L'Argentina vista come è - 10

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tedesca, per esempio, s'intende che il capitale che li anima sta di casa
a Londra o ad Amburgo, dove vanno gl'interessi e dove s'accumula la
riserva. Quando invece si dice opificio, fabbrica, banca, commercio o
impresa italiana, s'intende--salvo qualche rarissima eccezione--che noi
in Italia non ci abbiamo a veder niente affatto, ma che solo è nato nel
nostro paese l'uomo che ne ha avuto l'idea e il coraggio, la
perseveranza e la sapienza d'attuarla.
È il capitale che dà la nazionalità all'impresa.
In tutte quelle industrie che si dicono italiane, perchè fondate,
dirette, amministrate e lavorate da italiani, il carattere d'italianità
è assolutamente transitorio; dipende spesso dalla vita d'un uomo. A poco
a poco, per cessione o per eredità, passano _tutte_ in mani
straniere--che spessissimo sono quelle dei figli--e di nostro non resta
che la mano d'opera, la forza motrice. È poco. La mano d'opera è come il
vomero dell'aratro che umile e basso si nasconde nel lavoro assiduo e
passa ovunque sconvolgendo e fecondando, e che poi non è nulla di fronte
al valore della terra e del grano. E poco monta che sia stato forgiato
di ferro italiano o di ferro cinese.
*
* *
Continuiamo la nostra rivista del lavoro.
La pastorizia--che, dopo l'agricoltura, è la più grande fonte di
produzione--ha fatto sorgere altre industrie, per opera sempre
d'italiani. A due fabbriche italiane il popolo deve una parte delle sue
vestimenta di lana. Un opificio fornisce anche di quei _ponchos_
caratteristici, mezzo mantelli e mezzo scialli, che una volta le donne
tessevano nei _ranchos_ solitarî. Due fabbriche italiane trasformano la
lana in cappelli, dai più rozzi ai più eleganti, e coprono quasi tutte
le teste della Repubblica, anche quelle degli eleganti che non comprano
nulla se il negoziante non giura loro che ciò che vende viene
direttamente da Parigi.
Le pelli si esportavano semplicemente secche o salate; gl'italiani hanno
introdotto l'arte del conciare. La conceria ha fatto sorgere le
fabbriche di selle e di scarpe e sono gl'italiani che le hanno create e
che vi lavorano.
Sempre troviamo gl'italiani come iniziatori d'industrie, le quali
utilizzano ciò che una volta si gettava via, che traggono ricchezze dal
niente, che aumentano enormemente la produttività dal paese. Se non
hanno un gran posto nelle statistiche dell'esportazione, servono a
limitare grandemente l'imposta che l'Argentina paga all'estero sotto
forma di compere. Vi sono industrie che in una nazione sono quello che
la buona massaia è nella casa: fanno economia di tutto, raccolgono ciò
che viene abbandonato, lo trasformano, l'utilizzano; e il loro lavoro
continuo e silenzioso, spesso inapprezzato, alla fine raddoppia
l'attivo. Dal grasso degli animali, una volta abbandonato insieme alla
carne--non si prendevano che le ossa, il cuoio e le corna--ora si toglie
la stearina, la margarina, l'oleina. Furono italiani i primi ad
usufruire delle carni istituendo i _saladeri_ dove a migliaia al giorno
si macellano i buoi, la cui carne salata, il _tasaio_, viene esportato
in grandissima quantità, mentre le altre parti degli animali si
trasformano in olio, in colla, in cuoio. Profittando della stearina a
buon mercato, degli industriali italiani hanno fondato una fabbrica di
fiammiferi che produce centocinquanta milioni di scatole all'anno
emancipando completamente il paese da quella importazione.
Si può giurare che non esiste un ramo d'attività che non si debba
all'iniziativa italiana. Coltivata la terra e ottenuto il grano,
gl'italiani crearono i primi molini. Ottenuto il granoturco, crearono le
distillerie. Ottenuto il riso crearono le fabbriche di amido. L'uva era
stata dichiarata di coltivazione impossibile in questa terra piana come
un mare: la vite non verdeggia che sui colli. Essi cercarono lontano, ai
piedi delle Ande, le colline e vi piantarono il prezioso arbusto. Vi
mancava l'acqua; laggiù non cade la pioggia--i temporali umidi
dell'Atlantico lasciano l'acqua lungo la immensa traversata della
Pampa--ed essi chiusero la strada ai fiumicelli che scendono dai
ghiacciai per le paurose gole della Cordigliera e irrigarono con le loro
acque trecentomila ettari di terra. Una sola casa vinicola italiana di
Mendoza produceva quarantacinquemila ettolitri di vino all'anno. Dico
«produceva» perchè la crisi argentina ha travolto anch'essa nel turbine
disastroso, gettandola a terra con altri colossi.
Anche nelle imprese d'iniziativa straniera, nelle ferrovie inglesi,
nelle officine elettriche tedesche, per tutto, entra sempre il lavoro
italiano. La mano italiana con la sapienza e la pazienza del ragno tesse
e ritesse la tela della ricchezza argentina, che i turbini politici ed
economici lacerano via--e noi sappiamo come.
*
* *
Ecco che cosa è il lavoro italiano! Ma noi possiamo essere orgogliosi di
ben altro! Noi abbiamo portato in parte i germi della coltura
intellettuale nell'Argentina; è un lavoro che non si ricorda e non si
vuol ricordare. Adesso l'emigrazione intellettuale è preclusa
dall'Argentina (come l'emigrazione dei malati o degli storpî o dei
vecchi) per mezzo d'un feroce protezionismo che impone la così detta
«rivalidazione delle lauree straniere»--della quale parleremo in
seguito--che si risolve in un vero sfratto ai laureati stranieri. Ma se
l'Argentina ha laureati suoi da proteggere, molto lo deve all'Italia.
Furono italiani i primi professori che incamminarono la scuola argentina
sulla via delle moderne discipline, trasformando in ateneo ciò che non
era al più che un seminario. Ai principî del secolo passato
l'emigrazione italiana non era composta che di esuli politici, ossia--in
gran parte--di uomini intelligenti. Per molti anni la parola «emigrato»
da noi non significava che «perseguitato» per l'amor di patria. Ne
arrivarono laggiù di questi emigrati, ad ogni rivoluzione repressa e ad
ogni congiura scoperta, come ne arrivarono a Londra: ossia dove la
distanza o la libertà garantivano la vita. Da dopo il '21 gli annali
dell'Università di Buenos Aires e di Cordoba cominciano a registrare
nomi di professori italiani. Troviamo il fisico Carta Molina, fondatore
del primo gabinetto di fisica sperimentale, poi perseguitato sotto
l'accusa d'essere _unitario_ e rinchiuso per forza in un manicomio dove
è morto. Troviamo il naturalista Carlo Ferraris, fondatore della prima
cattedra di storia naturale e del primo museo zoologico; troviamo il
fisico Massotti, fondatore del primo osservatorio astronomico, e il
Moneta al quale si deve l'Ufficio delle Opere Pubbliche dello Stato, ed
anche la prima carta geografica esatta del paese. Quando si è fondata
una facoltà di matematica e ingegneria, i professori furono tutti quanti
italiani. Arrivarono verso il '65 i professori Ströbel e Speluzzi di
Milano, Rossetti, Ramorino, Luzzetti che insegnarono scienze esatte. Ora
tutti sono morti, e poco si ama ricordarli. Potrei continuare a empire
pagine di nomi di italiani che hanno dedicato la loro vita a mettere al
corrente gli argentini delle nostre scienze e della nostra civiltà; dal
prof. De Angelis, che è stato il primo a raccogliere le leggi argentine,
e il primo anche a raccogliere tutti i documenti della storia di quel
popolo, fino al prof. Giuseppe Tarnassi, che è il primo ad occupare la
cattedra di latino all'Università di Buenos Aires, cattedra ultimamente
istituita.
Se le statistiche della produzione e del commercio possono darci l'idea
del valore del nostro lavoro materiale, disgraziatamente nessuna
statistica può darci quella del nostro lavoro intellettuale, la cui
influenza meno immediata è tanto più vasta e profonda.
*
* *
Ecco rapidamente tracciato il quadro del lavoro italiano nell'Argentina.
Era necessario per comprendere quanto la situazione morale, materiale e
politica dei nostri emigrati laggiù sia diversa da quella alla quale
essi hanno diritto.


ERRORI E DIFETTI DELL'EMIGRAZIONE ITALIANA.
[Dal _Corriere della Sera_ del 6 luglio 1902.]

Pochi popoli pagano al mondo un tributo d'emigrazione più grave
dell'italiano; e pure la nostra stessa emigrazione sembra
dimostrare--contraddizione strana--che noi manchiamo delle migliori
qualità di popolo emigratore.
La massa dei nostri emigranti non ha preparazione, non conosce nulla del
paese dove approda, e trova tutto inaspettato; non ha coscienza della
sua forza e del suo valore; non è plasmata nè da una coltura, nè da una
educazione, e si forma facilmente sopra un altro stampo; ha una
verginità intellettuale che la rende duttile. Per una profonda ignoranza
di cui noi in Italia, purtroppo, abbiamo la colpa e la responsabilità,
la massa degli emigranti non conosce nemmeno il suo stesso paese, ne
ignora le glorie e le grandezze, e non può sentire perciò l'orgoglio di
essere italiana, non può provare quell'infinita soddisfazione della
superiorità di razza che crea le pacifiche conquiste. Di fronte ad un
nuovo popolo, in un nuovo ambiente, la cui brillante appariscenza la
sua semplice mente non può sondare, essa si sente inferiore; ritiene
come un torto proprio l'essere diversa; ne prova umiliazione, e tende a
far scomparire ogni diversità modificandosi. E tutto questo perchè la
nostra è una emigrazione di braccia, un'esportazione di muscoli, e
troppo poco--in proporzione--d'intelligenza. Gli intelligenti nelle
masse sono come i graduati nell'esercito, una piccola minoranza che
guida, non fosse altro con l'esempio, che unisce in un'azione comune.
Togliete gli ufficiali ad un esercito d'eroi, ed avrete la fuga più
vergognosa. L'esercito dei nostri emigranti manca di ufficiali, e si
sbanda, e si arrende alla spicciolata, subito, cedendo bene spesso
quell'arma potente che si chiama «dignità nazionale».
Gli apprezzamenti che vado facendo si riferiscono al complesso della
nostra emigrazione, s'intende; grazie a Dio si trovano per tutto dei
fieri italiani, i quali prima d'ogni altro riconosceranno la loro
dolorosa impotenza di fronte alla massa. Dopo d'avere constatato i
trionfi gloriosi del lavoro italiano nell'Argentina, possiamo bene
rilevare spassionatamente qualche nostro difetto, nel quale si possono
trovare le cause di alcuni mali della nostra emigrazione.
*
* *
L'emigrazione nostra, così com'è, fa pensare all'esportazione d'una
materia prima destinata ad essere trasformata ed adoperata. Subisce
tutte le influenze senza resistere perchè è ignorante, cioè debole, e
miserrima, cioè disarmata. In queste condizioni appena giunge ad
immettersi nella nuova società, ne occupa l'infimo posto, ossia il più
disprezzato. Laggiù nella scala delle posizioni sociali vi è un gradino
di più, in basso: dopo il povero viene l'immigrante. Esso è più povero
del povero nella conoscenza dell'ambiente e delle condizioni della sua
nuova vita. Esso non potrà elevarsi che col lavoro, la sobrietà ed il
risparmio. Questo significa che sarà costretto ad una vita di sacrificî,
di gretterie e di umiliazioni, la quale, in mezzo al lusso dell'ambiente
argentino e alla grandiosità dissipatrice dei «figli del paese», formerà
un contrasto stridente che porrà l'emigrante sotto una luce ancora più
dispregevole.
Osserviamo un emigrante qualunque, un emigrante «tipo»--piemontese o
calabrese, poco importa--che arriva dal suo campo in cerca della
fortuna. È umile per necessità, timido per ignoranza, si presta ad
essere sfruttato e malmenato in silenzio perchè non conosce i suoi
diritti--del resto comprende ben presto che il reclamare per i torti
ricevuti è inutile, se non rovinoso, e che egli è solo e
abbandonato.--Egli ammira tutto perchè nulla ha visto mai. Ciò che è
diverso per lui è migliore. Conserverà della Patria una nostalgia
istintiva, l'amore per i luoghi ove si è nati, quell'amore che il tempo
ed i ricordi rendono sempre più dolce: amerà ricordarla, ma più andrà
avanti con gli anni e meno conoscerà la vera grandezza e le glorie del
suo Paese, perchè nella sua mente l'idea della Madre Patria non sarà
altro che l'idea del suo passato. Vedrà lontano una casupola, un
villaggio, una valletta; la sua casa, il suo villaggio, la sua valle.
Quella è l'Italia; tutto il resto è vago, incompreso, indefinito.
Talvolta si accorge che la sua qualità di straniero lo esclude da mille
benefizî, lo priva di garanzie e di diritti; si trova come un veltro
estraneo alla muta che lo guarda bieca e ringhiosa intorno alla _curée_.
Allora, raramente, ma non troppo, e se i suoi mezzi e la sua posizione
lo permettono, cerca di cambiar manto, di rendersi più simile che sia
possibile ai fortunati, cerca di cancellare le traccie di italianità che
gli sono rimaste, e comincia dal modificare il proprio nome. Si chiama
Chiesa si cambia in Iglesia; se si chiama Speroni si trasforma in
Espuelas; e si vede così un Montagna divenire _señor_ Montaña, un
Bibolini cambiarsi in Bibolian.--Disgraziatamente non mancano esempî!
Questo emigrante sarà doppiamente prezioso per il paese che lo acquista,
ma quale sostegno potrà essere al nostro prestigio nazionale?
Quanto dico è amaro a dirsi, ma più amaro ancora a tacersi. Del resto,
la causa di questi mali è qui, è in Italia, ed in Italia soltanto può
esservi la cura.
L'animo del nostro paese è rimasto estraneo all'emigrazione; questa non
rappresenta l'espansione d'un organismo esuberante di vitalità, ma
piuttosto un male specializzato d'una sua parte. Essa non ci ha
preoccupato che di tanto in tanto per un sentimento umanitario, e niente
più. Non abbiamo pensato a sorreggerla, a dirigerla, a illuminarla.
L'emigrazione nostra è come sangue vivo sgorgante dalla piaga incurata
della nostra miseria e della nostra ignoranza. La piaga è vecchia e non
ci dà dolore, e poco ci curiamo se questo po' di sangue nostro cade, si
disperde, va a male. Non abbiamo veduto tutto il buono e tutto il
cattivo che dalla nostra emigrazione poteva venire. Ben altrimenti
dovevamo invigilarla e proteggerla, farle sentire lo sguardo della Madre
Patria fiso sopra di lei; darle un ampio stato maggiore d'intelligenti.
Dalla Germania, dall'Inghilterra emigrano masse di giovani che escono da
scuole create apposta per aprire gli occhi, che si sparpagliano per il
mondo a battere sempre nuove vie per dove in breve s'incanalano i
commerci delle loro patrie, delle quali così s'aumenta il prestigio e la
potenza ovunque. Nuove regioni sono sondate, studiate, e ad esse dirette
le masse emigratrici nella proporzione e nella composizione necessarie.
I rarissimi giovani colti frammisti all'emigrazione italiana, non
partono ordinariamente--salvo onorevoli eccezioni--che quando vedono
fallito l'ultimo tentativo per ottenere un umile impiego, sia pure a
mille e cento. Vanno senza idee, senza progetti, senza appoggi e senza
mezzi, travolti nel turbine della miseria, e privi perciò di quella
grande forza che è l'indipendenza. Talvolta cadono per non rialzarsi
più, talora invece riescono a formarsi una posizione; ma imparano
laggiù, alla scuola della vita, quanto il paese nativo non s'è curato
d'insegnar loro, ed è naturale che si modifichino, che si adattino
all'ambiente; non possono serbarsi italianamente puri, e nello istesso
tempo lottare per il pane in un ambiente dove sentono l'ostilità
mordente, sorda, continua e tenace contro lo straniero.
Nessun uomo può rinunziare allo spirito di conservazione. L'emigrazione
italiana ha perciò poche guide e pochi esempî, e viene a mancare così di
quella mirabile coesione che è la caratteristica di altre emigrazioni.
Aggiungete la impunità che la cattiva giustizia assicura così spesso al
«figlio del paese» quando commette reati a danno d'italiani--i quali
sopportano tutto in espiazione di quel peccato originale che è l'essere
_gringo_--aggiungete l'inazione diplomatica che lascia i nostri
connazionali esposti all'arbitrio, al sopruso e alla brutalità, ed
avrete un'idea della posizione forzatamente umile dell'emigrato
italiano.
È per questo che noi laggiù non abbiamo sempre troppa fierezza, e non
facciamo mostra di un'eccessiva dignità nazionale. Un anno e mezzo fa,
poco tempo dopo che al Brasile si era data una sanguinosa caccia
all'Italiano--pagata poi con un po' di denaro, senza nessuna
soddisfazione per la bandiera italiana che la folla aveva oltraggiato
trascinandola nel fango--il Presidente del Brasile, Campos Salles, si è
recato a Buenos Aires. Moltissime Società italiane con bandiera e musica
andarono a riceverlo, qualcuna di quelle Società diede persino feste in
suo onore, e alla sera le facciate delle sedi sociali furono illuminate.
Un ricco signore italiano giunse persino ad offrire la sua casa per
ospitarvi il Presidente brasiliano, offerta che, si capisce, venne senza
indugio accettata. E come questo, troppi altri «omaggi» inconsiderati
rendiamo. In tutto ciò vi è molta ingenuità, molta incoscienza,
desiderio di far cosa gradita, entusiasmo impulsivo e incoerente. Siamo
latini anche noi; una bandiera spiegata e un festone di lampadine
elettriche bastano spesso a farci gridare evviva. C'è il buon cuore, il
cuore italiano, perchè con quello si nasce e si muore, ma non c'è il
carattere italiano, perchè il carattere si forma; e, disgraziatamente,
in Italia non è popolarizzato il mistero della sua formazione. Le nostre
masse povere che emigrano sono moralmente amorfe.
*
* *
I danni che a noi derivano da questa emigrazione sono materiali e
morali. I materiali: l'Italia che ha nell'Argentina più d'un milione dei
suoi figli--ossia un quarto della popolazione della Repubblica--non
contando i loro discendenti, non occupa nell'importazione di quel paese
che il quarto posto, e il settimo nell'esportazione. I danni morali sono
molto più gravi: laggiù si giudica del nostro paese in base
all'emigrazione.
Gli Argentini stimano la Spagna perchè ne sono figli, l'Inghilterra
perchè ne sono debitori, la Francia perchè ne sono satelliti, la
Germania perchè ne sono clienti, gli Stati Uniti perchè ne sono
ammiratori e imitatori. Dell'Italia sanno poco (la coltura storica e
artistica non è in verità il loro forte), fuorchè essa manda laggiù
bastimenti carichi di suoi figli, attivi, infaticabili, preziosi, sì, ma
poveri e umili, due qualità straordinariamente disprezzabili,
specialmente in un paese dove il denaro e l'orgoglio sono tutto.
L'Italia è generalmente raffigurata dalla massa _criolla_ come un paese
di affamati, saturo di popolazione--quasi una piccola Cina--che ha
bisogno di tendere la mano alla ricca e progredita America. Basta vedere
le allegorie politiche dei giornali illustrati, nelle quali v'entri
l'Italia, per capire, niente altro che dal gesto di magnifica protezione
dell'Argentina verso l'Italia più piccina di lei, quale è il pensiero di
quella gente, sui rapporti dei due paesi.
Ricordo che un giorno il direttore del più popolare giornale della sera,
parlando con me di politica europea, mi sosteneva col massimo
convincimento che l'Italia deve l'essersi salvata dalla crisi economica,
di recente e dolorosa memoria, precisamente all'... Argentina.
L'Argentina ci avrebbe salvato prima portandoci via dei disoccupati e
degli affamati che avrebbero fatto la rivoluzione, poi economicamente
con i... risparmî mandati a casa dagli emigranti e con lo sbocco dato ai
nostri prodotti. L'egregio direttore ripeteva ciò che in più occasioni
aveva scritto e ciò che la massa dei suoi lettori pensa.
Un giovanotto della migliore società bonearense, di ritorno da un
viaggio in Europa, o meglio a Parigi, rispondendo ad un amico
mio che gli vantava la vita napoletana, al sentire la parola
_paseos_--passeggi--esclamò, con un sorriso indescrivibile:
--_Caramba, me abria gustado ver los napolitanos in coche!_--Perbacco,
mi sarebbe piaciuto vedere dei napoletani in carrozza!
Un altro aneddoto ancora più caratteristico. Il figlio d'un ministro
argentino si trovava a Napoli con un amico italiano, ora stimatissimo
professore di latino a Buenos Aires, e passeggiando per la città,
meravigliato del concorso elegante, esclamò:--Ma qua sono tutti
stranieri!--L'amico rispose distrattamente che ci sono sempre molti
stranieri a Napoli. Alia sera, al San Carlo, il figlio del ministro non
si era ancora seduto nella sua poltrona, che girando lo sguardo sorpreso
intorno alla sala ripetè:
--_Però todos, todos estranjeros!_
--Ah, no!--rispose l'amico comprendendo finalmente--sono napoletani,
tutti napoletani, che Dio ti benedica!
La sua mente non concepiva dei napoletani in abito nero e delle
napoletane in _décolletée_ e brillanti, riuniti in una splendida sala da
teatro. Per lui, come per la maggiorità de' suoi concittadini,
«napolitano» era quasi sinonimo di venditore ambulante, di lustrascarpe
e di spazzaturaio.
È facile immaginare quanto questa, diciamo così, poca considerazione dei
nativi contribuisca a deprimere maggiormente il morale del nostro
emigrante. L'Argentino, per la sua natura spagnolesca--che sotto certi
aspetti può anche avere alcunchè di simpatico--è superlativamente
orgoglioso, e convinto della sua indiscutibile superiorità sopra tutti
gli altri umani dell'universo--ed è abituato a sentirselo dire. Anche
nelle sue dimostrazioni di amicizia e di simpatia vi è sempre un'aria di
degnazione, di protezione; nella sua cordialità c'è della benevolenza;
si pone a _vos ordenes_ per una forma di squisita e cavalleresca
educazione, ma non riconosce nè _ordenes_ nè _deseos_ se la sua vanità
non è solleticata; egli può concedere, mai cedere. Nelle transazioni fra
uno straniero e un «figlio del paese» vi è sempre il carattere di
transazioni fra inferiore e superiore, anche se avvolti nel velo soave
di una educazione inappuntabile. Per di più, se gli argentini colti,
quelli che formano la minoranza dirigente, sentono nella prosperità in
cui vivono i vantaggi incalcolabili della nostra emigrazione, e la
desiderano e la provocano, la massa povera _criolla_, quella che vive
disseminata nella campagna, ne sente invece i danni. Una volta era
padrona della Pampa, che la nutriva senza la dolorosa necessità del
lavoro. Ora, dove è l'italiano _enlazare_ un bue diventa un furto; il
colono difende i frutti del suo lavoro, e il _gaucho_ è costretto per
vivere a lavorare nell'_estancias_ qualche mese dell'anno; ciò offende
la sua dignità. Egli ha rancore contro il _gringo_, e di quando in
quando all'occasione si vendica a colpi di rivoltella, troppo spesso
impunito.
La situazione dei lavoratori italiani, specialmente nei campi, è in
certo modo simile a quella degli ebrei in alcune nazioni d'Europa, i
quali fanno liberamente i loro affari, ma un'ostilità blanda e latente
li circonda. Alla prima occasione si sentono gridare in faccia la parola
«ebreo» come un'ingiuria. Laggiù si grida: _gringo_.
L'italiano si chiama _gringo_, un vocabolo dispregiativo, che non ha la
traduzione. Non se ne sa nemmeno l'origine: alcuni credono che venga da
_griego_-greco. Parrebbe che una volta, in uno dei primi anni del secolo
passato, sbarcasse al Plata una comitiva di cavalieri d'industria greci,
che rubarono mezzo mondo e poi presero il largo. Da allora si sarebbero
chiamati _griegos_ gli stranieri, quasi come per dirsi:--In guardia
amico!--Da _griego gringo_; e questo appellativo è restato quasi
esclusivamente sulle spalle degli Italiani. Non sono molti anni che
rappresentava un'ingiuria mortale, ma poi i _gringos_ sono diventati
tanti che la parola ha perduto molto dell'acerbo significato, restando
una semplice espressione disprezzante, come potrebbe essere da noi il
vocabolo «stranieraccio». In forma amichevole _gringo_ si cambia in
_gringuito_. Spesso invece è seguito da un immondo qualificativo
decentemente intraducibile e pure tanto comune laggiù, che pare non
abbia altro scopo che di riportare la parola _gringo_ all'antico
ingiurioso significato.
Un argentino si offende se viene chiamato _gringo_. Tutti gl'Italiani
indistintamente sono _gringos_. L'appellativo è usato correntemente. Dei
_gringos_ il più dispregiato è il _tano_. _Tano_ è la corruzione di
«napoletano». Tutti i meridionali sono «tani». Questa parola non è molto
usata nelle classi _decentes_; se ne fa abuso nel volgo, specialmente
della campagna. Siccome i poveri emigranti meridionali, calabresi,
abruzzesi, napoletani, siciliani, sono i più miseri e i più incolti, la
parola _tano_ poco a poco è venuta a designare l'ultimo gradino
dell'umiltà umana. Dire _tano_ è come dire «miserabile!» Di questa
parola non esiste un vezzeggiativo in _tanito_: _tano_ è sempre
dispregiativo assoluto. L'Argentino irritato vi dice in faccia _gringo_:
irato vi grida _tano_. Ciò significa che le parole equivalenti a
_italiano_ e _napoletano_ occupano un posto nel vocabolario delle
ingiurie. E il nostro orgoglio non ne può essere lusingato.
Nel teatro _criollo_, che è una derivazione recente dell'antico teatro
spagnolo, s incontra spesso il _tano_. Come in tutti i teatri primitivi
i caratteri dei personaggi rimangono stereotipati attraverso le diverse
commedie, formando quasi delle maschere; fra queste maschere il _tano_
fornisce il diversivo allegro: è burlato da tutti, parla a strafalcioni;
è un po' il «servo sciocco» delle antiche scene italiane, ma più servo e
più sciocco, per di più ladro e.... bastonato. Questo solo basterebbe a
farci comprendere la strana depressione del nostro prestigio.
*
* *
Fra chi è nato al di qua e chi è nato al di là dell'Atlantico v'è una
barriera invisibile che l'Argentino sente e apprezza; ed attribuisce
alla propria generosità e alla propria bontà il non farla sempre valere.
Esso si ammira in buona fede; dice e scrive in fondo in fondo così:
«tutta questa gente moriva di fame nel suo paese, è venuta qua, ed io
non la scaccio; come sono buono, generoso, ospitale!» Tutti hanno
interesse di ripetergli in coro «come siete buono, generoso,
ospitale!»--e la barriera invisibile persiste minacciosa.
Oh! facciamo una buona volta i calcoli di questa ospitalità generosa,
vediamo da quale parte sono gli utili maggiori, immaginiamo che cosa
sarebbe quel paese senza di noi, ed osserviamo ciò che è; vediamo chi
crea la sua ricchezza, vediamo chi produce e chi spende, chi suda e chi
gode, chi fa e chi disfà. Smettiamo di mentire, perchè la nostra dignità
ne ha sofferto abbastanza.
Il nostro lavoro è richiesto: si domandano braccia.--«Che cosa guarirà
mai la profonda crisi argentina?»--chiedevo un giorno al senatore Canè,
uno dei più colti politici argentini.--«Non c'è che un rimedio:
l'emigrazione»--mi rispose. Dunque da una parte si chiede l'emigrazione,
dall'altra vi è la potenza di soddisfare la domanda. Si può ben trattare
come parti contraenti, mettere delle condizioni, volere delle garanzie,
pretendere un po' di giustizia per i nostri poveri connazionali, in
cambio della immensa forza che noi diamo, e che noi dovremmo dirigere.
La vera Italia è sconosciuta o misconosciuta laggiù: la sua voce timida
vi fu raramente udita; ascoltata mai. Il solo fatto di chiedere niente
altro che il mantenimento delle calpestate promesse costituzionali, come
il «diritto alla vita, all'onore, alla libertà, all'eguaglianza, alla
proprietà e alla sicurezza», ci porrebbe immediatamente in una ben
diversa situazione morale.
«Parla? dunque vive!»


UNIONI E SCISSIONI.
[Dal _Corriere della Sera_ del 30 luglio 1902.]

Gl'italiani al Plata sono riuniti in circa trecento associazioni
diverse: il che significa che sono perfettamente disuniti.
La questione delle associazioni ha laggiù un'importanza speciale perchè
da essa deriva una grande debolezza, una mancanza di coesione morale,
una dispersione di forze e di ricchezze nella nostra colonia, mentre
potrebbe e dovrebbe essere un elemento di unione e di potenza.
La cosa andrebbe studiata con cura. Noi abbiamo nel sangue un po' di
spirito di scissione; è indubitabile. Il disaccordo non è lo stato meno
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