L'Argentina vista come è - 13

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anche il letto del Paranà. Una Società per azioni, la «Colonizadora
Popular», il cui gerente è fuggito a New York, una grande Società che
possedeva persino dei piccoli vapori sul Rio della Plata e sul Paranà,
vendette, senza mai sognarsi d'averne il diritto, una straordinaria
quantità di terreni al nord, si può dire quasi tutto il Chaco Australe,
frodando un tre milioni di pesos che, manco a dirlo, erano in gran parte
italiani.
Ma anche ora che è passata la febbre dell'oro, pare che le vendite
all'usanza della «Colonizadora Popular» non siano passate di moda, se si
crede ad un articolo della _Patria_ del 16 aprile, col quale s'invocano
provvedimenti contro certi _rematadores_ che mettono all'asta dei
terreni, intascano la loro quota e lasciano ai compratori la
soddisfazione di constatare, dopo qualche tempo, che l'asta non era
regolare.
Si passano i limiti del verosimile. Una forma di frode abbastanza
ripetuta è questa: un uomo influente, amico del Governo, compera un
terreno nazionale da pagarsi in tempo determinato, ordinariamente dieci
anni. Subito _remata_. La terra subisce il solito processo di
rincarimento e in ultimo viene venduta ai coloni, i quali la coltivano,
la fecondano del loro sudore e pagano le annualità pattuite. Ma l'amico
del Governo, che ha intascato un bel capitale, dimentica di pagare la
terra allo Stato. Passa il tempo stabilito e il contratto suo è nullo.
Lo Stato torna padrone e sequestra la terra. I contratti dei coloni sono
nulli; la terra è mal venduta; i loro _bolletti provvisorî_ valgono un
bel niente. Essi sono spodestati. La loro terra appartiene ad un altro
concessionario, il quale li scaccia.
Qualche volta è successo--e non certo raramente--che il venditore
accende un'ipoteca sui fondi venduti ai coloni, sapientemente
profittando del fatto che i coloni hanno titolo di proprietà soltanto
alla fine dei pagamenti. Ritira le quote annuali dai coloni e se ne va
in pace. I poveri contadini si veggono ritolta la proprietà loro o
debbono assoggettarsi a pagare l'ipoteca, ossia a ricominciare da capo.
Un argentino ricchissimo, che aveva mal comperato certi terreni in San
Vicente, nella provincia di Santa Fè, pensò di rifarsi vendendoli a dei
coloni italiani. Nell'affare figurò un agente, il quale cedette i lotti
ai coloni a rate annuali e passò gl'incassi all'argentino
ricchissimo--il fatto è ben noto in tutta la provincia. I veri
proprietarî, dopo alcuni anni, fecero un processo ai coloni e ottennero
di sloggiarli tutti quanti. Alcuni di quegli infelici preferirono pagare
di nuovo, ma dovettero pagare il doppio, poichè il terreno, dopo sette
anni del loro lavoro, aveva raddoppiato di prezzo. Essi così pagarono
tre volte la terra. Cito questo caso, perchè l'argentino in questione ha
occupato un'altissima posizione nel governo della provincia di Santa Fè
ed è fra i più reputati uomini politici: lo chiamano l'_honrado
tirano_--il tiranno onesto. Questo dimostra che fare di queste cose non
è in fondo un gran male laggiù. È un po' di _viveza_.
*
* *
È impossibile enumerare tutte le infamie di questo genere delle quali
sono vittime i nostri coloni. Il male è che il cattivo esempio viene
dall'alto. Cito fra molti un fatto--che posso documentare--avvenuto
recentemente a Yeruà. Il Governo argentino ha venduto dei terreni a
coloni italiani, pagamento rateale a dieci anni. Quando mancano gli
ultimi pagamenti, gl'incaricati della riscossione si rifiutano di
ricevere il denaro per poter così mantenere non definitivo e illegale il
possesso. E sapete perchè? Per poter cedere una parte di quelle terre
già pagate, sacrosantamente pagate, ad una Compagnia ferroviaria.
Tra errori e frodi, non è esagerato l'asserire che più del sessanta per
cento dei contratti di vendita di terre è di validità non accertata. La
colonia Cello, la colonia Josefina, la colonia Santarita, sono state
pagate interamente due volte; anzi molto di più, perchè nel nuovo
pagamento si è tenuto largamente conto dell'aumento del valore.
Non è facile immaginare quale sia questo aumento, talvolta. Il colono
prende possesso d'una terra vergine, e la terra ha bisogno di lunghe,
pazienti e faticose cure prima di schiudersi alla fecondità. Il colono
deve circondarla di recinti, deve costruirvi la casa, scavare i pozzi,
tracciare le strade, allevare gli animali da lavoro, dissodare la terra,
a più riprese sconvolgerla tutta. Soltanto dopo varî anni egli raccoglie
i frutti del suo assiduo lavoro. Nei primi anni le sementi si perdono; i
cardi e gli sterpi sotterrati dall'aratro tornano a sollevare i loro
steli tenaci fra le zolle, soffocando il frumento: bisogna schiacciarli
di nuovo sotto i colpi degli attrezzi campestri, come serpentacci, fino
a che si ritirano dai campi coltivati, vinti e dispersi. Ebbene, è
proprio in questo momento, quando il colono sta per ritrarre i primi
frutti del suo lavoro, che egli--nei casi troppo soventi di mala
vendita--si vede scacciato. Egli deve abbandonare la terra «con tutto
quanto vi è piantato, edificato e inchiodato»--come è detto nei
contratti di vendita. E deve abbandonare anche il raccolto, perchè
questa specie di sfratto laggiù compare, come una mala pianta, quando le
messi maturano.
*
* *
Ecco perchè anche il _colono_ come il _mediero_--del quale il lettore
conosce la triste esistenza--si trovano costretti a sfruttare ad
oltranza la terra, ripetendo senza posa le colture che offrono prodotti
di più facile smercio e di maggiore profitto, come il grano, il lino e
il mais, senza mai concederle una rotazione che significherebbe perdita
di tempo e di denaro, senza mai rinnovarle i sali sottratti dalla
vegetazione, senza mai darle riposo.
La terra s'impoverisce rapidamente. La vita media d'una colonia non
supera i venticinque anni. La crisi agricola, in molte delle più antiche
colonie argentine, diviene endemica. Entre Rios e Santa Fè declinano. Si
leggono nei giornali argentini delle descrizioni desolanti di miserie
profonde. Se il colono fosse lasciato libero del suo campo, senza
l'oppressione d'uno sfruttamento così grave, non basterebbero certo le
cavallette del Chaco a rodere in due anni la prosperità della campagna
argentina. È che i disastri agrarî trovano tanto la terra quanto i suoi
lavoratori immiseriti, incapaci a resistere.
La _Patria_ del 15 gennaio esponeva crudamente questa situazione. «Chi
fa le spese è il lavoro»--scriveva.--«In definitiva, o i coloni debbono
morir di fame per fare le spese ai proprietarî di terre e ai
capitalisti, ovvero debbono rendersi insolvibili verso chi somministra
loro le sussistenze; tutto il meccanismo dell'economia rurale non ha
che uno scopo solo: impinguare la scarsella ai latifondisti ed alle
imprese di colonizzazione.»
C'è di che far molto meditare gli organizzatori infaticabili dei nostri
scioperi agrarî!
*
* *
Ora il Governo argentino, per compensare la diminuzione costante della
produzione agricola, intende di dare un nuovo grande impulso alla
colonizzazione nel Sud. Ma nessuna prosperità durevole sarà possibile,
se la terra non verrà distribuita direttamente ai coltivatori, evitando
ogni intermediario. Ma, ahimè! l'affarismo e la speculazione già
cominciano a stendere i loro tentacoli sitibondi lungo i tracciati delle
nuove ferrovie del Sud...
Nell'Argentina vi sono sopra a duecentomila disoccupati, in parte
coltivatori, che hanno disertato i campi resi infecondi. Con questa
massa di lavoratori pratici del paese è possibile al Governo argentino
di tentare un vastissimo esperimento di colonizzazione, prima di
stimolare ciecamente nuova emigrazione italiana, che potrebbe ritrovare
laggiù antichi dolori e disinganni.
È la minore garanzia che possiamo pretendere contro lo sfruttamento
della nostra emigrazione lavoratrice.


LA TUTELA DELLA MADRE PATRIA.
[Dal _Corriere della Sera_ del 31 agosto 1902.]

Un console italiano, rappresentante la nostra diplomazia in una delle
principalissime città della Repubblica Argentina,--città dove vivono non
meno di quarantamila nostri connazionali--ha inviato una bella mattina
la lettera seguente alla _Patria degli Italiani_. È il grido d'un buon
burocratico che trova il suo tavolo troppo ingombro di lavoro, e che
invoca la meritata tranquillità:
«Nell'interesse e per norma dei nostri connazionali i quali avessero
reclami da sporgere per fatti dell'autorità da cui si ritenessero lesi,
sarò grato se vorrete pubblicare il seguente avviso:
«Giusta i principî stabiliti dal Governo del Re, i regî sudditi, i quali
si ritengono lesi nei loro diritti da qualche autorità locale, dovranno
_prima di tutto_--e fondandosi nelle garanzie loro accordate dalle
costituzioni argentine--rivolgersi successivamente, se necessario, a
_tutte_ le autorità superiori a quella dalla quale furono danneggiati,
fornendo ad esse le prove convincenti dei fatti asseriti».
Una parentesi: le parole in corsivo sono sottolineate nel testo
originale. E continuiamo:
«Solo nel caso, non presumibile, che la suprema autorità locale siasi
negata di far giustizia, od abbia indiscutibilmente violata
quest'ultima, i regî sudditi potranno far ricorso all'intervento
dell'autorità consolare, provando:
«1.º Che il reclamante ha diritto all'invocata protezione consolare, per
avere egli il possesso attuale della nazionalità italiana, e per la
regolarità della propria situazione di fronte alle leggi della Patria.
«2.º Che il reclamo è basato sulla realtà dei fatti, i quali perciò
debbono essere provati, e che esso abbia fondamento giuridico; giacchè
non tutti i danni sono suscettibili di risarcimento.
«3.º Che vi sia stato--ciò che non deve supporsi--un diniego od una
patente violazione di giustizia da parte delle supreme autorità locali.
«È pero lasciato al prudente criterio di equità del Regio Console il
giudicare, caso per caso, della opportunità o meno di interporre fin da
principio, in favore dei reclamanti, il proprio intervento _ufficioso_,
allo scopo di conseguire eque transazioni ed amichevoli componimenti.
«Gradisca, ecc.».
Questo significa semplicemente, nell'Argentina, che i Consolati sono
inutili. Supponete un caso pratico, prendiamo un esempio nella piccola
cronaca di tutti i giorni: un soldato di polizia per distrarsi consegna
un colpo di daga ad un _gringo_. Il poveraccio non può correre dal
Console, da colui che dovrebbe rappresentare la tutela, la protezione
della sua patria. No, deve «prima di tutto, fondandosi nelle garanzie
accordate dalle costituzioni argentine, rivolgersi _successivamente a
tutte le autorità superiori_, ecc.». Dunque egli si fonda sulle
garanzie e corre--se può--dall'ufficiale di polizia; se non giova va dal
commissario; non basta? e allora protesta presso il «jefe politico»; se
l'alto funzionario non gli bada si reca dal ministro della provincia; se
il ministro gli nega giustizia si presenta al governatore; il
governatore lo manda al diavolo? allora va dal ministro della giustizia
del Governo federale; se questi rifiuta di accogliere il reclamo, il
poveraccio bussa alla porta del Presidente e gli racconta il fatto. È da
notarsi intanto che il regio suddito--per usare il termine
burocratico--si sarebbe dovuto trascinare appresso, sempre, i testimonî
e i periti, o almeno le perizie, perchè bisogna «fornire a tutte le
autorità le prove convincenti dei fatti asseriti». Il Presidente non gli
dà retta neanche lui, «ciò non deve supporsi»--dice il nostro
console--ma supponiamolo, che la verosimiglianza ci guadagna, e allora
il regio suddito--o i suoi discendenti perchè nel frattempo saranno
passati tanti anni!--trovandosi in perfetta regola con le emanazioni
consolari, ricorre al Console. La cosa è semplicissima; egli non ha che
a «provare di avere il possesso attuale della nazionalità italiana e di
dimostrare la regolarità della propria situazione di fronte alle leggi
italiane»; poi passa a dimostrare che «il reclamo è basato sulla realtà
di fatti, i quali debbono perciò essere provati» e fa una breve
dissertazione giuridica sul giuridico fondamento. In ultimo non ha che
da provare il diniego o la violazione di giustizia--e che sia
«patente»--da parte delle supreme autorità locali, e il Console
finalmente inizia i passi necessarî per ottenere la riparazione.
Ebbene, tutto questo è una burla feroce in un paese dove la giustizia è
quello che è, dove l'abuso e il sopruso sono moneta corrente, e dove il
delitto, specialmente se è a danno di stranieri, rimane così spesso
impunito. Quale difesa porge l'Italia a quei suoi figli lontani? quale
protezione? Il comunicato del Console in questione ce lo dice. Non è
colpa nostra se i legami fra la Madre Patria e gli emigrati si spezzano
così facilmente?
*
* *
Quel comunicato ha un significato molto grave, perchè non rappresenta
una stranezza d'un Console originale poco scrupoloso dei suoi doveri, ma
è la espressione di tutto il nostro sistema diplomatico: esso espone i
«principî stabiliti dal Governo del Re», esso rappresenta lo spirito
della legge, è la legge. Non è quel Console che non vuol proteggere le
vittime italiane dagli abusi abitudinarî delle autorità argentine: no, è
la nostra legge che non li difende, che non li ha mai difesi. Il Console
del quale ho parlato non ha fatto che trascrivere quello che dicono i
regolamenti diplomatici; egli è in regola. Si è visto forse assediato di
proteste di nostri confratelli angariati, fra tanti gridi di aiuto non
ha saputo più quali ascoltare, ed egli ha scritto quella lettera. Essa
in altre parole viene a dire: Ma voi credete che io possa fare del bene?
credete che io possa darvi protezione, aiuto, difesa? ah, no, voi non
sapete quali sono le attribuzioni del Console: esse sono queste e
queste.
È vero che «è lasciato al prudente criterio di equità del Regio Console
il giudicare, caso per caso, della opportunità, o meno, di interporre il
proprio intervento _ufficioso_ in favore dei reclamanti», ma quel
prudente criterio è così prudente che molto di raro mette la testa fuori
del Consolato, e ciò fa solo quando è impossibile farne a meno.
Da qualunque parte si vada si odono proteste contro l'inerzia dei
Consoli. Sono avvenute cose incredibili, non parlando che di questi
ultimi tempi; italiani vessati, truffati, angariati, feriti, assassinati
senza che in nome della loro Patria si levasse nessuna fiera voce di
protesta. Le autorità consolari domandano spiegazioni alle autorità
argentine; queste ne danno--buone o cattive poco monta--le autorità
consolari se ne dichiarano più o meno soddisfatte e ringraziano. Le
vittime figurano sempre dalla parte del torto, si capisce. Un'infinità
di fatti che hanno sollevato l'indignazione pubblica, sono passati,
così, come le cose più naturali.
Il tredici del luglio scorso un italiano, un certo Domenico Barolo,
venne arrestato senza ragione nella sua casa, a Rosario. Condottolo in
istrada gli agenti estrassero le daghe e gli diedero tanti colpi di
taglio e di piatto da stenderlo al suolo. Allora chiamarono una vettura
e ve lo gettarono di traverso come un sacco, ponendogli i piedi sul
petto. Rinvenuto, alla Commisseria, volevano fargli pagare una multa di
dodici pesos, ma poi per l'intermissione d'un signore che lo conosceva
venne rilasciato. Tutto questo è dettagliatamente narrato da un giornale
argentino, la _Repubblica_, la quale, fatta constatare l'esattezza del
racconto, inviò un redattore al Consolato italiano, accompagnato dalla
stessa vittima, per fare una protesta. Lo stesso giornale riportava,
dopo alcuni giorni, la notizia che le spiegazioni della polizia
argentina erano state trovate soddisfacenti dal Consolato italiano. Le
ferite, quell'infelice, se le sarebbe fatte da sè, cadendo. Basti il
dire--osserva la _Repubblica_--che egli ha, fra le altre, varie ferite
alla sommità del cranio, e per farsele sarebbe dovuto cadere
replicatamente con la testa in giù e le gambe in aria, dritto come un
uovo.
Di questi fatti ve ne sono a bizzeffe. Un altro, caratteristico. A Bahia
Blanca, nel marzo passato, la polizia ha assalito con le armi degli
operai italiani che avevano scioperato per ragioni sacrosante che
abbiamo esposte in altro articolo. Vi sono stati quattro feriti, di cui
uno gravemente. Nessuna guardia ferita. L'autorità consolare, dopo
domandate delle spiegazioni alla polizia e fatta una specie d'indagine,
ha concluso che gli operai avevano torto, che la polizia era la vittima,
o poco meno, e che non si era potuto sapere il nome nemmeno di uno dei
pretesi feriti. I nomi, se all'autorità preme ancora saperli, eccoli:
Federico Dellepiane, Ivano Franchetti, Pasquale Severini e Pietro
Giorgenti. I due primi sono stati anche imprigionati. Il ferito grave
era il Dellepiane. La cosa non è un segreto--fuori che per la
diplomazia, pare--poichè fu resa pubblica da una protesta, al _Jefe
politico_, dei commercianti di Bahia Blanca, protesta portante
quarantatre firme--fra le quali molte di argentini.
*
* *
Quando pensiamo che la polizia nord-americana ha messo sotto sopra il
mondo per una miss Stone sequestrata, con tutti i riguardi, dai briganti
bulgari--la quale dopo tutto era andata a pescare la sua disgrazia con
la più evangelica buona volontà--; quando pensiamo che per un
missionario ammazzato, od anche minacciato, in Cina, si domandano
solenni riparazioni e si muovono minacciosamente le flotte; quando
pensiamo a tutto questo sentiamo la vergogna per l'abbandono in cui
lasciamo i nostri compatrioti all'estero, restando indifferenti davanti
ad ogni infamia, inerti e tranquilli. E poi ci stupiamo se gl'Italiani
non godono di troppo prestigio al di là dell'Atlantico.
In un paese, come l'Argentina, dove gli uomini pongono bene spesso sulla
bilancia della Giustizia il peso delle loro influenze e delle loro
relazioni, lo straniero, che non ha nessuno di questi pesi da mettervi,
trova la bilancia terribilmente difettosa. Per ridurla normale i
rappresentanti del suo paese dovrebbero gravarvi quanto basta con la
loro autorità. I nostri rappresentanti parlano seriamente di garanzie
costituzionali argentine sulle quali ci si dovrebbe fondare, e partono
in ogni questione dal principio che «non deve supporsi un diniego o una
violazione di giustizia». Già, come se quella bilancia laggiù andasse
bene!
Un diplomatico italiano mi disse un giorno che gli emigranti, per il
solo fatto di essere andati laggiù, accettavano tutte le condizioni
nelle quali si svolge la vita di quel paese, accettavano la sua
giustizia, la sua amministrazione, ecc. Il ragionamento è comodo, ma è
falso. Essi, poveretti, non sanno nulla di nulla; essi accettano, come
la pecora, per il solo fatto che segue il gregge, accetta la forbice che
la tosa o il coltello che la scanna. Ed è così che molti, troppi dei
nostri rappresentanti diplomatici sentono la loro missione. È pur vero
che chi di loro vuol fare non può.
Non può perchè v'è la consuetudine, v'è il precedente. Un console od un
ministro italiano che prendendo a cuore una questione parlasse alto,
risoluto, fieramente, non metterebbe troppo pensiero alle autorità
locali, le quali potrebbero sempre dire: nella tale occasione analoga a
questa si fece così e così, e foste contenti; in questa faremo lo
stesso, e dovrete essere contenti. Non può perchè i casi per levare voci
di protesta, per invocare a grandi gridi la giustizia sono tali e tanti,
che un console coscienzioso, nell'America del Sud, non saprebbe dove
cominciare, dove mettersi le mani, se non nei capelli per la
disperazione. Non può perchè sa che alle spalle non ha--povero emigrato
anche lui--che una ben debole protezione. Il Governo non vuole
seccature, non vuole complicazioni; il diplomatico più abile è quello
che dà meno noie, che solleva meno incidenti. Non bisogna essere troppo
esigenti, Dio mio, bisogna contentarsi delle spiegazioni che i governi
interessati hanno la bontà di fornire. Il diplomatico che ha troppi
scrupoli è presto tolto di mezzo; le buone relazioni internazionali sono
salve. C'è la consuetudine anche in questo: tanto che se il nostro
Governo per una volta si associa alle proteste di qualche suo agente,
non mette una gran soggezione, nemmeno ad un Venezuela. È una cosa così
nuova! Il Governo in fondo dice ai suoi consoli e ministri quello che
costoro dicono ai «regî sudditi»: Sbrigatevela da voi!
*
* *
Ed essi se la sbrigano. Cercano di tenersi amiche le autorità locali,
procurano di non urtare in niente, d'andare avanti sgusciando
destramente fra questione e questione, persuasi qualche volta che quella
è la buona via per cementare gli accordi fra Governo e Governo, per
fomentare le fratellanze. Le autorità locali ne sono _enchantées_. Così
essi assicurano la tranquillità dei rapporti diplomatici e non
compromettono la loro carriera.
E non hanno torto. La carriera li preoccupa giustamente. Essi sono degli
impiegati; anzi sono troppo impiegati. E la diplomazia non dovrebbe
procedere alla stregua della burocrazia. La promozione e il trasloco
degli agenti diplomatici dovrebbero essere soggetti a ben diverse leggi
da quelle che regolano la promozione e il trasloco di altri impiegati
dello Stato. Non può un diplomatico essere, supponiamo, vice-console ad
Anversa, console a San Paulo del Brasile, console generale a
Costantinopoli, segretario a Tokio, come un impiegato alle imposte
dirette è commesso a Sassari e ricevitore ad Otranto. L'azione del
diplomatico spazia nell'ambiente in cui egli vive, e deve essere diversa
a seconda dei diversi ambienti. Un console non può limitarsi
nell'Argentina o nel Brasile a dare ai suoi connazionali la sua
protezione nella stessa misura e nella stessa forma con le quali le dà,
che so, a Londra o a Berlino. I governi, le autorità, la Giustizia, le
amministrazioni offrono ben diverse garanzie nei diversi paesi, ed è
assurdo che l'azione dei consoli sia limitata dagli stessi «principî
stabiliti dal governo del Re» in qualunque parte del mondo si trovino.
Il console deve poterne uscire da quelle trincee protocollate, e per
uscirne deve conoscere intimamente l'ambiente. Ma questo non avverrà mai
finchè egli sarà portato dalla sua «carriera» a considerare il posto che
occupa come una posizione transitoria.
«Fra tre, fra due, fra un anno io me ne andrò»--egli pensa--e prosegue
soavemente la sua via, chiudendo occhi e orecchie alle proteste che si
levano intorno a lui e alle domande angosciose d'aiuto e di difesa. Se
egli poi, per lunga residenza o per alto sentimento del dovere,
approfondisce l'ambiente, sa trovare tutte le fila del nuovo meccanismo
sociale nel quale si trova, conosce gli uomini che lo circondano, sa
parlar loro, sa chiedere, concedere o volere, ecco che viene sbalestrato
agli antipodi. Noi avevamo, per esempio, un funzionario pratico
dell'Africa che conosceva l'Eritrea e i suoi abitanti perfettamente, che
parlava l'arabo e l'amarico e lo abbiamo mandato console in.... Cina,
come se i cinesi e gli abissini fossero la stessa cosa. Così, su per
giù, avvengono i nostri «movimenti diplomatici.»
Gl'Inglesi invece... (È seccante dover ricorrere sempre all'esempio
inglese, ma gl'Inglesi, pur troppo, anche qui, hanno un'indiscutibile
superiorità). Gl'Inglesi, dicevo, per molti paesi creano dei diplomatici
direi quasi specialisti. A Pechino vi sono presso la Legazione inglese
numerosi studenti di cinese i quali, giunti a maturità di studio,
diventano consoli inglesi disseminati nel Celeste Impero. Il presente
ministro inglese a Pechino è uno degli orientalisti più stimati e le sue
opere sull'antica letteratura cinese sono preziose. In molti paesi,
nell'Argentina fra gli altri, alcuni consoli d'Inghilterra sono dei
commercianti. Essi offrono moltissimi vantaggi: conoscenza perfetta del
paese, delle sue forze economiche, della sua potenzialità produttrice,
della sua potenza di consumo; poi innegabile abilità diplomatica, perchè
la _ruse_ d'un commerciante non ha rivali; inamovibilità, che è garanzia
di serietà, di circospezione e di pratica dell'ambiente. Infine
vantaggio non minore è che gli interessi della loro nazione combinano
con i loro stessi interessi; una diminuzione di prestigio è una
diminuzione d'affari; la prosperità del commercio inglese è anche la
loro fortuna. Essi sono mescolati alla vita sociale, la forza che deriva
dalla loro autorità non rimane rinchiusa nel loro ufficio, ma irradia su
tutta la vasta cerchia dei connazionali che hanno con essi affari,
rapporti e contatti. Non è certo desiderabile che, per imitare gli
Inglesi, i nostri consoli nei centri minori divenissero commercianti e
viceversa; ma che i consoli fuori d'Europa restassero a compire la loro
carriera diplomatica nel paese che essi conoscono di più, questo sì che
sarebbe veramente da pretendersi.
*
* *
Col nostro sistema è chiaro che il Governo non potrà sempre
avere--attraverso i suoi rappresentanti--un'idea troppo chiara
dell'essenza e dell'indole di certi Governi lontani e per conseguenza
della maniera di trattare efficacemente con essi.
Basta, per accorgersene, paragonare l'azione del Governo nostro presso
quello argentino in certi casi, e quella del Governo inglese in casi
analoghi (e perdonatemi se torno in ballo con gl'Inglesi). Una
volta--sono molti anni, ma chi ha avuto contatti col mondo diplomatico a
Buenos Aires lo rammenta bene--venne da un _caudillo_ della provincia
della capitale ammazzato per questioni d'interesse un suddito inglese.
Alle domande di giustizia, il Governo argentino rispose con promesse che
restarono allo stato di promesse. Alle proteste del ministro inglese non
rispose più nulla, aspettando dal tempo il benefico oblìo. Allora il
Governo inglese fece affiggere in tutte le stazioni ferroviarie e in
tutti i porti del Regno Unito un avviso che diceva presso a poco così:
«Il Governo di S. M. la Regina rende noto che nella Repubblica argentina
la vita non è garantita». Era il momento della grande emigrazione e il
principio delle grandi imprese: il Governo argentino, informato dal suo
ministro a Londra, si allarmò e domandò lo stracciamento degli avvisi.
Fu risposto che questo sarebbe avvenuto soltanto dopo la punizione
dell'assassino del suddito inglese. L'assassino fu preso e condannato
subito.
Gl'Inglesi sono il popolo più odiato nell'Argentina--basti il dire che
laggiù la parola _inglese_ significa creditore--ma anche il più
rispettato, perchè si sa che chi fa un torto ad un inglese è punito.
Soltanto ultimamente, nel mese d'aprile, è avvenuto un fatto che sembra
faccia eccezione. Il figlio d'un commissario di polizia, con la
complicità d'un agente, ha assassinato in modo vile e orribile un
giovane inglese, un tale Barnett. Vi è stato un periodo d'indecisione
perchè l'assassino gode altissime influenze, ma il contegno della
diplomazia inglese è stato così risoluto, che finalmente s'è iniziato il
procedimento penale contro il colpevole. È vero che a questo ha
contribuito anche il contegno energico e minaccioso di tutta la stampa
inglese. Il _Times_, dopo d'avere esposto le condizioni della giustizia
argentina, è giunto, in un recentissimo articolo, ad invocare nientemeno
che un'azione unita delle Potenze per garantire la vita, i beni e la
libertà dei rispettivi sudditi nell'Argentina.
E noi? Ah! quanto lunga, dolorosa, raccapricciante sarebbe la storia dei
delitti impuniti nei quali la vittima è stata italiana. Intiere famiglie
italiane sono state assassinate proprio mentre noi palpitavamo tutti per
la sorte di miss Stone, ignari dei tragici avvenimenti che facevano
scorrere lontano, in luoghi quasi ignorati, il sangue nostro.
Un altro esempio che dimostra come, in virtù della sua diplomazia, il
Governo inglese--per dirla con l'espressiva frase popolare--conosca i
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