L'Argentina vista come è - 02

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delle corrispondenze europee al più diffuso giornale di qui, la
_Prensa_, e poi anche un libro, dove ha trovato modo di dichiarare che
San Pietro e i Palazzi vaticani con le relative loggie e musei non
valgono la Galleria delle Macchine dell'Esposizione di Parigi. Davanti
alle Pinacoteche fiorentine ha avuto questa meditazione: Quanti milioni
gettati via, mentre oggi la fotografia rende così bene la verità della
vita!
Sembrano scherzi, ma no, si tratta di cose scritte, e soprattutto lette,
sul serio. L'ottimo ex-ministro rispecchia abbastanza fedelmente
l'opinione dei suoi concittadini. Qui si pensa così della nostra arte,
delle nostre grandezze, delle nostre glorie!
*
* *
Lasciato lo _square_ dall'obelisco patriottico per entrare in certe vie
laterali, pare trovarsi nella _City_, parlo della City londinese, col
suo asfalto, le sue Banche, le sue agenzie e la sua folla. _Calle
Reconquista_ somiglia a Lombard Street. Banco di Londra e Rio della
Plata, Banco di Londra e Brasile, Banco britannico dell'America del Sud,
poi Banco Anglo-Argentino, e lì presso il «River Plate Trust», la «Loan
y Agency Comp.», e la «New Zealand and River Plate Lond Mortgage Comp.»,
e la Società Ipotecaria Inglese, una quantità d'istituti finanziarî
inglesi fra i quali le altre Banche francesi, spagnuole, tedesche,
argentine e italiane, stentano a formare la maggioranza numerica. Biondi
commessi in soprabito e cilindro, con le cartelle dei valori sotto il
braccio, vi vengono addosso, vi urtano e si allontanano gettandovi un
frettoloso: «I beg your pardon!»--Si odono dei rapidi: «Good
morning!»--«Good bye!»--«Come è l'apertura del London Exchange?»--«All
right!»
Qui le mani inglesi manipolano le finanze della Repubblica. Gl'inglesi
sono i veri padroni dell'Argentina; essi hanno tutte le ferrovie, il
porto, le opere colossali dell'acqua potabile, i _trams_, tutte le
principali imprese; un investimento di un seicentocinquanta milioni di
franchi, senza contare i prestiti allo Stato. La capitale finanziaria
dell'Argentina è Londra. Dal London Exchange viene tutti i giorni la
parola d'ordine. Nei nebbiosi dintorni della Mansion House può
decretarsi la sorte di questo Stato, che esiste solo in grazia dei
capitali inglesi e delle braccia italiane.
Gl'inglesi a Buenos Aires formano proprio l'«imperium in impero», anzi
direi meglio l'«imperium in... repubblica.» Essi formano una potenza a
loro. Vivono completamente separati. Chiusi gli ufficî, alla sera, essi
corrono alla stazione del «Retiro», e i «dinner trains», pronti per
loro, li portano a Belgrano e a Flores, ameni quartieri pieni di
giardini e di villette inglesi, che rammentano vivamente i gentili e
melanconici sobborghi aristocratici di Londra. A traverso le cancellate
dei parchi, profumati da superbe magnolie fiorite, i passanti possono
seguire le partite di _lawn-tennis_, di _cricket_, di _foot-ball_ che si
svolgono sull'erba dei prati; e alla sera, dalle verande aperte,
intravvedono il pranzo di famiglia, silenzioso e cerimonioso come in
pieno West-End; un'eletta raccolta di _gentlemen_ in abito da società e
di _ladies_ in _décolletée_. Oh! Quell'abito! Vi sono degli inglesi che
vivono all'interno, in _estancie_ lontane dal consorzio umano, soli,
nella pampa, e che si mettono in frack per andare a tavola!
Quando gl'inglesi hanno voglia d'un po' di spettacolo, si fanno
concedere il Teatro dell'Opera, vi mettono in scena una produzione
inglese, e loro se la recitano, se la cantano, se la ballano e se
l'applaudiscono, infischiandosene del mondo intero. Giusto adesso essi
danno all'Opera un'operetta popolare inglese, il «San Toy», nella quale
si possono ammirare delle rispettabili _ladies_ che ballano il passo a
due con pudibonda grazia, e delle venerande _misses_ dagli occhiali e i
denti rilegati in oro, le quali, vestite da cinesi, cantano:
«Siamo le mogli dell'Imperator!
«Ma qualche volta facciamo del... flirt!...»
Lettori, fuggiamo!
*
* *
Due quadri a ponente della City si trova una via che per il suo aspetto
ricorda il Corso di Roma: è la Calle Florida, il centro dell'eleganza
bonearense. I lettori comprenderanno il significato di quei «due quadri
a ponente». Essi sanno bene come Buenos Aires sia--a somiglianza di
tutte le città moderne--costruita a quadrigliato; le strade, tutte
eguali in modo desolante, s'intersecano ad angolo retto, alla stessa
distanza, formando dei quadri: una cosa più noiosa della nebbia. Il
quadro è la base delle distanze, l'unità di misura: gl'indirizzi vengono
indicati così: tanti quadri a destra e tanti a sinistra e siete
arrivato. Par di camminare sopra una scacchiera; infatti per andare
alla Posta io debbo fare il «salto del cavallo»; per andare alla Banca
marcio come la «torre», sempre dritto; e vado al _club_ seguendo le
regole dell'«alfiere». Roba da diventar matto, anzi... scacco matto!
Calle Florida dunque è la via dello _chic_; lì sono i negozî più ricchi,
i _bars_ e i caffè più in voga, lì gli eleganti portano a spasso le loro
cravatte e le eleganti le loro ultime _toilettes_ parigine. Calle
Florida è tributaria in tutto a Parigi; sì, dall'epoca della penultima
Esposizione mondiale. Da allora Parigi--unica fra le città europee--gode
della stima presso gli argentini. Il «hijo del pais»--il figlio del
paese--quando vuol visitare il nostro vecchio ed arretrato continente
non ha altra mèta che Montmartre; esplora il «Moulin Rouge», lascia i
suoi _pesos_ nei dintorni della place Blanche, e ritorna in patria
completamente soddisfatto. A Parigi vivono sempre degli argentini, il
cui numero varia anche a seconda della situazione politica; in certe
circostanze, per esempio, quando c'è la minaccia d'una guerra col Cile,
il viaggiare esercita qui un'attrattiva irresistibile.
Parigi è l'unico termine di paragone con Buenos Aires; giorni sono, al
«Grand Prix» di trentamila _pesos_ all'Ippodromo, un diplomatico--che
potrebbe anche essere italiano--diceva ad una signora argentina moglie
del direttore d'uno dei migliori giornali bonearensi, accennando
all'elegante concorso: È un bellissimo spettacolo che forse nemmeno da
noi è dato di vedere spesso! La dama si volse sdegnosamente rispondendo:
«Sappiate, signore, che soltanto a Buenos Aires e a Parigi si può
ammirare una simile cosa!» Poche signore bonearensi avrebbero dato altra
risposta. Parigi è nella loro mente il compendio di tutto il bello e di
tutto il buono che possegga l'Europa.
Esse non hanno altra ambizione che di rassomigliare a delle parigine.
Tutte, senza eccezione, cominciano col trasformare la loro bruna
carnagione con l'impiego, senza economia, di tutte le colorazioni che
la chimica ha escogitato a questo scopo, dal bianco per il collo al
rosato per le gote, dal carminio per le labbra al livido per gli occhi;
s'inondano di profumi; s'abbigliano con quanto la moda _boulevardière_
lancia di più vivace e di più ardito. E riescono nel loro intento. Lo
straniero che non è ancora al corrente della strana manìa universale,
rimane _choqué_ del gran numero di... parigine che vede.
Alla sera tutto questo mondo si ritrova nel parco di Palermo sulle verdi
rive del Rio della Plata; lungo le avenide, bordate di palme rigogliose,
gli equipaggi sontuosi sfilano lasciando fra i pedoni una scìa
d'ammirazione e di maldicenza. Al di là del parco, delle villette e dei
giardini si seguono; nel silenzio della campagna, la vita tumultuosa si
spegne. La pampa incomincia; essa porta l'infinita e squallida
uniformità della pianura fino alla città: Buenos Aires è come un'isola
circondata da questo oceano erboso. Nulla viene a rompere la linea
sterminata dell'orizzonte, fuori degli innumerevoli elevatori a vento
dei pozzi artesiani, grandi ruote a palette sopra armature d'acciaio,
che fanno pensare a scheletri di fuochi d'artificio rimasti da un
immenso e misterioso festival.
*
* *
Dal lato opposto della città gli eleganti non vanno mai. Vi è la Boca
del Riachuelo, uno strano rione, un paese quasi, dalle piccole case di
legno, di ferro zincato, di casse da petrolio; qualche volta anche di
mattoni. Dalle vie sterrate, sulle quali il vento solleva il polverone a
vortici, si scorgono piccoli recinti pieni d'immondizie, depositi di
vecchi cerchi di botte, di mobili a pezzi, di cenci, di roba d'ogni
genere raccolta certamente per la strada e radunata non si sa perchè,
forse per quella strana manìa collezionista che accompagna talvolta la
miseria. In alcuni cortiletti al piede di alberi rachitici bruciati dal
sole, vegetano pomodori ed erbaccie fra i quali razzolano i polli. In
certi punti il terreno è paludoso; le vie sboccano in veri pantani. Qui
le case sono costruite sopra palizzate, come quelle dei villaggi
lacustri; l'acqua marcisce intorno alle abitazioni, tutta coperta da
muffe verdi. In alcune strade meno frequentate pascolano liberamente dei
buoi, che gettano al vento il loro muggito lamentoso. Per ogni dove
piccoli negozî oscuri di _almacen_ dove si vende di tutto; povere mostre
polverose coperte di mosche; osterie dalle quali esce il tanfo caldo del
vino come dalla bocca d'un ubbriaco; loschi caffè dove non si prende il
caffè...
La Boca migliora in prossimità del fiume; vi si vedono dei grandi
depositi di legname e di ferro, delle agenzie, degli ufficî. I
caseggiati si serrano uno contro l'altro in disordine, come se si
affollassero verso lo scalo per osservare curiosamente le golette, i
brigantini, i trealberi, i velieri d'ogni forma che ancora preferiscono
dar fondo al Riachuelo per antica consuetudine.
La Boca del Riachuelo è genovese. Qui l'aspro dialetto ligure è la
lingua comune. I genovesi sono pressochè i soli italiani che vivano
riuniti in Buenos Aires, che abbiano formato una comunità separata, e
che s'impongano talvolta anche alle autorità ora per avere una «Calle
Ministro Brin», ora per reclamare il diritto ad un corpo di pompieri
speciale, italiano. Sono marinai e figli di marinai, gente che vive
sempre del mare; scaricatori, piloti, battellieri, qualche armatore di
velieri: alcuni passati poi al commercio e divenuti grossisti,
almacenieri; e osti e mestieranti. Solo gli arricchiti lasciano la Boca.
Tutti gli altri italiani--ve ne sono più di duecentomila in Buenos
Aires--vivono dispersi per l'immensa città. Oh! ma non è difficile
trovarli!
I venditori ambulanti che trascinano la loro triste vita sui marciapiedi
sono tutti italiani. Questo si dice ufficialmente avere in mano il
piccolo commercio. Sono italiani i terrazzieri che scavano le fogne, i
lastricatori delle vie, i muratori arrampicati sui ponti, tutti coloro
che compiono i lavori più rudi, gli operai in genere. Basta correre là
donde viene il batter d'un martello, dove stridono delle macchine, dove
romba un lavoro qualunque esso sia, dove si fatica, per trovare
gl'italiani. Non v'è pietra, si può dire, che non sia stata messa a
posto da mani italiane; dalle mani italiane è uscita la Buenos Aires
d'oggi con i suoi casamenti tedeschi e francesi e le sue ville inglesi.
No, non è difficile trovarli i nostri connazionali! Fra i palazzi
sontuosi, anche nelle più belle _calles_ e _avenidas_--con quella
promiscuità che caratterizza questo _caos_ che è Buenos Aires--vi sono
delle porticine ai cui stipiti la miseria ha lasciato la sua sudicia
traccia. Sono gl'ingressi ai _conventillos_, le case immonde dove vivono
ammassati i poveri. Anche lì si parla italiano!
Fortunatamente vi sono palazzi e ville abitati da molti connazionali
nostri, e ciò conforta. Ma lì, lettori miei, normalmente non si parla
più italiano; la nostra lingua vi è bandita.
Lì generalmente «se habla la lengua del pais!...»


GLI ALLUCINATI.
[Dal _Corriere della Sera_ del 13 gennaio 1902.]

Buenos Aires, dicembre 1901.
Vengono e vengono gli allucinati, sempre, a migliaia e migliaia, tutti i
giorni. Essi seguono follemente il loro miraggio, abbacinati; non sanno
nulla, fuori che questa è la terra dove «si fa fortuna»; ignoranti e
incoscienti, senza volontà e senza idee, spinti da una forza misteriosa
e mostruosa, quasi un esercito di ipnotizzati, attirati da questa terra
come i vascelli dall'isola fatata nella leggenda araba.
È inutile che i giornali onesti gridino al mondo la grande crisi che
affligge questo paese: essi vengono. È inutile che le ricerche
imparziali facciano conoscere che nella sola città di Buenos Aires
quarantamila operai almeno sono senza lavoro; che tanta parte e migliore
della campagna ha perduto i raccolti, tanto che lo Stato distribuisce le
sementi; che il malgoverno ha rovinato i commerci, distrutto il credito,
paralizzato lo sviluppo industriale, colpito a morte la libertà e la
giustizia: essi vengono. È inutile che ogni giorno le liste dei
ricercati dai Consolati dimostrino la scomparsa di migliaia e migliaia
di emigrati, dispersi, spariti nelle solitudini delle pampas forse,
perduti in lontane _estancias_, finiti non si sa dove, non si sa come:
essi vengono. È inutile che i consoli, di fronte alla immensa miseria
che chiede tutti i giorni il loro aiuto, sconsiglino l'emigrazione: essi
vengono. Vengono, increduli al male, quasi convinti che il volerli
dissuadere significhi solo il volerli escludere dalla loro parte di
fortuna, sostenuti e consigliati non si sa da quale demonio.
Ogni nave che arriva ne scarica migliaia sulle banchine del Porto
Madero. Il loro numero è pubblicato vicino alle note di carico: essi
sono una merce d'importazione. Dal gennaio ne sono sbarcati
sessantacinquemila. Nel solo mese di ottobre sono arrivati dodicimila
emigrati, dei quali diecimila italiani. In questi ultimi tre giorni sono
arrivati tremila e ottocento emigrati, in gran parte nostri
connazionali.
L'«Hôtel de Inmigrantes» è gremito. Il lavoro di sparpagliamento di
questa gente per tutta le Repubblica procede alacremente. Annesso al
ricovero per gli emigrati v'è l'«Oficina de Trabajo» che riceve le
domande di mano d'opera e distribuisce il lavoro; gli emigranti con le
famiglie sono trasportati sul posto del lavoro a spese dello Stato.
Teoricamente l'organizzazione è bella, ma il suo funzionamento è troppo
spesso inumano. I lavori per i quali si richiede la mano d'opera sono
ben sovente temporanei; quando sono finiti, gli operai vengono
licenziati; i miseri rimangono senza risorse in mezzo ad un paese
sconosciuto, soli, inascoltati, ignorati. E non possono tornare
indietro; l'emigrante può viaggiare gratis su tutte le linee della
Repubblica, ma solo in una direzione: avanti, verso la periferia.
L'Argentina ha bisogno di dicentrare la popolazione; la legge è
sapiente, ma spietata. Giunti all'interno, gli emigranti sono
praticamente prigionieri del paese. Alcuni tentano il ritorno a piedi
fra disagi gravi ed anche pericoli. Non sono molti giorni che una
famiglia italiana di quattro persone, fra cui una bambina, è tornata a
Buenos Aires da Tucuman (milleduecento chilometri) a piedi, traversando
il terribile deserto delle Salinas. Inoltre l'«Oficina de Trabajo» non
si cura di esaminare le capacità degli individui per distribuirli
logicamente secondo i climi o i lavori. La personalità sparisce, un
emigrante vale l'altro, gli uomini diventano cose, macchine che non
costano nulla e che arrivano in abbondanza. Si domandano cento uomini
per il raccolto dello zucchero nel Salta o nel Chaco? Ebbene, si mandano
i primi cento che capitano a compire quel lavoro al quale gl'indi stessi
si rifiutano. Gli emigranti possono non accettare, è vero, ma questa
povera gente sente nominare il Chaco per la prima volta!
Nell'«Hôtel de Inmigrantes» sono accampati come un'armata alla vigilia
della battaglia. Il paragone viene naturale. Di fronte a tanta forza
incosciente si prova quella pietà profonda che solleva la vista di
soldati partenti allegramente per la guerra. Quale sorte li aspetta?
Queste sono le ultime ore che trascorrono insieme: il bastimento
rappresentava ancora un pezzo di patria; questo rifugio continua ancora
la vita di bordo. È un immondo lazzaretto della miseria, ma li tiene
uniti. Fra poco saranno dispersi a centinaia di leghe da qui e non
sapranno, nemmeno vagamente, dove si troveranno. Non potranno--come il
Maomettano che prega volgendosi alla Mecca--volgersi verso un punto
dell'orizzonte pensando: l'Italia è là. Non ho trovato che un solo
emigrante, sopra tanti che ho interrogato, capace d'indicarmi l'America
sopra una carta geografica che presentavo loro!
È questa immensa ignoranza che li rende docili, sicuri e preziosi per il
paese. Dove cadono si attaccano e producono, come il seme. L'idea della
prosperità che verrà li rende rassegnati a tutto, come una volta l'idea
del paradiso; poi, nell'ora del disinganno, sono rassegnati per
abitudine. Essi formano la vera ricchezza del paese; non esiste un «hijo
del pais» che coltivi la terra: per lui c'è l'impiego, l'affare, la
speculazione, il giuoco. È il lavoro dello straniero--e dicendo
straniero si può quasi significare italiano--che ha sviluppato le
risorse della terra, che ha reso possibili le industrie, attivato il
commercio, creato in mezzo secolo l'Argentina d'oggi.
Questo Governo conosce il valore inestimabile dell'emigrante, la massima
dell'Alberdi «gobernar es poblar» è sempre applicata: l'emigrazione è
incoraggiata con opuscoli, con pubblicazioni, con conferenze tenute
all'estero e principalmente in Italia; la diminuzione dell'emigrazione
ha destato allarmi, provocato provvedimenti. Eppure, questa merce umana
così preziosa, è ricevuta e trattata qui con molta meno cura dell'altra
merce, quella in balle! Per le casse di carta o di cotone vi sono dei
grandi edifici in muratura, dei _docks_ superbi ventilati e asciutti,
muniti di ascensori, ben situati sugli scali fra larghe vie in cemento.
Per gli emigranti vi è una grande baracca di legno cadente e infetta,
nella quale vengono condotti come mandrie all'ovile da inurbani
impiegati.
*
* *
L'«Hôtel» degli emigranti (lo chiamano Hôtel!) sorge su quella landa
indefinibile, irregolare, fangosa, che sta fra il torbido e tempestoso
Rio della Plata e la città, una striscia di terra che si direbbe la zona
neutra fra il possesso delle acque e quello degli uomini. Tutto intorno
dei pantani putridi coperti da una superba vegetazione acquatica mettono
un po' di verde sul piano squallido e un po' di miasmi per l'aria.
L'«Hôtel», di legno, ha una forma strana, sembra un gasometro munito di
finestre. Dei tetti bassi, neri e irregolari gli si aggruppano intorno.
Nel mezzo all'edificio principale, al gasometro, vi è un cortiletto
circolare, oscuro, umido, una specie di pozzo, sul quale si aprono le
porte delle camerate. Un sistema di logore scalette di legno, che dà
all'ambiente l'aspetto d'un retroscena, permette l'accesso ai piani
superiori. L'acre odore dell'acido fenico non riesce a vincere il tanfo
nauseante che viene dal pavimento viscido e sporco, che esala dalle
vecchie pareti di legno, che è alitato dalle porte aperte; un odore
d'umanità accatastata, di miseria.
L'infinito armento umano ha lasciato sulle cose, nell'aria, per ogni
dove le sue tracce. Le pietre delle soglie sono consunte; gli angoli
sono smussati, scavati, allisciati e anneriti dalle centinaia di
migliaia di mani che vi hanno strisciato su. Più in alto, all'altezza
dei volti, le tavole serbano dei segni più vivi di questo doloroso
passaggio: li direi le tracce delle anime. Sono nomi, date, frasi
d'amore, imprecazioni, ricordi, oscenità raspati sulla vernice o segnati
colla matita, talvolta intagliati nel legno. Il disegno più ripetuto è
la nave; il loro pensiero guarda indietro!
Il cortile, l'andito, gli spiazzi fra le baracche, le quali circondano
l'edificio a gasometro, sono affollati d'emigranti. Vestono gli abiti
migliori, messi il giorno dell'arrivo per un curioso sentimento di
dignità. Alcuni, sdraiati rinfusamente sui sacchi dei loro cenci,
sonnecchiano o pensano; altri passeggiano a gruppi discutendo, si
affollano alla porta dell'«Oficina de Trabajo» col cappello in mano,
rispettosamente: altri giuocano; delle ragazze si pettinano l'una con
l'altra; dei bambini macilenti giuocano sul pavimento gridando; delle
donne allattano. V'è il disordine triste d'un bivacco zingaresco: si
grida, si ride, si canta e si piange. Ma i più restano immobili e
silenziosi, stupiditi, indifferenti, stanchi, con gli occhi senza
sguardo, aspettando. La nostalgia li afferra, quella nostalgia
istintiva della bestia catturata, un torpore doloroso. Sulle faccie sono
i segni non dubbî d'un viaggio penoso, in alcuni occhi brilla la febbre.
Ma ecco che si sente il suono d'un organetto, di quella fisarmonica che
è l'istrumento prediletto dei nostri contadini; molti fanno cerchio,
qualcuno balla. Una donna singhiozza.
Le camerate sono silenziose. Lì cercano rifugio i solitarî: coloro che
vogliono nascondere il dolore. Dalle fessure delle pareti sconnesse
entra sibilando il vento, questo freddo e polveroso _pampero_, e
l'edificio ne è scosso. Nella penombra s'intravvedono delle figure umane
immobili, sedute o distese sugli immondi tavolacci. Nel vedere entrare
un estraneo, gli uomini si levano lentamente in piedi con impacciato
rispetto. Nella loro paziente aspettativa, l'arrivo d'un estraneo porta
sempre un po' di speranza. Un pover'uomo tiene in braccio un bambino
evidentemente malato. Il piccino abbandona la testa sulla spalla del
padre, respira affannosamente e chiede da bere con voce lamentosa.
L'uomo è un meridionale muratore; interrogato sul suo piccino, risponde:
--La notte fa freddo qui, s'è perduto il nostro bagaglio e non abbiamo
di che coprirci... Tanti bambini sono malati!
--Come s'è perduto il vostro bagaglio?
--Non lo so: veniamo da Salerno: all'imbarco un signore ha domandato a
me e ad alcuni miei compagni le ricevute del bagaglio. Arrivati qua, non
abbiamo trovato più niente.
--E non avete più le ricevute?
--No, niente!
Si tratta di uno dei soliti furti agli emigranti. Alcuni di questi
poveretti sono stati derubati a bordo; per essi i compagni di viaggio
hanno raccolto fra loro delle piccole somme, offrendo quel poco che
potevano. E questi poveri parlano della loro elemosina con una
semplicità sublime.
*
* *
La sera scende triste su questo luogo di miserie. Essa, come una
vecchiaja quotidiana, porta tutta la melanconia, la stanchezza, il
disinganno della giornata trascorsa. Il magro pasto--un pezzetto di
_puchero_ galleggiante in acqua sporca che dovrebbe essere brodo, e un
pezzo di pane--è divorato in silenzio. I quattro cinque impiegati
dell'«Oficina de Trabajo» se ne vanno; un «vigilante» indiano, legittimo
discendente degli antichi _timbues_, e ora rappresentante il potere
esecutivo, gira i cortili ispezionando; il direttore del ricovero, cioè
dell'Hôtel, un ometto calvo, barbuto e mellifluo, succhia il _mate_
sulla porta del suo ufficio e sorveglia distrattamente lo sfilare degli
emigranti che entrano nelle loro camerate. Si accendono qua e là delle
lampade alla cui luce rossastra la scena prende un aspetto sinistro.
Nell'oscurità si è spenta ogni gaiezza. Nessuno più ride o canta, non si
parla nemmeno: si bisbiglia. La notte è scesa anche negli animi. Pare
che la speranza non sia visibile che alla luce del sole. Se un chiarore
improvviso diradasse queste ombre non si scorgerebbero che volti mesti,
pensosi, attoniti o piangenti. In un angolo lontano la fisarmonica
riprende sottovoce, timidamente il suo suono asmatico e singhiozzante.
Il legittimo discendente degli antichi _timbues_ la fa tacere. Nelle
camerate si dorme o si sospira.
Nel fetido cortile a pozzo, divenuto deserto, il pompiere di guardia si
arrotola una sigaretta e se l'accende. La penombra lascia appena
scorgere tutt'intorno dei cartelli con la scritta: _Es prohibido fumar_.
Dalla vicina stazione del Retiro arrivano gli urli laceranti delle
sirene. Il rumore della città, come il muggito d'un mare, viene ad
infrangersi contro queste solitudini tetre. È l'ora in cui Buenos Aires
comincia a divertirsi. L'orizzonte è tutto rischiarato dal crepuscolo
livido della luce elettrica.
*
* *
Alcuni emigranti hanno qui dei parenti o degli amici: possono trovare
consiglio e appoggio; il loro collocamento è meno difficile e meno
cattivo. Altri--meridionali in gran parte--vengono in questa stagione
per lavorare ai raccolti, e a febbraio tornano in Italia. Molti di essi
hanno l'abitudine a tale emigrazione periodica, come le rondini;
conoscono il paese, guidano gl'inesperti, si lasciano condurre a spese
del Governo argentino senza spendere un _centavo_, e raggranellano
qualche cosa. Gli altri, la grande massa, sono venuti qua alla cieca,
con le loro famiglie, senza sapere nulla. Sono gli allucinati. La sorte
che li aspetta in questo momento, in cui antichi emigranti lasciano
certe regioni divenute ingrate al lavoro, può essere terribile. Un
ministro argentino diceva giorni sono: «L'emigrazione è necessaria, ma,
dato il momento, sono preferibili diecimila emigrati di meno che
diecimila disoccupati di più!»
Dissipata un po' la diffidenza, abituale nel contadino, ho domandato a
molti emigranti:--Perchè siete venuti in America?
I più rispondono:--Per tentare la sorte!--oppure:--Tanti vi hanno fatto
fortuna, proviamo anche noi! Per essi l'America è una lotteria;
giuocano, e mettono la vita per posta. L'idea di venire qua li prende
come un'ossessione, s'impadronisce di loro per contagio. Molti vengono
perchè hanno conosciuto della gente venuta prima di loro, semplicemente.
Un campagnuolo veneto che emigrava, faceva gli addii; un amico gli
disse:--To', voglio partire anche io!--E tutti e due con le loro donne
sono venuti in America, come si fosse trattato di far due passi. Un
contadino piemontese mi ha detto:--Ho emigrato perchè v'è qui mio
fratello.
--Meno male! E dov'è tuo fratello?
--Non lo so. Ci scrisse tanti anni fa dalla Terra del Fuoco dove era
occupato a tagliar boschi, poi non ha scritto più.
E quest'uomo, che non sa nemmeno cosa sia la Terra del Fuoco, che non
conosce la sorte di suo fratello, lascia tutto e viene qua con i suoi
figli, attirato dall'ignoto. Nessuno si è informato delle condizioni
dell'Argentina oggi--già per molti America, Buenos Aires e Argentina
sono sinonimi!--nessuno ha pensato a chiedere dei consigli alle
autorità. Hanno tutti una grande diffidenza dei consigli, li ascoltano
con l'aria di crederci e non crederci. La paura d'essere ingannati è
caratteristica in loro; ad essa sola del resto i contadini debbono
l'immeritata fama di scaltri. In ogni cosa che si dice temono un
tranello. I più franchi domandano:--Ma voi che interesse avete a dirci
così e così?
--Per il vostro bene!
Essi scuotono la testa increduli--e disgraziatamente non a torto--che il
loro bene stia a cuore a qualcuno. Sono imbevuti di false idee
leggendarie sulle favolose ricchezze del paese, la incredibile fecondità
del suolo, la cortesia e bontà degli abitanti, sempre le stesse, che
basterebbero da sole a provare l'esistenza di agenti catechizzatori.
Bisognerebbe ricercarne alcuni dopo un anno di America e rimandarli al
paese nativo a narrare sinceramente le loro avventure. Sarebbe il
miglior rimedio contro questa emigrazione cieca e disordinata, senza
organizzazione, senza guida, senza protezione, che è per la Madre Patria
un grande dolore, e una ancora più grande umiliazione!


LA CRISI ARGENTINA--TROPPA BUENOS AIRES.
[Dal _Corriere della Sera_ del 14 gennaio 1902.]

Buenos Aires, dicembre 1901.
L'Argentina è in preda ad una grave crisi; crisi di tale estensione che
parlare di essa significa parlare di tutto. L'intera vita della
Repubblica ne è affetta. Non è la malattia d'un organo; è la malattia
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