L'Argentina vista come è - 12

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il paese. Essi vedono i monumenti, assistono alle cerimonie, odono i
discorsi, seguono i reggimenti per la via, sentono rammentare date
gloriose, entrano nelle chiese, nei musei, nelle pinacoteche; poco a
poco, si forma in loro l'amore sconfinato al paese, l'ammirazione per i
suoi grandi, la coscienza delle sue glorie; diventano italiani, così
vivendo, per tutto quanto penetra nella loro anima; tutto ciò che vedono
e che odono si ammassa inavvertito nel loro spirito, diviene pensiero,
diviene sentimento come il cibo diviene sangue. Ma questo all'estero non
accade. È la scuola che deve supplire--poichè disgraziatamente non
supplisce sempre la famiglia--creando, direi quasi, un processo rapido
d'italianizzazione con i mezzi più adatti. L'istruzione pura e semplice
passa in seconda linea.
L'Argentina che vuol dare al suo popolo eteroclito l'unione con un
acceso spirito di nazionalità, ha ben compreso questo. I suoi uomini
illustri vengono rapidamente eroicizzati. Ed è giusto: poichè manca il
sublime sfondo del tempo che ingigantisce le figure che vi si
proiettano, è necessario mirarle attraverso la smagliante lente della
retorica. Questo, dopo tutto, è sano patriottismo. In tutte le scuole,
anche nelle straniere, siano pure private, il Governo argentino impone
una parte del programma riguardante la storia e la lingua del paese; ed
ha ragione. Ma i nostri programmi non contrappongono nulla di efficace a
questa argentinizzazione.
Non si tratta già di sottrarre i figli d'italiani alla loro nuova
patria; il volerlo sarebbe errore grave. Si tratta di non perderli
assolutamente per la vecchia. Bisogna persuaderli che non c'è un solo
grande paese al mondo, l'Argentina, ma che ve ne sono almeno due.
Bisogna che essi sentano il legittimo orgoglio e la fierezza di
discendere dalla nostra stirpe gloriosa.
È tutto un altro sistema d'educazione che ci vuole. L'insegnamento buono
per l'Italia è falso, falsissimo per l'estero; esso trova nell'ambiente
una opposizione che bisogna vincere, invece di trovarvi un aiuto, una
più grande scuola di perfezionamento. Occorre ben altrimenti colpire le
fantasie dei bambini, parlare alle loro piccole anime ed accenderle di
entusiasmo e di fierezza. Bisognerebbe mostrar loro sempre le superbe
vedute delle nostre città, dei nostri monumenti, le pitture storiche, in
modo teatrale. I bimbi, come i vecchi, non credono che quello che
vedono.
*
* *
Sarebbe possibile alla Collettività Italiana l'istituzione di queste
grandi scuole, il cui programma ideale abbiamo rapidamente tracciato?
Sì, con un po' più di unione, con un po' più di concordia e d'amore. Ma
il Governo italiano non dovrebbe rimanere estraneo all'iniziativa ed
alla organizzazione di queste scuole italiane. Soltanto a questa
condizione tacerebbero le antiche rivalità. Intorno alla sua opera tutti
si unirebbero fraternamente. Occorre che una voce potente e paterna
chiami i dispersi, concilî i dissidenti, plachi le ire, e questa non può
essere che una voce che viene dalla Patria. Troppo tempo il Governo ha
trascurato ed abbandonato quelle nostre colonie lasciando crescere le
discordie, permettendo soprusi, sordo ai reclami, impassibile di fronte
alle ingiustizie. Curando le scuole, che sono il vivaio degli uomini,
avrà giovato a tutto un avvenire e si sarà fatto perdonare il passato.
La Collettività Italiana di Buenos Aires, che ha saputo adunare tanti
milioni di capitale per la Società di beneficenza dell'Ospedale, farebbe
altrettanto, e più, per le scuole, quando rimanesse persuasa che educare
italianamente i figli è altrettanto necessario del curare i malati.
L'azione del Governo dovrebbe essere più che altro morale: coordinare le
forze e usarne con illuminata sapienza. Santa opera di pacificazione e
di previdenza che non dovrebbe destare laggiù sospetti e gelosie.
L'Argentina potrà facilmente persuadersi che l'Italia non vuol
certamente toglierle i suoi nuovi cittadini, ma vuole soltanto esserne
amata perchè ne è madre.


NELLE CAMPAGNE ARGENTINE: "PEONI" E "MEDIERI".
[Dal _Corriere della Sera_ del 15 agosto 1902.]

La nostra emigrazione è nella massima parte composta di agricoltori, e
l'agricoltura forma la più grande risorsa presente e futura della
Repubblica Argentina. Lasciamo dunque un poco, lettore mio, le città con
i loro governi, le loro amministrazioni, i loro tribunali, le loro
collettività straniere--e relative associazioni--lasciamo la vita
«civile» fra le passeggiate, le _avenidas_, i _clubs_, le bische, i
teatri, gl'ippodromi che conosciamo già abbastanza e andiamo in cerca di
tutti quei nostri connazionali che non si vedono nei grandi centri
perchè lavorano dispersi per i campi, che non danno nell'occhio perchè
sono umili, attaccati alla terra e del colore della terra. Essi sono la
maggioranza. Sono essi che empiono le navi partenti dai nostri porti. La
parola «emigranti» evoca alla nostra mente la loro folla misera e forte.
Sono essi che i nuovi paesi invitano, perchè essi sono la ricchezza,
l'unica vera ricchezza. Eppure sono gli ultimi ad essere visti da chi
arriva laggiù, perchè al primo momento si scorge solo una folla di
affaristi, di politicanti, di banchieri, di commercianti, d'industriali,
di borsisti. Sono la maggioranza, ma le loro voci lontane non si odono;
essi vengono gettati sui campi come si getta il seme. Il loro còmpito
principale è quello di dare il frutto, darlo per tutti, e, se ne avanza,
anche per loro.
*
* *
L'emigrante che sbarca col solo patrimonio delle sue braccia è un
_peon_. Il _peon_--italianizzato in _peone_--è l'essere più umile che
esista. È qualche cosa meno di un uomo: è una macchina da lavoro della
forza d'un uomo. Il peone fa di tutto: è facchino, manuale, spazzino.
Vive alla giornata, oggi trasporta le pietre nei cantieri, domani
trasporta i covoni sui campi. Gira sempre in traccia di lavoro; passa da
colonia a colonia, da provincia a provincia, ben felice quando
un'occupazione lunga lo fissa in qualche parte. Viaggia quasi sempre a
piedi come l'Ebreo Errante, ma senza le scarpe leggendarie, perchè le
sue si logorano.
Durante i lavori della campagna trova facilmente a vendere le sue
braccia, se però qualche flagello non ha distrutto i raccolti. Quando
sulle grandi aie le trebbiatrici rumorose ed ansimanti divorano i
covoni, ed il frumento scorre via dal loro fianco come un liquido d'oro,
una folla d'uomini s'affatica intorno alle macchine, porge loro i
bocconi, raccoglie il grano nei sacchi che poi trasporta sui carri
enormi. Sono centinaia di peoni. Da dove vengono? Nessuno si cura di
saperlo; nessuno domanda il loro nome. Giungono a branchi, attirati dal
frumento come le formiche. Sono accettati fino a che ve n'è bisogno;
vengono contati e distribuiti al lavoro sotto la sorveglianza di
_capataz_. Ricevono un nutrimento che varia--a seconda dei luoghi--ma
che è invariabilmente cattivo; bevono acqua calda e quasi sempre
melmosa, raramente mescolata con un po' di _caña_--acquavite ricavata
dalla distillazione della canna di zucchero. Il loro lavoro è aspro,
terribile, sotto al sole torrido. Hanno un salario che può andare dal
mezzo _peso_ al giorno fino ai due _pesos_. Quando il raccolto è
cattivo, il salario diminuisce. Quest'anno un numero grandissimo di
peoni lavora nelle _estancias_ per il solo cibo, ossia per il permesso
di vivere.
I peoni più fortunati sono quelli che trovano un lavoro fisso; essi
ricevono quindici, venti _pesos_ al mese, ed hanno il vitto.
Purtroppo non è rarissimo il caso di peoni ai quali viene rifiutata la
mercede pattuita. Finito il lavoro vengono qualche volta scacciati. Si
sa bene che le loro proteste non sono ascoltate.
Vivono come le bestie, dormono in molti dentro un tugurio, che nella
città è una camera di _conventillo_ e in campagna una capanna od anche
una semplice tettoia. Se ammalano cadono nelle mani di una _curandera_
(poter chiamare il medico nelle campagne argentine è un lusso), la quale
lega loro dei nastri rossi al polso per guarirli dalla febbre palustre,
cava loro qualche libbra di sangue se accusano un grande male alla
testa, fanno loro ingoiare le cose più strane e repugnanti per guarirli
da un po' di tutto. E muoiono così, sul loro giaciglio.
Il peone che ha una famiglia, non sempre ne è unito. È il primo
consiglio che gli emigranti poveri ricevono dalle «Guide» distribuite in
Italia, e dagli impiegati dell'_Hôtel de Inmigrantes_: separatevi dalla
vostra famiglia; le donne trovano facilmente ad occuparsi in Buenos
Aires! Ed essi e le loro donne si separano: partono alla ricerca del
lavoro per vie diverse che talvolta non s'incontrano più.
Il sogno del peone è divenire _mediero_, ossia affittuario di un pezzo
di terra. Talvolta riesce a mettere da parte un po' di denaro, qualche
centinaio di _pesos_, realizza il suo sogno. Le economie del peone sono
il risultato di una vita miserabile, sordida, piena di sacrificî
inauditi, di avvilimenti e di rinuncie spesso vergognosi. Se nella
patria s'imponessero questi lavoratori una parte dei sacrificî che
compiono sotto la sferza del bisogno laggiù, e se dedicassero alla loro
terra soltanto un po' di quelle fatiche crudeli, alle quali li costringe
la necessità in America, allora l'Italia sarebbe senza dubbio il più
ricco paese del mondo.
*
* *
Il _mediero_ prende in affitto una o due _concessioni_ (la concessione è
un quadrato di 860 metri di lato). Si fabbrica con le sue mani una
capanna di legno e di fango seccato a mattoni, ricoperta di una lastra
di zinco o di paglia. L'abitazione di terra è tradizionale; vi sono
città come Mendoza, per esempio, che sono quasi interamente costruite
così. Non è raro, viaggiando per la campagna, di vedere dentro un
ristretto recinto dei cavalli che corrono per tutti i versi spaventati
da gridi e da colpi di frusta. Lo strano torneo dura delle ore, e non è
facile capire a prima vista che quelle brave bestie con i loro nobili
caracollamenti hanno il modesto ufficio d'impastare il fango per
costruirne delle case.
La vita del mediero è meno incerta di quella del peone, ma non meno
dura. Egli vive isolato in mezzo alla sterminata pianura. Spesso il
centro di popolazione più vicino dista delle leghe. Una visita del
medico costa venti _pesos_ alla lega (50 lire). In caso di malattia ogni
cura efficace è impossibile. Nell'estate, quando il grande calore
corrompe l'acqua dei pozzi, il tifo ed il vaiolo mietono intere
famiglie. In quella triste stagione è comune il vedere attaccato alla
porta delle casupole un cencio nero, che si agita al vento tropicale
soffiante dal Brasile e dal Paraguay caldo come il soffio d'una fornace.
Quel cencio nero che sembra un uccellaccio di malaugurio agonizzante,
significa che la morte è passata da lì: è il segno del lutto. La durezza
delle condizioni fatte dal proprietario costringe il mediero a coltivare
molta più terra di quanto sarebbe in grado di fare. Questo rende i
lavori campestri eccessivamente faticosi. Il padrone sfrutta il mediero,
e questi sfrutta la terra. La coltivazione si riduce allo strappare al
suolo quanto più prodotto è possibile col minimo di lavoro, in
proporzione alla superficie. Una famiglia normale coltiva circa cento
ettari di terra. Le operazioni campestri debbono ridursi a due sole, per
mancanza di tempo e di forza: la semina e la raccolta. La terra non
sente la cura continua, operosa, della mano dell'uomo; non viene
rinvigorita dalle concimazioni, nè liberata dalle male erbe. Si spossa
rapidamente; dopo otto dieci anni, la sua forza produttrice declina
rapidamente. L'uomo è costretto ad abbandonarla; essa ritorna pascolo;
il deserto la invade di nuovo. Il proprietario è molto ricco, e poco
gl'importa di sostituire l'agricoltura con la pastorizia nelle terre
sfruttate; ma il mediero, salvo casi non troppo comuni, è sempre povero.
Esso abbandona i campi ingrati in cerca di nuovo lavoro, ma con molto
coraggio e molte illusioni di meno. È incalcolabile il numero di medieri
che in quest'anno di misero raccolto sono tornati ad essere peoni.
Ricordo d'averne incontrati tanti e tanti nelle colonie di Santa Fè e di
Rosario, tragiche figure di affamati. Sono venute le annate di buon
raccolto, ma essi non hanno potuto profittare della prosperità. La
ricchezza strappata alla terra con tanta fatica, è passata per le loro
mani senza lasciarvi nulla, mentre intorno a loro si sono andati
arrotondando dei patrimonî. È necessario fermarci ad illustrare
brevemente lo sfruttamento del quale è vittima la grande massa di questi
poveri lavoratori dei campi.
*
* *
La condizione più comune fatta dai proprietarî ai medieri è quella detta
della terzeria. Il mediero deve mettere del proprio gli attrezzi da
lavoro--che in una coltivazione estensiva consistono in macchine
agricole che rappresentano un discreto capitale--deve mettere gli
animali da lavoro, e infine le sementi; e deve consegnare al padrone una
quantità del prodotto totale variante dal 25 al 30%. Questa parte del
prodotto deve essere posta in sacchi nuovi, e portata a spese del
mediero fino sui vagoni della più vicina stazione ferroviaria.
Il mediero si pone generalmente al lavoro senza capitali o con capitali
insufficienti. Le macchine e il resto deve acquistarli a credito; deve
anche acquistare le prime sementi. Tutto questo o gli viene anticipato
dal proprietario, oppure fornito da un _almacenero_. In tutti e due i
casi i prezzi sono gravati inumanamente. L'ombra di questo debito si
proietta su tutte le prime annate di lavoro, durante le quali è
necessario eseguire opere preparatorie, come la scavazione dei pozzi, la
costruzione delle stalle e dell'abitazione, e il frutto della terra è
minimo. Il mediero ha bisogno di farsi anticipare il vitto fino ai primi
raccolti. Nulla di più facile: egli ha offerte da tutte le parti: vi
saranno i prodotti che pagheranno tutto. I commercianti delle campagne,
tenitori di strani magazzini dove si trova di tutto, dalla trebbiatrice
alla pasta da minestra e dal grano ai cappelli, si affrettano a divenire
creditori, e porre così una specie d'ipoteca sul lavoro del mediero.
L'agricoltore è quasi sempre ignaro dei prezzi; la sua diffidenza è
dissipata presto dall'apparente fiducia di cui è fatto segno. Egli non
si accorge che non è a lui che si presta, ma alla terra. Se il raccolto
si presenta bene, egli vede aumentarsi il debito; quando passa per il
_pueblo_ (piccolo centro) viene assediato d'offerte dal suo fornitore;
gli si imbottisce il carro di stoffe per le sue donne, di conserve
alimentari, di un po' di tutto. Egli è sedotto da questa effimera
abbondanza. Si abitua a non misurare più le sue forze, fino al momento
che il debito non lo ha ridotto allo stato di strumento facitore di
ricchezza; egli come una pompa assorbe dalla terra i suoi tesori per
dissetare avide bocche.
Nei tempi del raccolto, che richiede grande rapidità per non
compromettere il prodotto, egli non può bastare da solo con la sua
famiglia a compire i lavori campestri sulle grandi estensioni che è
costretto a coltivare; ha bisogno di peoni, le cui mercedi sono a suo
carico. Le spese aumentano. Le distanze poi rendono qualche volta
disastroso il trasporto. Tutte queste difficoltà sono superate quando la
terra vergine compensa ad usura i suoi sudori. Ma allorchè sopraggiunge
la cattiva annata, quando dal Gran Chaco, che sembra la misteriosa
patria dei flagelli, vengono i nuvoli di cavallette e si rovesciano sui
suoi campi, quando la tormenta li inonda di sabbia arida, quando la
siccità li brucia, oppure quando la terra stanca e spossata dallo
sfruttamento continuo rifiuta i suoi doni, allora la miseria terribile
sopraggiunge. Tutti gli uccelli di rapina piombano sulla casa del
mediero. Egli è vittima di tutti gli agguati legali e non legali, di
tutte le infamie. Se il paese traversa economicamente un periodo
critico, come ora, i creditori sono inesorabili. L'agricoltore paga
mille per uno. I suoi attrezzi, i suoi bestiami, il suo grano sono
sequestrati, la sua casa saccheggiata. Queste operazioni si compiono
alla prima alba, come i delitti, perchè nessuna opposizione sia
possibile. La legge non lo consente, ma lo consentono dei giudici, e
basta.
Il mediero ritorna più miserabile di quel che non fosse prima, poichè
spesse volte alla sua miseria materiale si aggiunge una ben più grave
miseria morale. Il suo lavoro non è stato continuo; egli non si è
occupato delle coltivazioni di frutta, di erbaggi, di ortaggi, i cui
prodotti non poteva smerciare facilmente data la distanza dei mercati, e
che richiedevano lunghe cure prima della produzione, lenta ed aleatoria.
Nessun affetto alla terra lo portava ad arricchirla di vigne e di
frutteti, che richiedono un capitale non piccolo, e che avrebbe potuto
abbandonare forse da un momento all'altro prima di ricavarne i frutti.
Egli non voleva che il guadagno immediato, il più gran guadagno. Grano,
mais, lino, ecco le tre uniche coltivazioni, le più semplici. Tra il
faticoso lavoro dell'aratura e quello tremendo del raccolto passavano
lunghi mesi di ozio assoluto, d'inazione bruta. Il paziente lavoro di
tutti i giorni non ha più tenuto occupato il suo spirito; dalla fatica
bestiale passava alla disoccupazione ancora più bestiale. L'aspettativa
fatalistica del raccolto lo ha reso apatico; è divenuto mezzo _gaucho_
nell'anima, stemprato e stanco; senza il sollievo ed il conforto di una
vita civile ha perduto la grande forza della volontà, si arrende alla
sciagura, cede, è vinto.
Questa è la sorte disgraziatamente comune a tanti nostri emigranti, ma
non a tutti, per fortuna. Vi sono alcuni proprietarî (molto pochi in
verità) che fanno ai loro medieri patti più umani, che forniscono loro
una parte degli attrezzi, un carro, i cavalli, oppure che stabiliscono
il rimborso onestamente. Vi sono agricoltori che riescono a mantenersi
con le loro forze, che vivono sempre nel sacrificio della più stretta
economia, che dopo varî anni di lavoro giungono a capitalizzare due,
tre, quattromila pesos, sottraendoli all'ingordigia delittuosa dei
soliti uccelli di rapina. Essi, al primo rallentarsi della produzione,
cercano altri campi per loro conto, e divengono _coloni_.
Il _colono_ rappresenta l'ultima trasformazione dell'emigrante.
Diventando _colono_, lo straniero cessa virtualmente d'essere straniero,
perchè si attacca definitivamente alla terra. Il colono è la vera forza.
Fare d'ogni emigrato agricoltore un colono, questo è il problema che la
Repubblica Argentina s'impone; ma la sua soluzione finora non fu cercata
che fra i miraggi della teoria.
I coloni e la colonizzazione c'interessano vivamente perchè sopra essi
si basa l'avvenire della nostra emigrazione, non solo, ma bensì
l'avvenire stesso dell'Argentina, e non sarà discaro al lettore che ad
essi dedichiamo la lettera seguente.


NELLE CAMPAGNE ARGENTINE: I "COLONI".
[Dal _Corriere della Sera_ del 24 agosto 1902.]

Nell'Argentina vi sono circa ottocentomila chilometri quadrati di terra
coltivabile, dei quali appena quarantacinquemila sono lavorati. Questa è
una grande seduzione per le masse che emigrano. La conquista sembra
semplice; quella terra non aspetta che il lavoro per profondere i suoi
tesori immensi, ecco le braccia, noi ne abbiamo.
Ma l'emigrante, il quale giunge laggiù attratto dal miraggio
d'una prosperità che appare certa, il quale sogna di divenire
proprietario--per il diritto che dà il lavoro--di una terra che ora è
abbandonata, selvaggia e infruttifera, si accorge ben presto che la
realtà è ben diversa dai bei sogni che hanno confortato il suo distacco
dalla Patria.
Ecco ciò che egli trova:
Della grande superficie di terra disponibile soltanto una parte ben
piccola è accessibile, ossia solo quelle terre i cui prodotti possono
essere trasportati, o potranno essere trasportati in un futuro non
eccessivamente remoto. A dieci leghe da una ferrovia o da un fiume
navigabile il prezzo del trasporto assorbe il valore del prodotto; da lì
incomincia la sterminata zona della terra inutile, sulla quale non è
possibile che la vita selvaggia, senza contatti con l'umanità, vita che
è inaccettabile se ad essa non si dà la speranza di un limite. Vi sono
terre non attraversate presentemente da strade ferrate, ma che lo
saranno probabilmente. Qui la vita selvaggia è affrontabile, perchè vi è
la probabilità di uscirne presto. In fondo tutti questi calcoli di tempo
non debbono sorpassare i limiti della vita umana; si ha un bel predire
un fulgido, favoloso avvenire nelle età future: questo non ci commuove
come la speranza della più modesta agiatezza balenataci nella mente
quale compenso al nostro lavoro.
La terra aperta al fecondo lavoro dell'uomo si riduce dunque ad un
tredicesimo circa di tutta la terra coltivabile, ad un quarantaduesimo
della superficie totale della Repubblica. Orbene, questa terra in
massima parte non è più libera, ed ha un costo che la speculazione ha
reso esagerato.
Entriamo un poco nel meccanismo della compra-vendita dei terreni. Essi
appartengono in grande parte a latifondisti argentini, che sono arrivati
al possesso quasi sempre o per diritto di «denuncia»--per il quale si
poteva una volta divenire proprietarî delle terre denunciate allo Stato
come libere--o più spesso per favoritismi, per compensi di maneggi
politici, per regalìa governativa, o magari per nessun diritto.
All'epoca della sanguinosa conquista, quando le misere tribù indiane
furono spazzate vie dalla Pampa, enormi lotti di terre vennero cedute ai
capi dell'armata e agli amici del governo. Queste terre non avevano che
un valore minimo, erano pascoli brulli e selvaggi. L'emigrazione nostra,
introducendo l'agricoltura, diede loro un ben maggior valore, e la terra
divenne in breve oggetto della più sfrenata speculazione, i cui lucrosi
compensi pagava e paga il lavoro italiano.
Il coltivatore non ha altro sogno che quello di divenire proprietario.
Sfruttare questa aspirazione legittima, ecco la base della speculazione,
che è sempre proceduta e procede così: Il latifondista divide la sua
proprietà in porzioni che affida, al momento opportuno, alle vendite al
_remate_--specie di asta pubblica. Se la corrente immigratoria è forte,
e se i terreni sono facilmente accessibili, egli trova subito degli
speculatori delle Società di speculatori che comperano. Spesso quelle
terre, magnificate da _réclames_ veramente americane, passano da
_remate_ in _remate_ aumentando straordinariamente il loro costo, senza
che nessun lavoro abbia aumentato menomamente il loro valore. È il
lavoro futuro che si va ipotecando. Finalmente, quando l'opportunità si
presenta, la terra, divisa in piccoli lotti, passa ai coltivatori a
condizioni disastrose.
Il prezzo è centuplicato, alle volte. Per esempio, leggo in una
relazione pubblicata nel '91, che la colonia Pilar, comperata da un
agente tedesco di nome Lehman per _seicento_ pesos boliviani, ripartita
in concessioni e rivenduta, passata poi in mano dei coloni col patto di
pagamenti rateali, dopo sette anni si trovò essere stata comperata per
nove decimi da coloni italiani pel prezzo complessivo di _cinquantamila_
pesos.
I coloni vengono allettati alla compera con ogni mezzo. Se i compratori
non accorrono si cambia nome alla colonia in vendita; una colonia che
sotto il nome spagnuolo non trovava acquirenti venne chiamata Nuova
Torino, e si popolò di emigrati piemontesi, contenti di trovare almeno
nel nome un dolce ricordo della Patria abbandonata. Due colonie vicine,
situate in terreni paludosi, trovarono presto compratori italiani quando
vennero battezzate coi nomi di Umberto e Margherita. Nei cartelli
_réclame_ di queste colonie erano disegnate due belle piazze, intorno
alle quali dovevano sorgere le abitazioni. I poveri contadini recatisi
sul posto trovarono che al posto delle piazze v'erano delle
_canadas_--piccole paludi. Domandarono la rescissione dei contratti, ma
il venditore rimediò creando per le due colonie un centro solo al quale
dette il nome di Nuova Roma, e tutti contenti.
I cartelli _réclame_ poi sono capolavori del genere: la «pianta» delle
colonie vi appare tutta verde, con belle strade bianche, divisa in
quadri sui quali l'ingenua fantasia dei contadini miete messi
abbondanti. Come resistere alla tentazione di comperare un pezzo di
quella bella terra, quando si ha in tasca qualche migliaio di pesos,
siano pure risparmiati Dio sa a costo di quanti sacrificî? Non occorre
pagar subito: si paga a rate annuali. Si paga in cinque, sette, dieci
anni.
Il colono viene a pagare così un prezzo enorme. Non sempre riesce a
soddisfare ai suoi impegni, ed allora si vede ritolta la terra che egli
ha fecondato, per la quale ha speso per anni ed anni ogni sua energia ed
ogni suo pensiero, quella terra nella quale aveva riposto tutte le sue
speranze. Deve abbandonarla, abbandonare la casa che bene spesso ha
eretto con le sue mani, rese sapienti dalla necessità, abbandonare le
messi, tutto. E si trova ricaduto nella miseria assoluta: tutto è da
ricominciare.
*
* *
Il colono non riceve il titolo di proprietà della terra comperata che
quando ha compìto l'ultimo versamento; è questo che rende la sua
posizione sempre incerta. Finchè i raccolti sono buoni egli può
cavarsela, consacrando tutto il suo lavoro al pagamento delle rate. È
una vita di sacrificio e di privazioni, ma è nei limiti del possibile; e
in fondo ad essa egli vede la liberazione, il possesso incontrastato,
il principio della prosperità tanto sognata. Ma i raccolti non sono
sempre buoni; vi sono le cavallette, la tormenta, la siccità che
arrivano con una periodicità spaventosa ed annientano di colpo le messi
di un'annata; e tutto può essere perduto, perchè se anche egli non viene
scacciato dalla terra, l'accumularsi dei pagamenti e le necessità di
contrarre debiti lo rendono indefinitivamente schiavo del venditore. A
meno che non venga l'annata d'oro, ben rara purtroppo. «Per il
colono»--scriveva nel febbraio la _Patria degli Italiani_--«il lavoro è
un giuoco nel quale contro nove probabilità di veder completamente
frustrate le fatiche d'un anno, una sola gli permette qualche benefizio;
ed anche questa abbandonata al capriccio della fortuna.... Una volta
tanto, quando meno ci si pensa, ecco che un flagello rovina il raccolto
degli Stati Uniti e della Russia, il frumento, il lino diventano rari
sui mercati di consumo, l'Europa è costretta a provvedersene a qualunque
prezzo, e paga i cereali a peso d'oro; allora esce finalmente dalla
ruota della lotteria il numero atteso dagli agricoltori, il ricavo del
raccolto paga tutte le spese e tutte le usure.»
Come si vede, la situazione dei coloni, date le condizioni di vendita,
che sono generali, è ben difficile. A tutto questo si aggiungono bene
spesso gli inganni e le frodi nel contratto--che la Giustizia lascia
impuniti--nei lacci dei quali cadono facilmente i nostri poveri
contadini, che non meritano in verità, specialmente all'estero, la loro
tradizionale fama di scaltri.
Avviene spesso che il contratto di vendita risulta nullo perchè il
venditore non aveva alcun diritto di proprietà sulla terra venduta. Le
cause per contestazione di proprietà sono comunissime nell'Argentina,
anche a causa della mancanza d'un catasto completo e regolare, che rende
spesso impossibile di constatare l'autenticità d'un titolo di
proprietà.
La vendita al _remate_ di terreni per parte di gente che non vi aveva
alcun diritto prese all'epoca delle speculazioni uno sviluppo
fantastico. Bastava un po' di _réclame_ sui giornali, si stampavano
piante immaginarie di terreni, divisi in lotti, e si _rematava_. I
compratori pagavano una caparra per avere un titolo che naturalmente non
valeva nulla. Con questo sistema vennero _rematadi_ non pochi pantani
della provincia di Buenos Aires--specialmente vicino alla
Plata--passandoli per splendidi appezzamenti di terra. Si è _rematado_
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