prima presupposta in essi, aveva indotta la terribile turba a
tanto sbattere, gridare e scampanare.


Il polso.

Nel settecento:
per i mariti d'oggidì.
Difficile dire se il conte La Fratta amasse più sè stesso o la marchesa
Arnisio; ma poichè per acquistarsi dal mondo e dalla marchesa la lode
di cavaliere perfetto e per secondare gli stimoli del cuore insisteva
da un anno a servire con cura paziente e con indulgente costanza una
dama così mutabile di pensiero e di animo, egli certo amava troppo
sè stesso e oltre il necessario a un cavalier servente egli amava
l'Arnisio.
A dire il vero, e a sua scusa, ella esercitava tuttavia su di lui
l'attraenza dell'ignoto e del nuovo; la virtù quasi d'un fascino
arcano; quantunque, a dire il vero, egli in un anno n'avesse conosciute
molte singolarità e usanze e malizie. Già sapeva La Fratta quando fosse
bene contrapporsi e quando fosse meglio accondiscendere a quello che
alla dama piacesse affermare; già aveva appreso a distinguere su le
sue labbra rosate tutti i gradi di sprezzante pietà e d'ironia sottile
che vi segnasse il sorriso; già comprendeva tutto quanto comandasse
o esprimesse dalla sua abile mano il ventaglio irrequieto: anche, tra
lui e lei, quand'ella aveva l'emicrania — ed era spesso — l'esperienza
e la consuetudine avevano sancita una specie di prammatica ai modi
e ai discorsi d'entrambi; e a lui toccava parlare di mille cose per
divagarne il pensiero doloroso e pesante, e a lei bastava rispondere,
a diritto o a rovescio, no, sempre no, o sì, sempre sì.
Questo ed altro il conte sapeva della marchesa; ma una cosa non
sapeva: se ella avesse il cuore o non l'avesse. «L'ha o non l'ha?»
egli si chiedeva ogni giorno, e addentrandosi ogni giorno più nella
ricerca dell'ignoto n'era più avvinto dal fascino; cosicchè ogni giorno
più s'innamorava della dama e di sè, che con sua gloria resisteva a
servirla.
Finalmente l'Arnisio, agli scatti di stizza e alle bizze nel brio e
alle arie annoiate alternando gli accordi e i riposi e gli assensi,
cominciò ad accarezzarlo di certe occhiate tanto lunghe e sentimentali
ch'egli credette di giungere a proda: il sentimento deriva dal cuore;
dunque il cuore l'aveva! Nè il cuore della marchesa doveva battere per
altri che per lui, che da un anno la serviva con cura paziente e con
indulgente costanza; non per altri. Ond'ecco La Fratta a studiare di
quale e quanto e quanto duraturo amore fosse capace il cuore piccoletto
della graziosa Arnisio. Perchè ella non aveva con lui quelle espansioni
compiute, quei confidenti abbandoni e neppure quei moti meditati o
spontanei di gelosia che tutte le donne amando, o fingendo d'amare,
sogliono avere. E nello studio La Fratta aguzzò così i suoi occhi e
il suo pensiero a leggere nel pensiero e negli occhi della dama che,
ahimè!, troppo credette d'apprendervi.
Le ire e i languori; le inquietudini fanciullesche e le remissioni
di donna usata alla vita; i capricci, le allegrezze, le noie traevan
forse cagione non solo dall'indole bizzarra, ma da un intimo, segreto
travaglio che le eccitava e tribolava lo spirito: lo sguardo di lei,
spesso stanco o vagante e la voce spesso velata e mesta, dicevan forse
che il suo spirito vagava dietro un inafferrabile bene, finchè, con
uno sforzo mal nascosto di volontà, non le riuscisse di riaversi o
mentire; e allora abbondava di cachinni e di frizzi, cattiva a un
tempo e vezzosa. Anche, l'assiduo disturbo dell'emicrania, invece che
la simulazione d'un malanno alla moda, poteva essere la dissimulazione
di un urgente rovello; gli sdegni di lei contro lui non erano forse,
come egli aveva sempre creduto, modi di civetteria sagace, ma più tosto
non rattenuti impeti di sfogo sincero; e quelle carezzevoli occhiate,
quelle occhiate lunghe e sentimentali, potevano non essere tardi e
magri compensi alle fatiche della sua servitù, ma, tutt'al più, segni
di compassione per lui in una confessione oramai manifesta: «Il cuore
l'ho, oh se l'ho!; ma non per voi, povero conte!» Or bene, il conte
La Fratta non disse alla marchesa Arnisio come Publio a Barce nel
melodramma del Metastasio:
Se più felice oggetto
Occupa il tuo pensiero,
Taci, non dirmi il vero.
Lasciami nell'error!
È pena che avvelena
Un barbaro sospetto;
Ma una certezza è pena
Che opprime affatto un cor;
no: i due amori, l'uno della dama e l'altro di sè, che premevano
l'animo del conte e vi si rafforzavano senza confondersi, lo
sospingevano ad accertare la verità; l'uno, perchè chi è innamorato
talora dubita a torto; l'altro, perchè, se non dubitasse a torto, egli
ritraendosi a tempo non compromettesse la sua dignità e la sua fama di
_cavaliere di spirito_.
Bel tema, è vero?, sarebbe stato per una satira il caso d'un patito
che con zelante servitù e con dabbenaggine inconscia facesse riparo
all'amore ignoto della sua dama!; e La Fratta aveva in odio le satire.
O, dunque, la marchesa amava alcuno di quelli che le farfalleggiavano
intorno, il quale, come minore del conte, ella non potesse assumere
a servirla senza scapito agli occhi del mondo; o amava chi attendeva,
incurante o ignaro di lei, ad altra dama della quale ella fosse gelosa.
E come ella avrebbe lasciato La Fratta nel dubbio, ed egli non voleva
restarci, egli interrogava il mistero, scrutava, investigava. Ma
invano: tal donna era l'Arnisio che davanti a niuna persona e in niuna
circostanza perdeva il predominio di sè; nè mai, appuntando i suoi
sospetti su questo o su quello che a lei fosse d'intorno, il conte
riusciva a sorprenderle in volto ombra alcuna di rossore o di pallore,
di smarrimento o di vergogna. Il mistero per La Fratta permaneva fitto,
fosco, quasi spaventevole; e il suo caso diveniva pietoso e tendeva a
diventare ridicolo.
Ond'eccolo a richiedere di consiglio l'abate Fantelli: un abate di
umore giocondo e di mente arguta, caro a tutte le dame di cui conosceva
le corde più sensibili al tocco delle sue allusioni e de' suoi frizzi,
nè men caro agli amici, cui giovava d'esperienza e di senno.
L'abate consigliò: — Tastale il polso.
Come La Fratta non comprendeva, quegli aggiunse:
— Nè i palpiti del cuore nè i battiti del polso si possono frenare.
Allorchè ricorderai alla marchesa il tuo rivale sconosciuto, il suo
cuore batterà più forte, e non potrai sentirlo, ma il suo polso batterà
più in fretta e tu potrai sentirlo.
Al conte questa parve un'invenzione mirabile. L'abate continuò:
— Non si falla; ma ricordati che io confido la ricetta alla tua
segretezza.
— Son cavaliere! — rispose La Fratta. E corse dalla marchesa Arnisio.
*
Essa, all'entrare del conte, era abbandonata sul canapè con la testa
reclinata mollemente e la mano sinistra su gli occhi. Ai passi lievi
dell'amico non si mosse; e al saluto di lui e al bacio di lui su la sua
destra, rispose con un sorriso ambiguo, meno soave che doloroso.
— L'emicrania, eh? — domandò La Fratta.
— Sì — rispose ella in tono flebile.
La Fratta sospirò triste pur godendo d'un'emicrania almeno quel giorno
opportuna a' suoi fini.
— Chi l'avrebbe detto ierisera? — seguitò egli, non per rammentare il
tempo felice nella miseria ma per avviarsi súbito alla meta. Prima però
chiese: — Desiderate un po' di melissa?
— Sì — ripetè la marchesa, perchè di prammatica quel giorno era il sì;
e trasse un breve sorso dalla boccettina che l'amico le accostò alle
labbra.
— Che sguardo febbrile! — disse il conte prima ch'ella riabbassasse
le pálpebre; e sedutosi a lato di lei e recatosi il cedevole braccio
di lei su le ginocchia, con le due prime dita ne cercò il polso
attentamente.
Toc.... toc.... toc...: nelle arterie, che rigavano d'una trama
azzurrina la bella carne bianca, il sangue perveniva dal cuore pulsando
all'avambraccio in misura placida ed uguale.
— Chi l'avrebbe detto ierisera? (il conte riprendeva il cammino).
Corgnani giurava di perdere a tarocchi perchè lo costringevate a
guardarvi, tanto eravate leggiadra; Travasa sostenne d'avervi ravvisata
a Versailles in una procace figurina di Boucher o di Fragonard;
Terenzi proclamò che nessuna dama di Parigi saprebbe ballar meglio di
voi il _paspié_. — E ristando, per prudenza: — No — disse — non avete
febbre. — Pure, come più d'una volta aveva profittato dell'emicrania
per tenere a lungo nelle sue una mano della dama, ritenne invece
il polso, e riandando le vicende della sera innanzi, passata con
lei alla conversazione di una dama illustre, e riferendone vanità e
pettegolezzi, con abile arte potè nominare coloro di cui aveva maggior
sospetto. Ma il polso batteva sempre uguale e placido.
«Se non è questo, se non è quello, chi sarà?» domandava intanto La
Fratta a sè stesso. «Quello non può essere: proviamo quest'altro.»
Proseguì nell'esame e nella tentazione a quel polso ritmico e muto
sinchè ebbe percorsa invano la via che si era proposta. Oramai
retrocedeva; s'ingarbugliava in nuove ipotesi; s'imbrogliava in nuovi
dubbi. Infine, s'appigliò a chi gli capitò dinanzi al pensiero:
— Il duchino, eh?, il duchino sdilinquisce per l'Arboldi;
sdilinquiscono tutt'e due, il duchino e vostro marito.
Oh Dio! gli era parso che il polso affrettasse; gli era parso; ma non
era possibile che il sangue di una dama come la marchesa Arnisio si
commovesse al ricordo di un vagheggino quasi adolescente! Per altro, la
marchesa era così strana....
— Io credo — riprese egli — che l'Arboldi non preferirà quel bamboccio
a un cavaliere qual è vostro marito. — Non c'era più dubbio! La
marchesa amava il duchino; amava — strana donna! — il frutto acerbo!;
il polso che aveva confessato era lì pronto a ripetere la confessione.
Il duchino! Per prima vendetta il conte volle discorrere e burlarsi
di lui affinchè, magari, la capricciosa dama arrabbiasse o magari,
piangesse, svenisse. Ma il sangue nell'arteria rifluì placido ed
uguale.... E solo allora, trasecolando, La Fratta ebbe un'idea, un
lampo, quasi un fulmine: — il marito?... — Parlò del marito.
E nessun dubbio: a parlare del marito e dell'Arboldi il polso
precipitava, martellava, scottava! Come scottato, il conte abbandonò il
braccio della dama e balzò in piedi. Stupito, stordito, non sapeva più
che si dicesse. Diceva:
— Dunque, se l'abate Fantelli.... No, non è possibile! — Ed era
possibile!... Appena si fu ricomposto, senza esitare, rapido, asserì:
— Voi siete innamorata, marchesa! Voi siete innamorata; ditemi, non è
vero?
— Sì — rispose la dama; ma poteva essere il sì di prammatica.
— Siete innamorata di.... vostro marito!
La Fratta s'aspettava una risata dinegatrice. Invece la dama, la quale,
meravigliata anch'essa, era per gridare — Chi ve l'ha detto? —, la dama
ebbe tant'ira di scorgersi scoperta nel suo segreto, e scoperta dal
conte, e sentì tant'odio per il conte, che frenò la curiosità e tacque.
— È vero? — incalzava l'altro —: di vostro marito?
— Sì! — E questo non fu il solito sì; fu un sì aspro, secco,
trafiggente. L'altro continuò:
— E voi fino ad oggi avete sofferta la mia servitù solo per la moda?
— Sì!
— .... e io vi ho annoiato sempre, sino ad oggi, senza accorgermene?
— Sì!
La Fratta divenne rosso. Ma era cavaliere, e si contenne.
— Dunque — conchiuse solennemente — non vi annoierò più, signora
marchesa! Solo permettetemi l'ultimo consiglio: se non volete far
ridere il mondo, non riferite questo nostro colloquio all'abate
Fantelli. — E per un supremo sforzo di galanteria cercò di baciare la
destra dal polso febbrile e loquace. Ma la marchesa ritrasse la destra;
ond'egli, senza guardarla, di corsa uscì dalla camera.
La tenda era appena ricaduta dietro di lui quando la dama, alzatasi
vispa e gaia come quella che da un mese non aveva avuta emicrania, con
un lungo sospiro di soddisfazione esclamò: — Finalmente!
Indi si chiese: «Perchè non dir tutto all'abate Fantelli?»
Egli solo, infatti, avrebbe saputo spiegarle da che mai il conte avesse
ricevuto la rivelazione improvvisa. «Gli dirò tutto — fece —; e che
egli rida e il mondo rida! Anzi!»
Infatti porgendosi vittima volontaria alla derisione del mondo,
ella dava al marito una prova d'amore sublime fino al sacrificio, e,
sollecitato e disposto da quella al suo amore, il marito non avrebbe
più resistito — n'era certa — alle altre prove e più seducenti prove
del suo amore.
*
Intanto La Fratta, di ritorno dalla dura battaglia, contemplava la
gravità della propria sconfitta e cercava rimedio a quello de' suoi
affetti che dolorava ferito: l'affetto di sè; giacchè l'altro pareva
rimasto estinto di colpo. Rifletteva il conte che raccomandando alla
dama di tacere, aveva obliato la natura di lei, e che s'ella parlasse
— e parlerebbe — il mondo riderebbe di lui e non di lei, della
quale, tanto era stramba, nulla poteva sorprendere. Anzi, mentre egli
considerava fra sè il capriccio di lei, si stupiva di non essersene
accorto prima; e si rassegnava a giudicar quel capriccio meno enorme di
quanto l'aveva giudicato prima.
Il marchese Arnisio era un bel giovane, alto, pallido per sangue nobile
da secoli, con modi di secolare nobiltà. Che meraviglia se la moglie,
gelosa della dama la quale egli serviva, se n'era accesa a dispetto del
mondo e del cavalier servente?
E l'orgoglio del conte dolorava; e l'altro affetto, quello della dama,
che ancora non era spento del tutto, sussultava d'un ultimo spasimo.
Peggio, assai peggio che la derisione del mondo, sarebbe la derisione
della marchesa quand'ella innamorasse e seducesse il marito!
Perciò il battuto, fugato, disperato La Fratta concepì il disegno di
salvare il suo decoro e la sua dignità nella stima del mondo e nella
stima della marchesa.
Ond'eccolo in cerca del marchese Arnisio. Lo trovò per istrada; e al
saluto di lui non fece nè parola nè cenno. L'Arnisio gliene chiese la
causa, e della risposta fu così poco contento da ammonire La Fratta
che non salutare chi merita rispetto e onore è villania. Ma poichè la
taccia di villania a chi merita rispetto e onore è grave ingiuria, il
conte trasse la spada: trasse la spada il marchese; e al terzo colpo la
lama del conte segnò di rosso la destra dell'avversario.
Pronto il marchese strinse con la pezzuola di batista il taglio che non
era profondo; poi domandò, senz'ira:
— Ora mi direte perchè un cavaliere come siete voi ha voluto attaccar
briga con un cavaliere come sono io.
— Per provarvi — rispose La Fratta alla dimanda che s'aspettava —; per
provarvi che se da oggi in avanti non servirò più vostra moglie e non
entrerò mai più nella vostra casa, la colpa è vostra.
Il marchese, udita tal spiegazione del fatto, ne capì meno di prima.
Ribattè:
— Spiegatevi!
E il conte:
— Vostra moglie è sdegnata con me e infastidita della mia servitù
perchè io, e non voi, ho scoperto ch'essa è innamorata di voi.
Allora l'Arnisio rimase proprio quale era rimasto La Fratta alla
rivelazione del polso; fors'anche con uguale timore volse il pensiero
al riso del mondo, e chiese, con tono e impeto d'incredulità e di
sorpresa:
— In che modo l'avete saputo? Ne siete sicuro?
— Il modo — rispose dignitosamente La Fratta — è un segreto dell'abate
Fantelli; ma di ciò sono tanto sicuro, che solo per ciò un cavaliere
come sono io ha potuto attaccar briga con un cavaliere come siete voi!
A tali parole il marchese sorrise, e porgendo la mano ferita all'amico:
— Conte La Fratta — esclamò contento —, io vi ringrazio!


Come finì la Modestia.

_Bum! bururùm bum bum! — Bururùm bum bum! — Bum! Barnùm! — Cium!
papaciùm! cium cium!_
. . . . . . .
_La donna umile:_ — Che cos'è questo fragore? questo squillar di
trombe, strepitar di piatti e tuonar di gran cassa? Chi arriva?...
Oh! una carrozza a quattro cavalli: anzi, un carro trionfale; su
cui troneggia la più bella donna che io vedessi mai! Ha gli abiti
mirabilmente variopinti e fulgidi di gemme; e sotto di lei siedono
gentiluomini in tuba e cravatta bianca. Qualcuno invece della tuba
porta una corona d'alloro; qualcuno agita un ramo di mirto; qualche
altro ha il viso da bestia, fors'è una bestia.... Io arrossisco a
lasciarmi vedere. Mi nasconderò dietro la siepe.
_La donna sovrana:_ — Voi dite, postiglioni, che bisogna dar riposo
ai cavalli? A cavalli di razza quali i miei? Vi concedo mezzoretta.
Ma giuro che nemmeno per svago non viaggerò mai più per le campagne
d'Italia! Io son usa al treno lampo, alle automobili, agli aeroplani;
non ho tempo da perdere! Oggi, per vendere a pena un centinaio di
aratri a vapore, affollare d'infermi tre stabilimenti idroterapici,
aprire due esposizioni agricole, me la son presa comoda; ma ho
consumato un giorno e sciupati quattro puledri che vinsero le corse
a Longchamp, e che serbavo da galoppare piano piano in Inghilterra,
quando per caso mi ci trovassi in domenica. Però io ringrazio voi, miei
seguaci, d'avermi tenuta compagnia nel noiosissimo viaggio e vi porgo
un marengo perchè andiate all'osteria laggiù, a bere un litro alla
mia salute. Un marengo anche a voi, postiglioni e musici. Spicciatevi!
Quanto a voi, poeti, se v'aggrada, andrete qui intorno cercando il Gran
Pan.
Frattanto, in questa valletta ombrosa e fresca, io penserò un milione
di telegrammi da spedire domattina ai miei segretari sparsi nel mondo
per il progresso delle industrie, delle arti e dei commerci e mediterò
un nuovo modo d'annunziare il _Tot_ e le _Pink_.
.... Che frescura! Che quiete!
Avvezza al fracasso e alle corse sfrenate, quasi quasi mi vien sonno....
_La donna umile:_ — Ahi!
_La donna sovrana:_ — Chi va là, dietro la siepe?
_La donna umile:_ — Scusi, signora, se l'ho disturbata.... Uno spino mi
ha punto un piede....
_La donna sovrana:_ — Perchè cammini scalza? Vieni qui. Chi sei?
_La donna umile:_ — Un'infelice; una povera creatura.
_La donna sovrana:_ — Vedo. Le tue vesti non le comprasti certo nei
magazzini del Louvre; e la tua faccia par quella del mio amico Succi.
Che naso! Oh che naso!
_La donna umile:_ — Me l'han tirato in tanti, signora; ho provate tante
delusioni; ho patiti tanti disinganni!
_La donna sovrana:_ — Accostati; senza ritirarti in te stessa,
vergognosa! Come ti chiami?
_La donna umile:_ — Modestia.
_La donna sovrana:_ — Modestia? La nipote di madama Virtù, che presa
per un'aristocratica fu fatta ghigliottinare da Robespierre? La figlia
della Semplicità e del Buoncostume? la sorella dell'Onestà?
_Modestia:_ — Sì, signora....
_La donna sovrana:_ — Bel caso! bell'incontro! Da un pezzo non ho riso
così di gusto!
_Modestia:_ — Scusi, signora: la conosce lei mia sorella Onestà? Per
amor di Dio, mi dica se la conosce e se sa dov'è!... Non mi restava più
altri della mia famiglia. I miei parenti mi hanno abbandonata!...
_La donna sovrana:_ — Eh! Poco posso dirti. Molti e molti anni sono
essa mi chiese aiuto; ma era povera e non potemmo conchiudere nessun
affare; e d'allora in poi m'è uscita di vista.
_Modestia:_ — Sapesse quant'è che la cerco! Un giorno, in una grande
città, ci perdemmo in mezzo alla folla....
_La donna sovrana:_ — Non piangere. La troverai.
_Modestia:_ — Dove? dove?
_La donna sovrana:_ — In un paese dove non si distribuiscano commende.
_Modestia:_ — Oh Dio!... Dunque mia sorella è morta anche lei!
_La donna sovrana:_ — Non piangere, ti dico! Io non piango nemmeno ai
drammi di Ibsen. Raccontami piuttosto la tua storia.
_Modestia:_ — Uh! la mia storia!... Disperata, mi ero ridotta a vivere
qui nei dintorni, e ci campavo, perchè nessuno s'accorgeva che ci
fossi; quando la mia disgrazia volle, l'altro giorno, che diventasse
sindaco il salumaio del villaggio. Costui m'ha deferita all'autorità
giudiziaria quale vagabonda, priva di mezzi di sussistenza e forse
anarchica; e i carabinieri hanno già avuto l'ordine di arrestarmi se
entro otto giorni non mi trovo occupazione e domicilio.
_La donna sovrana:_ — Bene! Imparerai a stare al mondo!
_Modestia:_ — Per grazia di San Francesco mio protettore, ier sera
tardi, passando sotto le finestre d'una villa, udii leggere un
giornale: uno leggeva che lo scrittore francese Giulio Claretie invidia
i letterati e gli artisti italiani; perchè, egli dice, in Italia chi ha
dei meriti si fa strada da sè solo, e chi non ne ha, non riesce, come
in Francia, a spingersi innanzi con l'impudenza della _Réclame_....
_La donna sovrana:_ — Bada a come parli!
_Modestia:_ — Scusi.... Ripetevo le parole del Claretie.
_La donna sovrana:_ — Tira avanti!
_Modestia:_ — .... Non sapendo più dove andare, se anche in campagna
adesso mi odiano, avrei pensato di mettermi per cameriera presso
qualche scrittore o artista d'Italia....
_La donna sovrana:_ — Bella idea! Ti credevo ingenua; ma non sino a
questo punto. Ah ah!... E non mi conosci?
_Modestia:_ — Non ho questo onore.
_La donna sovrana:_ — Io discendo da quell'imperatrice che un amico
della tua famiglia, Giuseppe Parini, osò chiamare «venerabile» per
sarcasmo. In America ebbi a padre putativo un certo Barnum; ma,
oriunda di Francia, io, come un romanzo di Bourget, sono cosmopolita;
tanto che Policarpo Petrocchi m'introdusse senza scrupolo nel suo
vocabolario. Mio dominio, il mondo; tutti gli uomini si raccomandano a
me, s'arrendono alle mie lusinghe benedicendomi. Io sono la _Réclame_!
La _Réclame_ sono io!
_Modestia:_ — Oh San Francesco!
_Réclame:_ — Tu non mi fuggirai....
_Modestia:_ — Mi lasci andare! Per carità, mi lasci andare!
_Réclame:_ — Non mi fuggirai.... Non hai forza, povera diavola! Guarda:
invece che odiarti mi fai compassione!
_Modestia:_ — Dunque mi lasci.... La prego! La scongiuro!... Che cosa
vuole da me, Maestà?...
_Réclame:_ — Aiutarti, distoglierti dal tuo insano proposito. Hai visto
coloro che viaggiano meco?
_Modestia:_ — Maestà, sì.
_Réclame:_ — Bene: tra i miei musici cantano critici e giornalisti; i
miei fedeli, che hai veduti, sono letterati e artisti che all'annuncio
del mio arrivo son corsi a me dai loro eremi, ove attendevano a opere
luminose in una superba meditazione di conquista.
_Modestia:_ — E se tornano qua ora? se mi vedono?... Mi lasci andare!...
_Réclame:_ — No: non ti ravviseranno. Del resto, io li conosco per
bravi ragazzi che non farebbero male a una mosca, sebbene talvolta
nei loro grandi disdegni invochino il dio Terremoto. _In altri tempi
avrebbero forse conquistato un arcipelago_: adesso, non sono che
scrittori, i quali, come uomini d'intelligenza, vanno verso la Vita.
_Modestia:_ — Ah sì?... A far che cosa?
_Réclame:_ — Tante belle cose; fra cui l'_atto di Vita coronante il
rito misterioso come l'Orgia_.... Non arrossire.... Via! Dammi quel
libro ch'è là, nella mia carrozza, fra gli annunzi dell'_Emulsione
Scott_, dell'_Iperbiotina_ e del _Depilatorio Clauser_; e saprai altre
cose di gioia. Quello!... Brava!...
. . . . . . .
Ora ascolta come parla uno il cui pensiero è _bruciato dall'ambizione_.
«L'orgoglio e l'ebrezza del suo duro e pertinace lavoro; la sua
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